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9 marzo
Tutte le volte che mi s’avvicina un uomo che io non conosco, ne ho paura; qualche volta, anche se si tratta di un amico. Non ho paura proprio di lui, ma delle conseguenze che ne posso derivare al mio spirito quand’egli cominci a parlare.
A certe persone, per questo, non ho mai voluto essere avvicinato. Mi ricordo che io, trovandomi per una strada a pena fuori di Firenze, dopo le case del sobborgo, dovevo passare davanti al cancello verde di un orto. Tutte le volte che, prima di esserci vicino, vedevo l’ortolano fermo al cancello aperto, o tornavo in dietro o passavo dalla parte opposta della strada; evitando di voltarmi a lui.
E se certe persone conoscessero le tracce inestinguibili che hanno lasciato in me, ne sarebbero stupite. Quando penso che io sono fatto di tante strisce che corrispondono ad altrettanti giorni, mi domando se esisto io o le cose che ora ho dinanzi agli occhi. E mi domando che cosa significa vivere.
Perché, dunque, io non potrò mai dimenticare i miei anni passati; che si sono sparsi come muschio sopra le pietre?
Quanti occhi e quanti sguardi io rivedo ancora, che fecero tremare e sgomentare la mia anima!
C’era, poi, un uomo con i piedi deformi e ripiegati in dentro che andava a sedersi, tutto il giorno, sotto le Logge dei Lanzi. Appoggiava le grucce al muro e stava lì a chiacchierare con certi uomini; che, per campare, facevano di tutti i mestieri. Ma, per lo più, erano adoprati per far portare, con il carretto a mano, alla stazione, i bagagli dagli alberghi. O quando qualcuno cambiava casa. Me ne ricordo tre. Un uomo, un poco gobbo e la barba nera; un altro con i baffi bianchi e le braccia tatuate; un altro, bassetto, con i baffi neri e il vestito diventato verde, sempre lo stesso.
Quello con le grucce, che non poteva lavorare, mi guardava sempre in un modo che io avevo preso ad odiarlo. Egli guardava le mie gambe come per volermele stroncare.
Quando il sole non era più da quella parte, andavano a sedersi su le scale del Palazzo Vecchio. C’era anche un giovinotto, scemo, che passava con il corbello pieno di trucioli su le spalle. Era magro e il mento aguzzo: gli occhi di un verde nero. Mi dava sempre noia, e una volta mi prese per un braccio.
Sentivo ribrezzo per un compagno di scuola, un imbecille, grasso, gli occhi porcini e un braccio paralizzato al quale mancava il pollice. Se riesciva a prendermi le mani, dovevo mettermi a gridare per non piangere.
Ma risognavo sempre, come un incubo, una donna con gli occhi castagni, che avevano dentro un lume quasi rosso; secca e gialla. Non so chi fosse.
Mentre un prete, alto e gli occhi neri e lucenti, mi scoraggiava: tornavo a casa così triste, che avevo voglia di morire. Una volta, a primavera, in vece di andare a scuola, feci una lunga camminata per via delle Càmpora.
Mi trovai in un punto così bello che me ne ricordo ancora. C’era il granturco già con le spighe, e in mezzo l’acqua di un botro che scintillava, chiara e trasparente. Le siepi erano fiorite; e mi piaceva d’incontrare con la fronte e con le mani i fili dei ragni tra olivo e olivo. Le viti erano potate e legate con i salci nuovi.
Mi fermavo a guardare i frutti e i cipressi lungo i confini e in cima alle strade che portavano alle case dei contadini. Mi pareva che io potessi vedere la terra doventare quei frutti e quegli alberi. Il sole era dolcissimo; perché sempre basso, e la sua luce s’intratteneva tra le piante. Gli uccelli volavano dai rami sopra la strada e andavano negli altri campi. Essi facevano scuotere le gocciole della rugiada; anche addosso a me. Le finestre dei contadini erano chiuse con sportelli verniciati di rosso; e l’erba cresceva da per tutto, anche su i margini della strada. Mi sentivo tanto contento di essere solo, e non mi ricordavo affatto
di niente. Io volevo fuggire e non tornare più a casa. Il cielo mi abbagliava.
Mentre stavo così, io mi volsi e vidi vicino a me un uomo che mi guardava sogghignando. Mi venne da piangere, e non ho piu dimenticato quei campi.
10 marzo
Dico all’ostessa che il brodo non è buono. Ella fa gli occhi rossi, e il gestore sostiene che la rimprovero troppo rudemente. Perciò, in un momento che ho meno da fare, vado a trovarla, con il pretesto di bere.
Sta cucendo un grande lenzuolo; e i suoi bambini si trastullano con una sedia.
— Signora Marianna, non credevo di offenderla dianzi.
Mi guarda con i suoi occhi troppo dolci e arrossisce. E dopo un sospiro, mi risponde:
— E lei si è preso a male che io non abbia potuto nascondere il mio animo?
— No.
— Dunque, facciamo la pace. Beva questo vino bianco; molto migliore di quello che beve tutti i giorni.
E mi versa in un bicchiere un vino che scintilla. Per farla più contenta, lo sorseggio schioccando la lingua; poi, la saluto anche da fuori, dopo aver chiuso la porta a vetri.
È poverissima, e mi farà credito per un mese intero; e, non sapendo scrivere, si fida di quel che appunto da me in un mio libretto.
Dopo cena, ho dovuto terminare il conteggio quindicinale, che sarà spedito al Controllo di Torino. Il capostazione non c’era, l’applicato dormiva in un sofà, con il berretto fin sopra la bocca. Versa la mezzanotte, esco sotto la tettoia. La pianura è nebbiosa, e accendo una sigaretta.
Mi par di sentire un brulichio indistinto per tutta la pianura:
forse, la nebbia sgocciola sopra il fogliame e sopra i campi erbosi; forse, il vento umido trascorre. Anche le stelle debbono essere bagnate. Ma quella solitudine mi stordisce e m’assorda; e mi fermo a guardare le due verghe del binario, come se cercassi di comprendere quel che mi vogliono dire. Le guardo e non posso comprendere.
Ad un tratto, una massa fragorosa mi rasenta; un fischio, correndo, è rotto dall’aria.
Il direttissimo!
Ho saputo che travolse un guardiano, portandogli via la testa infissa al gancio d’un fanale.