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16 marzo
Il servizio non va bene; sbaglio facilmente le cifre e non mi riesce a fare le somme lunghe nei registri. Almeno, se imparassi a telegrafare! Mi annoierei meno e durerei meno fatica; ma non riesco a leggere in tempo le striscioline di carta dove sono segnate le trasmissioni; e, mentre sto li con la testa che mi diventa legata, entra un applicato con un telegramma da fare; mi dà un urtone e piglia il mio posto. Le prime volte, restavo così mortificato, che non mi sarei fatto mai più vedere in stazione; poi mi veniva l’idea di rispondere con lo stesso garbo e restavo vicino agli apparecchi, sempre sul punto di provocare; mentre l’applicato, telegrafando, mi occhiava come avessi voluto fare l’ozioso. Mi sentivo mortificato anche di più, e restavo due o tre ore senza parlare a nessuno; così turbato nel viso, che tutti se ne avvedevano. Ma, proprio allora, scrivevo ad Attilia; e le mie lettere erano belle. È sempre malata: pare che abbia la pleurite. E credo che guarirà perché le voglio bene. In quanto alle lettere che mi scrive la sua amica, ora sono imbarazzato di riceverle e peggio a leggerle. Ed evito, con fermezza, di pensare anche a lei mentre scrivo io.
Mi dimenticavo di dire che, ormai, quasi tutti i giorni, torno dalla signora Marianna; a bere quel vino bianco. Oggi vi trovo una bella ragazza, che si chiama Némora. Il cognome non lo so. È vestita di nero perché le è morta la mamma.
Oggi piove. Baleni che sembrano umidi; e la pioggia chiara sotto le nuvole grigie.
Se piovesse anche dentro la mia anima! Sentirei, dopo, quella freschezza che resta nell’oliveta. Le foglie dei pioppi tremolano come in estate il canto delle cicale. Per i solchi lunghi cantano non so quali uccelli, e i miei pensieri sono umidi. Sono stato tanto lontano, e prima di tornare non osavo fermarmi a nessuna porta; né meno a quelle che avevano odore di rose, e forse avrei trovato una dolcezza di sorriso.
Perché, per avvicinarsi alla mia anima, bisogna essere molto pazienti.
Allora io non ti nego più la mia mano, o uomo con la giovinezza tranquilla come il rispetto che io voglio. Allora io acconsento ai tuoi sguardi, e m’avvio a sentire la tua amicizia purché sia pura come i miei propositi e le cose che non ti dico. Allora, o uomo, sono contento che la tua ombra entri tra le pareti della mia casa.
Ma tu non hai la voce come l’elemosina chiesta, e le tue scarpe non sono lavate dalla pioggia. Tu non hai bisogno di me, e perciò non ti amo; e non ti voglio né meno conoscere.
Vedo un tetto sotto la pioggia! Così basso, così corto, sopra alla casa dove non entra nessuno, che nessuno guarda; tranne qualche ragazzo che va a sporcarla!
Una sera, ma una sera sola, vi ho visto dalla parte dell’ombra, due innamorati fermi. Ogni tanto guardavano in su per assicurarsi che non li vedesse nessuno. Una notte un briaco ci si è rotto la testa. E, poi, sempre silenzio.
I suoi muri morti, e il tetto così stanco che mi vien voglia di farlo appuntellare.
Sopra ci ho visto un gatto morto prima imputridire; poi doventare schiacciato come la pelle sola; poi tanto sottile che s’è attaccato alle tegole; poi la pelle s’è sfatta, e sono apparse le ossa; poi anche le ossa sono sparite. Soltanto, nel mezzo di una tegola, c’è rimasta una macchia nerastra. Ma si laverà anche quella.
Nella chiesa vicino a casa mia non c’è quasi mai nessuno. Le cappelle sono chiuse da grossi cancelli di legno.
All’altare maggiore, un enorme quadro dipinto a olio; che rappresenta la Madonna, con i piedi sopra un serpe e sopra una mezzaluna. I ceri alti quanto il quadro. Di quando in quando, un cappuccino esce dal coro; s’inginocchia segnandosi, dinanzi alla Madonna, e resta a pregare.
Le cime dei cipressi si vedono muovere, dalle finestre; ma senza né meno un fruscio leggiero. Soltanto qualche lampada a olio si sente scoppiettare. Fuori, nel muro, e dietro un’inferriata, la statua d’un cappuccino che tiene un teschio in mano.
Incontro sempre la mendicante che non ha più viso; come se le ulcere rosse le togliessero a poco a poco tutta la testa; e le restassero soltanto le braccia e le gambe. Ed ella potesse muoversi e camminare ancora.
Quando rialzo la testa, perché mi pare che la mia angoscia se ne sia andata, mi accorgo di non esser solo: c’è tutta la stanza che mi guarda.
Io non posso muovermi senza essere veduto!
E, quando me ne vado, girando la chiave dell’uscio, credo di chiudere là dentro una vita più vasta della mia.
Io mi rimprovero di essere cattivo; perché, alla fine, il peggio è per me. Sento, in vece, il rimpianto di tante cose buone che vengono spontanee; da sé.
Sono io, dunque, che ho voluto restare lontano da questa realtà cos’i dolce! E perché?
Sono io che ho chiuso la mia anima per sempre; come quando, da ragazzo, volevo stare solo e mi mettevo a guardar dall’uscio socchiuso quelli che dentro la stanza parlavano. Sono
io che me ne pento, e poi faccio sempre lo stesso; inebriando la mia anima con una risata.
Ho fame e non mangio; ma mi piace di conoscere questa bontà che torna sempre, come se fosse innamorata della mia anima.
Mi piace di sentire questo rimprovero; purché la giornata finisca presto attraversando, senza lasciarvi il segno, lo spessore della mia giovinezza. Allora mi par di sfuggire alla morte, nascondendomi in me stesso; con una paura che mi mozza il respiro. Mentre negli spazi della mia esistenza passa la sua ombra; e io chiudo gli occhi per non vederla. E, qualche volta, ho paura di non riaprirli più.