Federigo Tozzi
Novale

Pagine di taccuino

4 settembre 1903.

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4 settembre 1903.

Entrai in una galleria di quattrocento metri. Il terreno era fangoso, e le traverse della ferrovia, che serve per il trasporto del minerale scavato, sconnesse e disguazzanti.

Le pareti gocciolano. In principio si ha un’impressione di freddo, poi giungono soffi caldi di vento.

Quando fummo, io ed il sorvegliante, quasi a metà della galleria ci dovemmo fermare in una incavatura, per lasciar passare gli operai scaricatori. Erano cinque e nudi. Spingevano i vagoncini carichi di minerale, ansando.

Quando passarono mi salutarono.

Proseguimmo ed entrammo nel primo cantiere: una grotta, nera e scabrosa, in fondo alla quale tre minatori battevano colpi di martello su i loro lunghi scalpelli. Ciascuno aveva una lucerna a guisa di cipolla, alimentata con l’olio minerale.

L’aria, per me, era insopportabile. Provavo una pena come se il mondo intero mi avesse imprigionato per sempre in uno dei suoi buchi. La lanterna, a gas acetilene, mi tremava nella mano.

Bisognava urlare per farsi intendere.

I colpi su gli scalpelli vibravano per tutta la volta. I minatori avevano l’aria di dirmi: – Perché sei venuto a vederci? E il mio sorriso rispondeva: – Vi amo.

Ci fu per un istante il ritorno violento de miei sentimenti, e mi vergognai d’essere andato in quel luogo a godere delle sofferenze altrui. Giunsi a pensare: Io non ho il diritto di credermi superiore a loro. Queste ombre d’alcoolici e d’idioti hanno in sé una potenza smisurata: nel loro pugno si condensa l’energia dell’umanità. – E per un istante non vidi che il lavoro trionfante nel mondo.

Ma il sorvegliante mi spiegava le qualità della roccia, ed io con la testa accennavo d’intendere ma guardando altrove: dove quelle membra si scaldavano affannosamente, nel tormento del bisogno.

Di scendemmo per una botolina – in cui era infilata, verticalmente, una scaletta di legno – in un altro cantiere. Era abbandonato. Rimaneva ancora l’armatura consistente in una piramide di traverse, nel mezzo della grotta. Dai fianchi, sporgevano massi di minerale sterile, luccicante in un verde smorto. Mi parve di vedere una fila d’operai a martellare. Il letto del cantiere era umido, e vi erano alcune tavole imporrite.

Risalii a stento ed entrai in un altro buco. Dovetti fare venti scalini con le mani e con i piedi, piegando le spalle per non urtare ne’ macigni. Il lume mi batteva su le ginocchia. Vidi sei operai che cercavano un mezzo acconcio a far saltare in aria una grossa porzione di minerale. Il sorvegliante che era con me dette loro alcuni consigli che furono accettati in silenzio. Quegli uomini, quando mi passavano accanto, si voltavano a guardarmi fissamente. Io cercavo di leggere nei loro occhi una qualche espressione, ma li trovai ghiacci e pieni di ombre. Che cosa attraversava il loro cranio sfuggente? Alcuni non risposero al mio saluto, e gli altri lo fecero quasi di malavoglia. Perché salutarmi?

Lasciandoli, mi parve che piombassero in un’ombra di delusione.

Il sorvegliante mi propose di visitare altri cantieri, ma io ero stanco e volli tornare al sole. La mia giacchetta di minatore era fradicia per le gocciole ghiacce cadute dal soffitto; la camiciola s’attaccava alla pelle sudata.

Mi sentivo male. Un certo silenzio era penetrato in me, interrotto da irruzioni sensatoriali. Pensavo certe ariette popolari che avevo cantate il giorno avanti, a come rideva il prete, a quello che avrei veduto nelle altre gallerie. Ebbi il desiderio di tornare subito dentro.

Entrammo in una galleria di centoquaranta metri. Non aveva nulla differente all’altra, se non che era più umida, ed alcune armature avevano ceduto alla pressione del minerale. Mi parve che qualche traversa si dovesse staccare e farmi del male.

Guardai il sorvegliante: pensai che egli mi accompagnava volentieri, e sorrisi alla sua nuca rugosa e sporca. Il suo lume dondolava malamente. Guardai la fiamma del mio, e mi parve molto bella. L’acetilene bruciava con un fruscio di gonnella di seta: mi fece pensare ad una cosa indeterminata.

Da’ miei capelli cadde una goccia di sudore su la mano: ebbi timore d’ammalarmi.

Rivedevo il contorno esteriore de’ monti verdi e il sole. Un uccello svolazzava nel cielo.

Ma il sorvegliante mi toccò nel braccio e disse: «Scenderemo nella sala dov’era la pompa».

– La pompa? – E mentalmente continuai: «c’è una pompa. Dev’essere pericolosa. Perché?».

Mi rispose:

– La pompa che serviva a tirar fuori l’acqua d’una sorgente, che abbiamo incontrata nel seguire un filone.

Ebbi uno sguardo di diffidenza, ma sapevo bene che certe macchine si trovano nelle miniere.

Scendemmo per una scala di legno abbastanza larga. Un soffio gelato mi passò su la fronte; posi la mano al cuore. Udivo lo scroscio di un torrente rapido. Pensai che la miniera ne poteva essere invasa. A quel fracasso s’univa il gocciolare sommesso delle rocce.

Percepivo tutto distintamente.

Da una parte della scala era una specie di fosso colmo di ombra. Supposi che l’acqua corresse dentro. Ma dovetti accorgermi che, invece, passava di sotto alla scala dove erano i miei piedi, e che quando un gradino si piegava al peso del mio corpo ne usciva a piccole onde che dilagavano. Era un’acqua sporca di sostanze di ferro, e quindi giallastra. I muri eran coperti di quel colore.

La scala fu molto lunga. In fondo era cessato il rumore dell’acqua ed udivo i colpi sordi dei minatori.

Una crociera di gallerie si apriva, ma io mi ricusai di visitarle. Trovavo sconveniente guardare degli uomini affaticati.

Entrai nella stanza della pompa: avevo creduto di trovarla sola, e, invece, vi erano molti operai. Quello che facessero precisamente non so. Ero preoccupato da certi tonfi enormi che facevano tremare il suolo, e dallo sbuffo caldo e forzato di un tubo rosso. Dopo un poco, scorsi la gabbia che scendeva e si fermava al livello della stanza. Vidi che un operaio vi era dentro.

Il sorvegliante guardava i minatori e parlava a me. Mi dava delle spiegazioni che non m’interessavano. Avevo paura di una idea: che la stanza dovesse scoppiare con tutte le provocazioni che le facevano quegli uomini. Il tubo, da cui schizzava quell’acqua bollente, perché non sarebbe scoppiato? E perché qualche congegno dell’ascensore non sarebbesi strappato ?

Quei petti nudi mi facevano male. Il pelo arricciato, dove le gocce di sudore si soffermavano prima di cadere, più male ancora...

Gli operai rovesciavano in terra lunghi pezzi di legno bianco. Pareva che si sfasciassero.

In terra, per quanto era lunga la stanza, era uno strato di cemento; e, ficcato in questo, rimanevano gli avanzi della pompa, che consistevano in cavicchi tozzi di ferro verniciato in rosso.

Mettevo una cura estrema di non urtare in quelli: mi sarei vergognato molto.

Degli uomini si muovevano negli angoli di fondo: uno cercava nella sua giacca.

Rumori violenti mi ferivano senza posa: percepivo un urlo confuso, in cui passavano, di quanto in quanto, dei suoni che non riuscivo a spiegare.

Il sorvegliante mi domandò se avevo caldo. Gli risposi mostrandogli il viso. Sotto le ascelle mi si appiccicava anche la camicia. Le scarpe erano umide. Mi doleva la testa.

Scendiamo?

Scendiamo.

Entriamo nella gabbia, ed io domando come devo attenermi. Da prima credo che quella scesa mi dia una vertigine, ma poi mi assicuro di no. Vedo i ferri scorrere, larghi e piatti, sopra ad un altro rettangolare, con un moto sicuro.

Il sorvegliante tossisce più volte: io credo che sorridessi.

Intravedo diversi tubi verniciati in rosso. Finalmente provo un sobbalzo; la gabbia ha urtato terra.

– Ha avuto paura?

– No, no.

In un polverone, qua e acceso da lumi rossastri, vedo agitarsi molti uomini. Prima d’uscire esito e guardo la mia lanterna. Il caldo è insopportabile; più tardi ho saputo che eravamo a 47° sopra zero ed a una profondità di 150 metri.

Viene incontro un giovine. Io saluto ma non mi risponde. Mi pare beffardo. La sua fronte è solcata da un raggio di rughe secche, come se un ragno vi avesse accomodate le sue zampe. Chi è? Ha gli occhi chiari e cristallini, la bocca contorta. Passa oltre. Ne vedo un altro a cui mancano le estremità interne dei baffi: la bocca ha una cicatrice verticale. Non lo saluto.

La stanza dove sono tutti questi uomini ha il pavimento soltanto alle pareti: nel mezzo è una fossa rettangolare coperta di tavole messe a caso. dentro si muovono le perforatrici a vapore, che non ho voluto vedere. I loro colpi di una sonorità sorda mi danno una pena fisica.

Passo in una nuova stanza, dove si sta costruendo una nuova pompa. Non mi curo di nulla. Guardo i minatori. Sono agitati. Ne saluto qualcuno che mi risponde con una indifferenza seria. Un giovine mi guarda nel viso, sporgendo il suo in avanti. Quando ho cercato di contraccambiare lo sguardo, è sparito. Che significava?

C’è un altro sorvegliante; un uomo alto e dagli occhi slargati, che mi alcune spiegazioni con sicurezza. Quello che mi ha accompagnato smozzica il lucignolo del suo lume. Voltandomi a sinistra, scorgo un ventilatore, dalle ali d’acciaio, girare come un vortice affannoso, ronzando acutamente.

Il sorvegliante s’avvicina ad un operaio bruno e gracile, e gli parla all’orecchio. L’operaio guarda ora me ora il sorvegliante, tenendosi i pugni sui fianchi. Mi parve che egli fosse più degli altri rôso dalla fatica, e che la sua volontà si fosse ritratta per non più uscire. «Quell’uomo non deve pensare a se stesso. La sua anima brutale, sofferente, è scomparsa nel tormento selvaggio dei sensi. Il lavoro, come un incubo eterno, ha succhiato il sangue nero della sua vita».

Il sorvegliante mi chiama, e mi dice se voglio vedere la porta che rattiene l’acqua calda.

Esito. Non volevo più saperne. Ma egli si era avviato, ed io lo seguo. In fondo ad un corridoio, largo ed alto un metro, scorsi una paletta di ferro: somigliava ad una vanga piantata nella terra.

Ma il caldo era insopportabile: mi aveva ridotto di una debolezza estrema... Temevo di sentirmi male. Dissi di risalire. Mi pareva che il tempo fosse lentissimo.

Lasciai con un certo piacere quegli uomini. Pensai ch’io fossi un loro nemico, com’essi erano a me: ero diffidente d’ogni più piccolo gesto.

Entrando nella gabbia mi sentii inquieto. Il sorvegliante non mi disse più nulla. Però, a un certo punto della salita, domandò sorridendo:

– Che ne pensa di quello che ha veduto?

Non ricordo la risposta che feci mentalmente: era un accozzo di sentimenti disparati e terribili. Perdurava in me la violenza delle sensazioni. Ma risposi così, con un sorriso nervoso ed evitando lo sguardo del mio compagno:

– Io?... Vorrei che venissero a minare le nostre città.

E dentro di me, ebbi un senso di timore. Mi parve di vedere una cosa lunga e bianca giacere di fianco; mi accorsi che mi era cominciato a dolere la testa e che respiravo male.


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