Federigo Tozzi
Novale

Parte seconda

1 gennaio 1908.

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1 gennaio 1908.

(A20) Stasera ti faccio un poco di... biografia.

Ho fatto fino alla metà del terzo anno di ginnasio, al seminario. Fui fatto allontanare dal Rettore, che ora è vescovo a Montalcino, perché non studiavo e per la non buona condotta. Infatti... ci sarebbero molte cose della mia condotta.

Del latino ricordavo poco. Più della sala ove mi facevano lezione e del teatro dei seminaristi. E per avere appunto, durante una recita, scandalizzato i vicini con le mie schiette osservazioni intorno... all’arte degli attori, fui escluso dall’intervenirvi, e pochi giorni dopo fu consigliato mio padre a togliermi di la giù. Bisogna che dica la verità.

Allora fui messo, dalla mamma, a ripetizione da quel prete da cui ho imparato il latino tre anni fa. Il quale s’era preso l’incarico di farmi fare terza, quarta e quinta, in sette mesi, e prepararmi per le scuole governative. Io non so quanto ero intelligente. Ricordo che mi sentivo quasi sempre male; avendo la febbre quasi tutti i giorni. E il volto di quel prete mi era odiosissimo. Non lo potevo guardare più.

Dopo due settimane, la mia mamma, mentre si accingeva a portarmi a ripetizione... (A21).

Stetti tre giorni senza andarvi. Mio padre non si combinò con il prezzo delle lezioni, e non mi ci mandò più. Credo che si guastasse per due lire al mese.

Da ragazzo avevo attitudine al disegno, quantunque sentissi, dentro di me, che quella manifestazione era la preparazione di una cosa più interna. Avevo quest’idea.

Ingrandivo i ritratti discretamente. E fui mandato alle Belle Arti. Feci il corso d’ornato, mezzo di quello dell’Architettura e, poi passai al corso della Figura. Ohimé! Le sospensioni erano frequentissime. Alcune meritate e altre per malvagità di un tale. In fine, lui sospeso per sempre, credo. E non volendo essere picchiato più, smisi.

Questi fatti mi trasformarono interamente. Disegnavo un giorno, e due andavo con i compagni a bagnarmi. Sudavo, m’eccitavo alla vista di tutto. E anche ora che scrivo ho presente quella sensazione di avidità con che scoprivo le cose. E come esse mi si manifestassero come cose del mio animo.

Dopo un anno di questa vita, fui messo alle scuole tecniche. Tentò, un , di farmi ammettere al secondo anno, ma fui schiacciato in aritmetica, e dovetti studiare tutti i tre anni. Al principio della seconda, per una sospensione, fuggii con due altri, senza soldi, e chiesi il pane fino a Certaldo. Al terzo anno ebbi molte sospensioni, tanto che fui costretto a dare l’esame di ammissione all’Istituto ad Arezzo. Passai io solo. Feci il primo anno qui a Siena, in quell’istituto tecnico posticcio. E a Firenze non finii il secondo perché mi sentivo continuamente male. Male d’esser solo, e più volte pensai di suicidarmi.

Detti l’esame di ammissione al terzo anno, avendo continuato da me il secondo a Siena, e fui bocciato in italiano e in disegno (A22).

Allora non seppi più che fare. Le questioni in famiglia erano frequenti. Io facevo una vita sciocca e sudicia. Quando ti scrissi non pensavo veramente di essere quale sono. Più volte ho paragonato questo passo all’ultima vignetta delle avventure di Pinocchio. Mi cadde, con te, la veste di sudicio e di volgarità che mi s’era addossata. Ed ho ricevuto ora qualche cosa, che somiglia a pena soltanto alla mia purità dell’adolescenza. E, in questi giorni, di essa ho riavuto tante sensazioni.

Ma io non so perché ho dovuto essere prima un uomo comune. Come fossi avviluppato da una tela di volgarità e di stupidità.

Quanto tempo sei stata attesa, senza che ne avessi coscienza? Forse mai se non quando tu venisti.

Ma a parlare di quel tempo mi pare di essere stato un bruto.

Allora leggevo i materialisti: il Comte, il Bu... (non ricordo nemmeno il nome), il Darwin.

Durante la terza elementare ebbi il tifo. Stetti in fin di vita due volte, e ricordo le pallide allucinazioni che avevo. Ma come erano dolci alla mia imaginazione l’aspetto della campagna e i suoni ch’io udivo! Mi pareva che la campagna avesse una voce speciale, quasi un fruscìo. E quando fui guarito, vedevo dentro di me tante imagini che mi davano come una pazzia.

E quando tornai a scuola, dopo essere stato una settimana a Roma, presso quel commendatore, non ebbi più voglia. Credo che sentissi dentro di me un vocìo assordante di cose. Sognavo di giorno.

Non ricordo più nulla. Il tuo affetto mi ha ripurificato. Lo sai.

La tua conoscenza mi dette un’energia inaspettata. Tu mi rivelasti l’anima. Prima che io scrivessi a te, non pensavo e non sapevo scrivere.

E quando ti lasciai, non per mia volontà, avevo bisogno di raggiungere un’altra sommità del mio spirito. Oh, come mi sentivo avvilito per non poterti distruggere! Io ti credevo un danno, per sempre. Io volevo, nel vuoto di me stesso, trovare la nuova perfezione, la nuova forza cui avevo percepita. E prima ch’io tornassi a te è stato necessario ch’io abbia toccato il culmine di questo sforzo, ch’io abbia sentito la mia vita esser piena, ch’io non potevo aggiungere altra cosa a me stesso. Ma mi sentivo arido; dell’aridezza prodotta dalla mia volontà (A23). E più d’una volta, t’ho detto, in quel tempo, essere stato pazzo. E non avrei potuto nemmeno imaginare l’affetto di ora.

È necessario però che tu apprenda meglio di quale affetto io t’adoro, e come per produrlo è stata necessaria la modificazione morale avvenuta nel silenzio. Perciò ti mando quest’altra lettera di cui t’ho parlato stamani.

Piacerebbe a te, forse di sapere come io abbia conosciuto Dio. Sono per scrivertelo. Oggi la mia anima è come un prato ben umido dalle piogge che lo hanno coltivato, e io parlo.

Fu da principio un insolito aspetto di me stesso, di cui anche temevo. Stetti molto in dubbio se dovevo accogliere questa visione che mi sembrava strana. Ma essa fu tirata alla sua pienezza dal ricordo di te. Non dico bene ricordo. Io ti amavo; amavo quel che m’avevi dato di te, e lo desideravo un’altra volta. Ma io sfuggivo te perché non eri quel che il mio animo sognava. Parevami che di noi non fosse rimasto qualche cosa se non nel mio pensiero. Non so perché non sapemmo continuare il nostro contatto. Che si disperse in me per una serie di considerazioni intorno a fatti che mi dipingevano te incapace di continuare e di comprendere la nuova superiorità che m’ero imposta. E finii col divenire assolutamente indifferente alla vita. Io studiai, studiai tanto; e leggendo Dante ora sento quella nuova volontà. Ma essa non sarebbe fiorita senza ch’io t’avessi amata. Ora sento tutto il tuo affetto! E, secondo la mia coscienza, mai finisco di piangere sul male che ti feci. Spesso il mio stato è tale.

Dunque, dicevo, il ricordo di te fece spuntare l’idea di Dio. E fin dal giorno ch’io son tornato a te, mai nel mio animo il mio affetto è stato separato da esso. Così ho provato per te, e provo, adorazioni che sole mi danno le idee che ho. Anche tutto il mio intelletto è legato ad esse.

E s’io voglio sentirmi come raffermato in una vita che io non so esprimere, bacio il tuo ritratto. Mi sento bene, allora. Comprendo la terribilità dei nostro affetto. Prova a pensare che un istante tu non diriga la mia anima e la mia carne! Prova a pensare ch’io non abbia nella mia carne le tue volontà! E, senza ch’io ne sappia la ragione, quest’affetto è come sospeso su l’abisso di Dio. C’è l’Inesprimibile intorno, c’è una voragine di una potenza superiore. Ecco: Dio esiste. Io Lo provo. La mia anima si spaventa, quasi.

E questo bisogno, questa fede, sono date da te. Io voglio avere un concetto di te, come io te ne scrivo. Io lo provo. Sei mia!

Eccoti quel che provavo quando ero condotto per forza in chiesa (A24). In quella di S. Donato ero dispiacente che non suonasse l’organo; e i dipinti che sono dietro il coro erano guardati da me durante tutta la mezz’ora. Mi sembravano vivi. Mi scuotevano. Credo che se n’avvedesse anche la mamma. Come seguivo il moto di un angiolo, che con la spada percuote un dannato che cade in giù! Ora lo taglia! E tutti gli altri angioli mi davano un senso di movimento e di scompiglio. La domenica dopo mi meravigliavo che fossero sempre negli stessi luoghi, ed io studiavo il dipinto da un altro verso. Vi trovavo allora nuove battaglie, nuove vicende, e... poi mi impazientivo a stare in ginocchio!

A Provenzano, guardavo i volti dei canonici. La messa cantata mi piaceva per le cotte e gli ori. Le voci no. Il messale grande, molto; ed anche il gruppo dei preti che vi leggevano. Anche a Provenzano guardavo le pitture. Ma questa chiesa era piena di contadini, che stavano in ginocchio soltanto con una gamba, e sdrusciavano gli sputi con le scarpe. Il che pensavo avrei fatto anch’io quando fossi stato grande.

La mamma aveva un vestito di un rosso pallido, che non mi piaceva. Molte volte l’avrei stracciato. A lei ciò sarà parso una ragazzata, ma era l’impeto cieco di distruggere quel che non mi piaceva. I suoi orecchini mi piacevano.

Una volta, ella mi dette una Beatrice Cenci illustrata. E perché io sostenni che quei passi d’autore messi a principio di ogni capitolo non erano la spiegazione delle figure, come ella diceva, ne buscai...


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