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Ormai, Berto era deciso e gli pareva di doventare un altro; proprio quello che s'era tante volte immaginato: sentiva che andava in contro a un pericolo ed era contento di avvicinarcisi sempre più. S'era fatto tetro; e certe sue risate, quando non c'era nessuna ragione di ridere, non piacevano agli altri. Anzi, Picciòlo, lo sbirciava male. Quando parlava, diceva sempre qualche cosa che non aveva troppa relazione con il discorso, come se non volesse dire quel che pensava. Si chiese se avrebbe fatto bene a confessarsi; ma gli parve che allora non sarebbe stato più libero di sé stesso.
Siccome, nel campo, lo trovavano sempre a reggersi la testa, con i gomiti su le ginocchia, Tordo gli chiese:
"Vi viene male?"
"Non lo so né meno io."
E invitò Tordo a sederglisi accanto: a Tordo gli voleva bene, e gli fece piacere a parlarci insieme. Poi, disse:
"Da qui in avanti, non vorrei essere né meno un signore. L'uomo è sempre stato male, per quello che capisco io, fino da Adamo."
E tirò un sassolino in mezzo al campo; dove era restato a ingiallire un poco di granturchetto rado rado. Tordo sospirò, e Berto disse:
"Quando sarò morto, chi si ricorderà di me? Non ho né meno un figliolo."
"Sarebbe stato lo stesso" rispose Tordo.
"Ormai, mi posso dire vecchio; e non so quel che sia il mondo. Da ragazzo, fino ai vent'anni, sono stato con tutta la famiglia alla Rosa. Poi, presi moglie e andai a stare un miglio più in là; al podere del Pillo. Quando mi mandarono via, perché non andavo d'accordo con il fattore giovane, venni a stare qui alla Casuccia. In tutto, ho cambiato, dunque, tre poderi. Qualche viso nuovo, l'ho visto soltanto alle fiere; quando c'era il bestiame da vendere. Quando presi moglie, andai alla festa della Madonna; che facevano a Buonconvento. E basta."
Si dette un pugno sopra il ginocchio; poi si mise il cappello all'incontrario. Tordo si cercava uno stecco, che gli era entrato dentro una scarpa.
"Mi ricordo di avere sentito dire, dal nonno, che una volta facevano grandi feste da per tutto; e, ora, invece, è silenzio da per tutto. E non si sente dire più niente. Qualche volta, vorrei entrare sotto terra; giù in fondo, più sotto dei lombrichi."
E chiuse gli occhi. Tordo non era del suo parere, ma non s'arrischiava a dirglielo; anche per amicizia.
"Vorrei sapere perché sono venuto al mondo e che cosa ci ho fatto! Non era lo stesso anche se non nascevo?"
Lorenzo, che arava, passò vicino a loro; per finire il solco. Si sentiva la terra aprirsi e respirare le vacche: qualche volta, lo scricchiolìo dell'aratro. Lorenzo era allegro; e gridò:
"Ohé, fate i signori costì all'ombra del fico? Ora vengo anch'io. Questa creta fa rompere il giogo alle vacche!" E siccome non gli risposero, egli voltò; cominciando un altro solco e cantando:
Quando pigli marito, bella Gegia,
Quando la stoppa diverrà bambagia?
Quando l'olivo farà la ciliegia?
La creta, sotto, era più scura perché più fresca; e le zolle rovesciate, dove erano state tagliate dal ferro del vomere, lustravano.
Berto si mise il cappello nero su gli occhi, e disse:
"Non posso sentire né meno uno che parla. E quello lì ha voglia di cantare!"
Si alzò, tirandosi su i calzoni, che gli escivano sempre dalla cintola di cuoio; stette un minuto pensoso; e se n'andò, senza salutare Tordo, fino al fontone. Ebbe anche piacere che le anatre, vedendolo, scappassero.
Prese una zappa, perché aveva da sotterrare le lattughe per farle imbiancare. Ma l'attraventò lontano; all'uscio della capanna: si sentiva una gran forza, e stringeva i denti insieme come se vi si piegassero. La sua forza doveva servirgli a ben altro!
Benché il Monte Amiata fosse pulito quanto il cielo, con una nuvoletta in cima come ci fosse rimasta attaccata e non potesse venir via, dalla parte del Chianti tonò. C'erano, là, nuvole nere come si facesse notte; e le saette sembravano lunghe righe di fuoco che si spezzavano. Poi i toni rimbombarono vicini; ma da Siena in giù, per tutta la Val d'Arbia, c'era sole; e le case dei poderi biancheggiavano. I pioppi della Tressa tentennavano più forte, e le loro foglie restavano rovesciate. La polvere volava alta, con le pagliuzze e le festuche; e anche dalla parte del Monte Amiata le nebbie si affoltarono. Ogni cosa cambiò di colore, con una rapidità istantanea; quasi piacevole. Le ombre a un tratto affievolivano e a un tratto rinforzavano; i prati ora erano più scuri e ora più chiari; qualche volta con una tenerezza improvvisa ed esaltata, qualche volta con un lividore che pareva dovesse doventare nero.
Berto alzò gli occhi verso il temporale, e si sentì pieno di cattiveria. Gli venne in mente d'andare a trovare Giulia; e colse, dalla pianta che gli era più vicina, tutte le albicocche che poté arrivare da terra; mettendosele in tasca per portarle a lei. Evitò di parlare a Picciòlo e a Moscino che, come quasi sempre, erano a lavorare insieme. "Pareva, raccontò Picciòlo alla moglie, che qualcuno gli avesse fatto un torto!". E a Moscino disse:
"O che avrà quell'uomo?"
"Peggio per lui, se non parla!"
Berto prese l'ombrello, ma il temporale girò da un'altra parte; e restarono, sopra Siena, certi nuvoloni bianchi come il latte.
Giulia era con Fosca: e lo videro dalla finestra. Giulia disse, andando ad aprirgli:
"Mi deve portare qualche notizia nuova!"
Ma pareva, invece, che Berto aspettasse qualche cosa da loro: le guardava sorridendo e con gli occhi allegri. Giulia, allora, disse:
"Si vede anche dalla sua faccia; perché ora sta meglio."
"Oh, prima che io mi rimetta! E, poi, non m'importa!"
"Bisognerebbe che guarissi del mio cuore!"
"Povera zia! Se non avessi avuto lei!"
Ad un tratto, un mucchio di cenci che era in mezzo al letto cominciò a muoversi e ad aprirsi: una bambina, piangendo, alzò la testa e guardò fisso chi c'era nella stanza. Fosca corse al letto, e cavò di tra i cenci la sua figliuola più piccola: aveva le mani e i piedi fasciati, con la tubercolosi alle ossa; un visuccio come la cera strutta, gli occhi neri, d'una lucentezza che pareva aumentare sempre.
"Povera Jolanda! Non dormi più? Vuoi andare dal tuo fratello, che ti terrà?"
Allora, s'aprì una porta; ed entrò un giovanotto, sporco, magro, con due grossi occhiali cerchiati di ferro: stava nell'altra stanza a leggere un romanzo, con il tavolino al davanzale della finestra. Il suo collo, addirittura livido e deforme, sembrava una gonfiezza di muscoli flosci e noccioluti. Anche le tempie erano incavate come le guance, e la testa rasata era sparsa di cicatrici bianche; per tutti i versi. Tossì e disse:
"Dammela: le insegno a leggere."
Fosca s'era fatta anche gobba, benché fosse abbastanza giovane. Ai polsi ci aveva due soprossi, che non riesciva a nascondere né meno tirando giù le maniche fino a strapparle.
Nella stanza c'erano un canterano con il marmo di due pezzi; e, sopra, un vassoio di frutta finte, di gesso colorato.
Berto le accennò con un dito, e disse:
"Quando le comprai, sì! Ora, sono sciupate dalla polvere."
"Guardi un po' queste qui se le piacciono più di quelle!"
E cavò di tasca una manciata di albicocche; mettendole sopra il tavolino. Poi, mentre le due donne lo guardavano sorridendo, seguitò a cavare le altre, ad una per volta; e quelle più grosse non gli potevano escire. Alla fine, batté e scioccolò le mani insieme; e disse:
"Non ce n'ho più!"
"Oh, ma sono anche troppe! Perché avete voluto portarle?"
"Ho più piacere che le mangi lei che il padrone della pianta."
Il giovanotto riaprì l'uscio, ne prese quante potevano entrargli nella mano; e tornò nella sua stanza. Allora, anche Giulia ne prese una e l'addentò:
"Sono proprio mature, in punto!"
"Avrei fatto intenzione di portarle anche un panieretto di pomodori. Li gradirebbe?"
"Non li voglio, perché dovete portarli a mano voi."
Berto, con una decisione risoluta e gioconda, disse:
La zia, che non seppe dire di no, rispose:
"Ci faremo la conserva."
Giulia arrossì, e non si sapeva spiegare perché Berto fosse andato a trovarla con quel regalo. Credette che volesse parlarle a solo; e fece cenno alla zia d'andarsene. Ma, né meno ora egli parlava. Ad un tratto, però, gli orli dei suoi occhi si arrossarono; e si alzò in piedi:
"Meno una vita troppo brutta, da un pezzo in qua."
Fece due o tre fiatate grosse, e si asciugò gli occhi.
"Ditemi quel che mi volete dire!"
"Ora, parlando con lei, m'è andato via tutto il cattivo!"
Allora ella, contenta, chiese, per garbatezza:
"Vi è accaduto qualche cosa di grave?"
"E con quel galantuomo?"
Egli impallidì, rispondendo con una voce che faceva capire che ora erano entrati nel discorso che gli piaceva:
"Siamo alle solite."
Ella, accortasi di come si rodeva, non volendosi compromettere con lui, desiderò che se n'andasse. Ma il contadino, facendosi bianco come un cencio, anche su la fronte, si mise un dito alle labbra e disse:
Giulia finse di non capire, e cambiò discorso; raccontando tutti i particolari favorevoli del processo.
Quando Berto tornò a casa, era buio. Già, dentro Siena, avevano acceso i lampioni; e quando giunse a Porta Romana, si vedeva il Monte Amiata come rizzato lì per chiudere l'orizzonte.
Egli entrò nell'osteria della Coroncina, e bevve mezzo litro, senza mettersi a sedere. Qualcuno lo salutò, ma aveva la smania di trovarsi alla Casuccia; perché gli venne in mente che gli avessero fatti chi sa quali torti durante la sua assenza e che gli dovessero capitare questioni feroci. Di rado, stava tranquillo! Non era più sicuro della propria volontà; e si sentì, un'altra volta, sul punto di piangere come in casa di Giulia.
Ma, ormai, alla Casuccia mancava un mezzo miglio, piuttosto meno che più.
Su l'aia, non incontrò nessuno; e, allora, dette un'occhiata alle stelle; come se conoscessero i suoi pensieri.
Poi, mangiò per due: senza riescire a saziarsi.