Federigo Tozzi
Novale

Parte seconda

16 dicembre 1907.

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16 dicembre 1907.

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Ma come tu diverresti un oggetto comune!

Senza ch’io compia un atto di riflessione tu diverresti una persona qualunque, priva della mia anima. Diverresti come tutte le persone ch’io conosco. Un impulso decisivo a difendermi da te, e la ricerca insaziabile di un’anima che mi comprenda ed è soddisfatta solo del mio affetto.

Io capii che tu temevi che io divenissi estraneo a te e mi comportassi come se tu non esistessi.

E ciò che t’ha scusato meno, dopo, sono state le tue scuse. Tu non dovevi ragionare. Tu dovevi comprendere la mia disperazione...

Basta. Io ti scrivo sensazioni di questi giorni, le quali io avrei scritte in un mio libretto se tu non fossi divenuta la pagina dove si segnano tutti i miei pensieri.

È cosa che se ne va.

Ma voglio dirti anche che molte volte ho supposto che tu non mi trovassi abbastanza serio da prendere la tua anima. E ne ho sorriso con sarcasmo. E questa cosa ti prova quanto io sia sensibile a te. Ma, più di ogni altra cosa io incolpo la nostra separazione. Se tu avessi vissuto con me, non mi avresti ingannato mai. Penso così!

Sono stupido a scrivere queste cose! Dovrei essere tanto forte da lasciarle passare, senza che te le confidassi. Ma tu le leggerai come le hai intuite. Fai conto di avere trovato qualche foglio dove io le avessi dimenticate. Io non te le scrivo. Tu me le perdoni, perché sono tuo e rivenuto a pensare con te. E quando penso con te, sono felice. Io ho trovato un’altra anima. La mia non era sufficiente a contenere i suoi contorcimenti, e tu l’hai presa e la fai credere. Sì: tu m’hai fatto credere.

Io ho bisogno di essere amato. Quando sono vicino ad una siepe, mi sembra ch’essa debba comprendere il mio desiderio. E quando penso ch’essa sa che io sono adorato, ch’io possiedo finalmente quel che ho domandato sempre, mi sembra che ne provi con me la soddisfazione dell’infinito.

Essere amato! Io non aveva mai saputo che in ciò stia il limite spirituale: la felicità. Non avevo mai saputo d’essere amato.

Da te, Emma, dipende la nostra vita e la mia spiritualità. Una volta, quando non ci scrivevamo, io studiavo, e nelle parole e nei libri era la realtà percepita da me. Gli uomini non esistevano. Io avevo sensazioni di tal genere soltanto. Era lo stesso ch’io camminassi non tra gli altri. Io non volevo nessuno d’intorno. Volevo che non esistesse alcun altro uomo. E nei libri io trovavo la mia realtà. Così tornai a te, perché mi ero conservato e preparato per la tua anima. Tu non eri uscita mai dal mio intelletto. Quand’io mi rivolsi alla vita, trovai te sola. E ricordo bene la sera ch’io mi decisi a scriverti. Lo gridai da solo: «Le scrivo».

Sono ricordi veri. Perché non dirteli? Siamo lungi, non è vero? Siamo prossimi alla nostra realtà.

Tu hai sorriso di me quando hai creduto ch’io m’avvicinassi a te o ti guardassi con un pensiero che non appartenesse al nostro infinito; ma hai avuto torto. Tu mi facesti trovare la mia anima, e tu l’hai conservata. S’io sono un superiore, tu ne devi essere lieta. Della tua letizia pura, inesprimibile.

Ecco perché io sorrido d’ogni altra cosa. Ecco perché io passo come un soffio davanti a tutto. Tu sola sei reale.

E se ho pensate cose volgari di te, è stato perché non m’hai dimostrato sempre di comprendermi. Di non sempre comprendere quel che è il mio affetto. E allora t’ho come maledetta. T’ho scacciata da me, dal mio spirito puro, che vive per la tua realtà in una carne pura.

Ma se così non ti piaccio, basta che tu mi ami e ch’io abbia confidenza in te. Tu puoi condurmi dove vuoi. E di ciò soltanto sono preoccupato.


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