Federigo Tozzi
Il podere

IX.

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IX.

 

Qualche volta Remigio si sentiva impazzire e qualche volta provava un benessere immenso, che lo rianimava; come quando, in mezzo all'aia, il vento gli batteva sulla faccia. Queste disuguaglianze erano come il respiro affannato della sua giovinezza; della quale non s'avvedeva né meno.

Aveva voglia di mettere a posto tutti i debiti e di guadagnare; e, immaginandosi di poterlo fare in pochissimo tempo, cominciò ad alzarsi la mattina prima degli assalariati. Li attendeva nel campo, stava a vederli lavorare mezze giornate intere, non rientrava in casa finché non erano andati a cena. Ma non sapeva dirigerli; anzi, senza farlo capire, egli sperava d'imparare per l'anno dopo, lasciando intanto che mandassero avanti le faccende come volevano; limitandosi a darne il consenso o a comandarne una piuttosto che un'altra; in parte indovinando, in parte ricordandosi di quel che aveva imparato da suo padre; e giacché Picciòlo e Tordo gli dicevano sempre: "Se fossi padrone io farei così questa tal cosa o tale altra", egli sceglieva il consiglio che gli pareva migliore e lo dava come un ordine suo, che dovesse essere rispettato."

Berto non lo consigliava mai; e Giacomo, un mese prima di morire, l'aveva licenziato perché era quasi impossibile parlargli senza che facesse la grinta; e perché rubava ogni cosa.

Remigio, illudendosi che doventasse abbastanza rispettoso e sopportabile, lo trattò anche meglio degli altri; mostrandogli che non teneva conto dei dissensi avuti con il padre.

Ma Berto se ne approfittò subito, per far di più il proprio comodo; facendo capire che non gliene importava niente. Anche la sua moglie, Cecchina, era la donna più maldicente che ci fosse fuor di Porta Romana: magra e con due occhi neri come quelli dei ramarri, portava via le prime pesche, i primi carciofi, la prima uva; nascondendo tutto in una tasca fatta dalla parte di sotto del grembiale. Berto era tarchiato e grosso; con la testa rotonda; la fronte stretta come la lama di un coltello; gli occhi porcini e lustri.

Siccome non aveva potuto sfogare il suo risentimento contro Giacomo ammalato, cercava la prima occasione per rifarsela con Remigio; sicuro di non trovare la stessa resistenza. Quando Remigio stava in modo da voltargli le spalle, egli lo guardava con l'idea di leticare battendolo su la nuca; quand'era voltato a lui, invece, sfuggiva i suoi occhi, non rispondendo mai come il giovane avrebbe avuto piacere, provocandolo o con il silenzio sospettoso o fingendo di capire a rovescio; per essere ripreso e rimproverato.

Remigio ci pativa, e se con dolcezza gli spiegava quel che aveva voluto dire, l'assalariato mostrava di non esserne contento; e, qualche volta, addirittura, disapprovava bestemmiando. E vedendo che Remigio ne restava confuso e mortificato, diceva:

"Ora non venga a rifarsela con me; non mi dica niente, perché io non intendo d'essere rimproverato da nessuno."

"Ma l'ultima parola voglio dirla io, perché sono il padrone."

"Come sarebbe a dire? Non c'è bisogno d'insistere tanto a lungo, mi pare. Ma, del resto, io non costo niente; e quindi può trattarmi come crede."

"E chi t'ha trattato male?"

"Io non lo so: non sta a me farglielo rilevare."

"Dimmi di quel che ti sei offeso."

"Oh, io non ciabo più! Faccia in un altro modo, però; se vuole stare d'accordo con me, e se vuole che io non me ne vada."

Remigio trovava in quest'ultima uscita una specie di dignità, che poteva forse dipendere da animo onesto; sebbene rude e irritabile. E, allora, per provargli che non se la prendeva a male, cambiava discorso.

Ma non dimenticò mai più la delusione provata quando, proprio il giorno della prima cambiale, si sentì dire da Berto:

"Non li vuol pagare lei i suoi sottoposti? Dobbiamo lavorare per passare il tempo?"

Gli venne da piangere, e rispose con violenza:

"Domani avrete tutto, anche quello che avanzate da mio padre."

"Domani? Facciamoli ora i conti! È tanto che io sto zitto!"

"Domani, ti ripeto."

Allora Berto, con un'astuzia ironica e ghignando, gli disse:

"Speriamo che possa pagare da vero!"

Queste parole, che parevano indovinare ogni cosa, abbatterono completamente il giovane; che non seppe più rispondere. E, il rimanente del giorno, per prudenza, non andò nel campo.

Meglio, meglio venderla la Casuccia! E perché non tornare a Campiglia? Ma, poi, pensò: "Se Berto è cattivo, devo forse fargli il piacere di non essere più il padrone? Ormai, avrò i denari. Però ha ragione di avermeli chiesti; anche se m'ha detto a quel modo". Ed escì di casa, andando in su e giù per l'aia."

Dinda, seduta a far la calza, aveva sentito tutto; e gli disse:

"Perché ci s'inquieta così? Lo paghi, e si faccia rispettare."

"Domani lo pagherò!"

Ma Dinda, per non compromettersi con Berto, non gli disse più niente; tanto più che, a quel modo, gli aveva già chiesto, senza parere, la mesata anche per sé.

Remigio s'appoggiò con i gomiti al cancello della strada. Tornavano a casa, verso Colle di Malamerenda e l'Isola, le ragazze che andavano tutti i giorni a Siena a portare le bombole del latte e ad imparare a far la sarta.

I mandorli e i peschi, sparsi su per le colline, erano quasi invisibili nell'ombra della sera: sebbene, sopra il sole tramontato, restasse una luce limpida a rischiarare quasi la metà del cielo. Un branco di avvinazzati passò, cantando. Dietro un barroccio, un gregge di pecore empì tutta la strada; e il cane si fermò a fiutare lo spigolo della capanna sciupato dai mozzi delle ruote.

Solo! Era solo! A quell'ora, a Campiglia, s'accendevano le lampadine elettriche; egli faceva le somme e gli apparecchi elettrici giravano ticchiettando. Il cuore gli batté come quando, da ragazzo, s'era innamorato.

 

 

 


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