Federigo Tozzi
Ricordi di un impiegato

18 aprile

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18 aprile

Attilia era già morta. Non so perché, quando l’ho saputo a mezze scale, avendolo domandato a una donnetta che scendeva piangendo, mi son domandato se non dovessi tornare a dietro. Quelli della sua famiglia non mi conoscevano e non sapevano nulla. Mi pareva che Attilia mi volesse far paura e che io non la dovessi vedere; e anche non mi pareva vero che fosse morta.

Ma stando , come se m’avessero fermato, ho cominciato a piangere. E ho pianto quasi una mezz’ora. Quando sono stato sicuro che potevo non piangere più, mi son fatto alla porta e ho bussato; stando con un piede pronto a rifare le scale.

È venuta ad aprirmi la mamma; che io avevo visto parecchie volte insieme con Attilia. Senza dirmi nulla, mi guarda. I suoi occhi fieri sono molli di pianto. Prima ch’io possa aprire bocca, mi riviene da piangere; e mi fa piacere ch’ella mi veda piangere.

Allora, timidamente, mi chiede:

— Vuol passare?

Faccio un passo innanzi, ma ella mi chiede anche:

— Chi è?

Non voglio dire che io facevo all’amore con sua figlia; e balbetto, invece, il mio nome. Poi, senza badare più a lei, finisco d’entrare; do un’occhiata alla casa e capisco qual è la camera. Come se ne avessi avuto il permesso, mi ci avvicino, un poco in punta di piedi; ma, prima di entrare anche , mi volto alla mamma; e me la vedo accanto a me, senza ch’io l’avessi sentita camminare: mi guarda con una meraviglia paurosa.

Allora, non ho né il coraggio di spiegarle chi sono e né meno di entrare nella camera. Singhiozzo forte e nascondo la faccia al muro. Dalla camera, esce il padre già vestito di nero. Gli prendo le mani e gliele bagno di lacrime. Balbetto un’altra volta:

— La voglio vedere.

E penso una cosa insensata: « Se Attilia mi sentisse piangere così, ne avrebbe piacere. Ella sa che io l’amo ».

Ma senza spiegare chi sono, mi dico che non posso entrare:

mi sembra quasi una profanazione al pudore di Attilia. E non posso ritardare più, in nessun modo, il momento di vederla.

Quando ho spiegato tutto, non mi rispondono nulla; soltanto la mi dice:

Entri.

Ma ho paura di vederla! Prima chiudo gli occhi; e, poi, soltanto per non urtare forse il letto, li riapro guardando più in alto di dove è stesa. Vedo soltanto la punta di quattro candele accese sul comodino; e un rosaio intrecciato ai ferri del letto. Devo abbassare gli occhi! Incontro la faccia di Attilia. Fo per baciarla subito, tanto le sono vicino e quasi la tocco con il mento; ma le guardo le mani incrociate sul petto. Mi sento girare la testa. Le mani sono diacce e la pelle del viso è bianca e un poco umida. Come se mi troncassero il collo con un colpo solo, le bacio la bocca. Non piango più, ma quando mi pare che dentro gli occhi, simili a una colla intorbidita, sia restato lo stesso sguardo di una volta, mi si piegano le gambe e vengo meno.

Ripresi i sensi, cerco un’altra volta quello sguardo, che dev’essere stato per me; e non c’è più nulla: tutta la faccia è lavata, dalla morte.

Fino a sera fatta, non ho avuto animo d’andare a casa. Anzi, non ci volevo andare.

Mia madre stava bene, tutti erano allegri. Io riescivo così a fingere, che m’hanno creduto soltanto stanco e un poco sperso. La bambina stava cheta e teneva gli occhi aperti; tutta fasciata sotto le lenzuola. Mio padre ha avvicinato la lampada elettrica al suo viso, dietro la testa, perché non le facesse male, e io la potessi guardare.

La bambina, in quell’istante, quasi avesse sentito la luce, ha stirato la bocca; e le labbra le sono come entrate dentro. Mi sono alzato in punta di piedi, per vederle meglio gli occhi e ho voluto pensare allo sguardo di Attilia.

Mia madre, come se fosse insospettita, m’ha chiesto:

— Perché la fissi così?


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