Federigo Tozzi
Novale

Parte seconda

24 settembre 1907.

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24 settembre 1907.

Firenze, non dandomi quel che la mia ambizione voleva, cominciò a produrre la malvagità nel mio animo (A14). Io non cercai mai una rispondenza da sostituire alla nostra. E volevo soppressa questa, perché non trovava più nel mio animo quelle inclinazioni morali che l’avevano mantenuta. Io volevo dimenticare la nostra relazione, perché mi sembrava che un altro orizzonte fosse per aprirsi. Non volevo più scriverti per dimenticare (e ci riuscii) tutto quel complesso di vita che la circondava. Ciò che produceva le mie lettere a te, doveva essere superato. Io ti trattai come tutti gli altri. Ma tu, quanto più io volevo ottenere, insorgevi in me. E io, tornato a Siena, ti scrissi: «Scrivimi». Ora ricordo di averti parlato un’altra volta di questo punto. Tu non rispondesti, e io ne rimasi sdegnato. Perché non scrivevi? Io ero molto salito nella mia coscienza, e ne provai quel che si prova quando siamo delusi. Io t’aspettavo sempre. Ogni giorno aumentava il tuo orizzonte.

Una mattina guardai lungo tempo il sole e ne piansi.

«La mia giovinezzascrissi – si leva fiammeggiando. Mille angioli gridano in questo sole. Ma Dio solo li ode. Il mondo si volge e non ascolta». Ed altro simile, cui non ricordo più.

Quando stavo chiuso in casa per gli occhi, cominciò il mio vaneggiamento intellettuale. Io volevo sopprimere gli uomini e vivere delle mie allucinazioni. Mi sarebbe impossibile rientrare in tale stato mentale. Io non comprendevo più. Non comprendevo più le tue lettere. Se tu ricordi le mie, conosci di quale sforzo inane io fossi pieno, per esprimere quel che non pensavo completamente. Avevo intraveduto qualche cosa d’ignoto a me, e volevo esprimerlo. Ma non vi riuscivo, perché ne ero troppo al disotto.

Una volta, d’inverno, io camminai su la neve ed entrai nella chiesa di S. Francesco; ero accompagnato dallo stesso uomo che vedesti con me la prima volta che uscii e ci trovammo ai Quattro Cantoni. Tornato a casa scrissi: «Il vento mormora le preghiere ai vetri della Cattedrale.

Il vento che abbatte nei piani le grandi foreste».

Ripiglio a lumeggiare il periodo di Siena, che precedette la mia malattia. Rimasi offeso che tu ti offrissi a me soltanto quando cominciai ad ammalarmi. Perché prima no? Avrei voluto, quando mi sentivo bene, essere amato secondo i miei bisogni. Ed io non capivo affatto la tua astensione dal manifestarmi l’affetto.

Ora capisco che tu hai altrettante ragioni per dimostrarmi che non ti pareva conveniente il giungere prima a me. Da Firenze non t’avevo mai scritto. Ma, appunto, il malinteso nostro è sempre sorto dal nascondiglio in cui tu sei entrata quando di più avevo bisogno d’affetto. Tu, in silenzio, mi amavi. Ma che valeva a me tale amore? Io non potevo toccare il tuo spirito. E il mio temperamento non è fatto di rinunzie.

Per un istinto ampio di imitazione, io volli fare lo stesso. Volli sentire in me quegli spazî silenziosi di affetto, in cui l’anima cammina come in sogno. Ma sorpassai quel che volevo. Giunsi a negare la realtà di quel che non era in me, e a dare realtà soltanto ai fenomeni del mio spirito. Chi sa da quali antri io ti scrivevo!


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