Federigo Tozzi
Ricordi di un impiegato

3 marzo, ore quattordici

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3 marzo, ore quattordici

Dopo aver mangiato, sono stato a vedere la camera. È dentro

Il paese; e dopo una scala strettissima e oscura, devo attraversare una stanza piena di pacchi. In una stamberga, che non ha né finestrauscio, un uomo russa. Una donna mi spiega che è un facchino a riposarsi del servizio notturno.

La camera mia ha la finestra con un’inferriata enorme; e sento un puzzo opprimente: l’aria entra da un cortiletto che appartiene alle carceri del paese; e sembra che il cilindro di una macchina elettrica debba smuovere tutti i fondamenti della casa.

Mi verrebbe da piangere; ma, non avendo tempo per scegliere meglio, fisso il prezzo.

Per le vie, sono guardato da tutti. Le ragazze, che tornano a lavorare negli stabilimenti industriali, ridono di me. Qualcuna dice forte:

— Com’è brutto! Pare un prete.

Io mi fermo e la guardo. Quella abbassa il capo con le compagne, e si sforza di non ridere. Ma, dopo pochi passi, il vento mi butta il cappello sotto le ruote del tranvai elettrico, che giunge da Pisa con molto fracasso. Si è sporcato di fango, e la tesa recisa. Le ragazze, fermatesi tutte insieme, si torcono dal ridere. Certamente, io devo imparare ad abituarmi a tutto; e devo mostrare di non prendermela. Ma come mi sento offeso!

Prima di rientrare in stazione, mi verrebbe voglia di passeggiare lungo l’Arno; ma non c’è più tempo. Sono molto triste.


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