Federigo Tozzi
Ricordi di un impiegato

11 marzo

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11 marzo

Se ieri sera io fossi morto! Invece, nell’aria c’è già la lucentezza della primavera, e io desidero tanto di vivere. Perché è possibile che io muoia? La stazione, dov’io debbo stare a catena come un cane dentro il casotto di legno, è piccola; ma la campagna si stende liberamente. Non è possibile che un giorno io me ne vada di qui?

Il cipresso dell’orto, a mezzogiorno, pare più leggero della sua ombra; la lucentezza abbarbaglia; e dovento pazzo fino al punto di chiedermi se anche le mie mani non sembrino verniciate di rosso, quasi come il cancello del campo.

Perfino questa casa, in tanta luce, pare nuova.

Che m’importa se i germogli sono già più grossi? Che m’importa se questi campi sono dolci, se la mia anima non è ancora più dolce di loro?

 

Dianzi, il meriggio m’aveva tutto chiuso entro i campi e gli alberi: io non avrei potuto escire.

E in quella luce pareva che non ci fosse più niente; all’infuori della mia anima.

Ah, come avrei voluto sentirmi bene sotto a questo tetto ricoperto di semprevivi, quasi verdi anch’essi come gli orti attorno attorno! Questi orti che paiono fatti per contenere l’acqua che odo e non vedo, dietro uno dei muri, dietro quello del salcio, pisciolare come quando si raccoglie o nel palmo della mano o in una foglia di cavolo.

E come gli altri salci, con quel verde pallido, scherzano tra il verde azzurro e turchino dei cavoli; ma meno chiari delle lattughe!

Per la mia anima non ci sono che bare e agonie, che passano l’una dopo l’altra; con qualche ghirlanda comprata per farle abbracciare il feretro; povera ghirlanda che ha paura di scivolare ai sobbalzi delle ruote.

E, s’apro la finestra, mi sento afferrare il cuore, e portare giù a capofitto nella strada.

Povera rosa d’Attilia, siamo rimasti io e tu soli. Io e tu come in una realtà deserta e in solitudine; e nessuno pensa a noi. Ma noi due non ci possiamo dimenticare.

Tu tra le pagine del libro, che di quando in quando apro per rivederti, ti sforzi di conservare il tuo colore che adesso pare sangue .

Ma non bisogna raccontare a nessuno, né di noi né della nostra storia così semplice che la crederebbero idiota. La nostra storia consiste del resto nell’averti avuta e nell’averti amata sempre di più.

I viottoli dei campi spariscono tra l’erba di un verde quasi nero; che trabocca dalle siepi dei biancospini. Mentre le ombre sono turchine proprio come il cielo. Forse anche lo stecconato, vecchio e aperto dalle spaccature, è per mettere fuori le sue gemme e i suoi fiori.

Oggi ho bisticciato con il gestore, che non mi parla più quantunque mangiamo sempre accanto. Non crede che io non abbia mai parlato, fuori d’ufficio, al vicegestore.

Lavoro anche la domenica; ma, stasera, esco tre ore prima. Avrei voglia di fare una gita in barca, fino al ponte sottile, che si vede laggiù dove il fiume fa gomito e scompare. Ma non trovo un barcaiolo.

Allora, m’incammino verso la parte opposta.

Gli argini sono verdi, l’Arno un poco lutulento; incontro una famiglia e poi due amanti.

Giungo fino a Calcinaia, un paesello che si riflette grigio dentro l’acqua. Intanto si fa sera. Un traghettatore, dall’altra sponda, mi domanda se voglio passare; ma mi sembra troppo tardi. Cammino un poco sul letto asciutto del fiume, dove sono molte orme.

Il sole va giù prestissimo. Le montagne sembrano d’oro un istante, e il fiume luccica; poi, i riflessi si spengono.

Mi soffermo per ascoltare i suoni di una chitarra: una voce di donna canta. È una canzone ilare. Poi tace ogni cosa. Soltanto l’acqua del fiume fa un brusio monotono, urtando in un macigno bianco come la luna.

Io sto fermo ancora, finché tutta la campagna non è illuminata. Poi sbaglio la strada, e un cane mi si avventa. Urlo; ma nessuno mi risponde. Torno in dietro a corsa, ritrovo il sentiero stretto sopra l’argine; e cammino .

Sono annoiato; ma il chiaro di luna mi piace molto. Guardo lungamente le pianure, dove qualche lume casalingo è acceso.

Aspetto che il fragore di un treno passi.

Quando entro nell’osteria, non ci sono più pietanze. Restano le acciughe sotto la salsa di zenzeri e un piatto di lattuga, dove io trovo un ciuffo di capelli. E questa volta taccio.

Il gestore mi osserva.

La luna è lenta come il peso della mia stanchezza. Sale su e riscenderà come una camminata inutile; come me, che non ho nulla da dire. Ma i miei pensieri sono rimasti tutti per la strada:

di mano in mano che ero per giungere qui, la mia anima li perdeva. Ma mi viene da ridere a vedere la luna tanto bassa, giù negli acquitrini del canapale!


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