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26 marzo
Ho riveduto Némora; e le ho parlato. Perché le ho parlato se non avevo niente da dirle?
E perché, dai vetri dell’ufficio, sto sempre attento che non entri nessuno nell’osteria? Quando, dianzi, l’ho vista parlare con un carbonaio, mi son sentito ingelosire; e stringevo in mano il croccino della porta; perché, se mi veniva un pretesto qualunque, sarei andato dalla signora Marianna; e le sarei passato vicino. Némora le cuce un vestito; e sta, dalla mattina alla sera, con lei; meno quando noi andiamo a mangiare. Perché non mi sono staccato un bottone dalla giubba e non sono andato a farmelo riattaccare? Perché mi batteva troppo il cuore, e non volevo che Némora fosse certa che mi piace. Perché ha parlato a quel carbonaio se qui a Pontedera una ragazza non deve parlare a nessuno, quando non vuole che se ne parli sùbito male? E, poi, io stesso ho per lei come un risentimento, perché mi fa comportare male con Attilia. Che mi piaccia, non c’è dubbio; e vorrei che mi amasse. Ma vorrei fosse lei la prima a dirmelo; per sentirmi scusato di più. -
Qualcuno mi dice:
— Perché non sta volentieri a Pontedera? Potrebbe sposare la figlia del vicegestore, che è ricchissimo, o una di quelle del capostazione; vivendosene tranquillo!
Io non ho il coraggio di dire a tutti che sono fidanzato a Firenze e che, qua a Pontedera, avrei scelto Némora.
Invece, quando scrivo ad Attilia, mi dimentico d’ogni cosa; sono sincerissimo e senza nessun rimorso, benché abbia deliberato di nasconderle di Némora. Non glielo dirò mai. Ne sono sicuro. Non perché sia capace di mentirle; ma perché se per Némora io la lasciassi, smetterei piuttosto di scriverle e glielo farei sapere. Non devo, anzi, vantarmi di questa lealtà?
Stasera, intanto, l’osteria era piena di gente allegra che cantava; e io mi sentivo anche più irritato del solito e stavo con la testa bassa tra le mani.
Avevo visto Némora escire mentre io entravo; e lo struggimento, che mi pigliava ripensando a lei, mi faceva tenere gli occhi chiusi. Un’altra oscurità era nel mio animo; più tetra e molesta. Non dovevo dimenticare Attilia! Sentivo, su la faccia, le mie mani fredde e incapaci a moversi. Ma di tra il vocio, ho udito chiedere con antipatia:
— Perché è sempre così taciturno?
Non potevano alludere altro che a me, e il cuore mi si è chiuso anche di più. Ma sono restato fermo, aspettando quello che qualcuno avrebbe risposto. È passato, forse, mezzo minuto; e un altro ha detto:
— Lo sveglierò io! Gli romperò la chitarra su la testa!
Sono restato fermo lo stesso; con tutta la mia volontà. Non volevo né meno parare il colpo, ma una voce energica m’ha difeso:
— Ognuno è padrone di contenersi come vuole. Lascialo fare.
E io non mi sono mosso finché non se ne sono andati tutti. Non mi sono né meno curato di vedere chi era quello con la chitarra.
Quando ho rialzato la testa, ho guardato subito il lume nel mezzo della stanza; e, allora, Drago, con una dolcezza inesprimibile, m’ha detto:
— Quando ci sono io, non abbia paura.
Ma io ero così preso da quel che pensavo, che non l’ho né meno ringraziato. Anzi, forse, non l’ho voluto ringraziare. Dopo, ho saputo che la signora Marianna vuol farmi dire dal gestore che io nella sua bottega devo essere lieto come tutti gli altri;
perché ha paura di perdere gli avventori che vogliono divertirsi e ridere.