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I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Mi ricorderò sempre degli otto mesi che, a Siena,
precedettero il mio matrimonio: forse perché non mi accadeva mai niente e tutti
i giorni, due volte, scrivevo alla mia fidanzata.
Stavo a retta in Via del Refe Nero, in fondo alla scesa. La mia padrona vendeva
il vino e dalla sua fiaschetteria si poteva salire in casa: di lì passava
sempre lo sguattero di quella trattoria che avevo incaricato di mandarmi il
pranzo e la cena.
Per pigliare moglie aspettavo che i miei interessi, essendomi morto anche il
padre, fossero stati sistemati. Parentele non c'erano; ed io vedevo molto di
rado anche i miei amici. Andavo a trovarne qualcuno la sera, quando mi ero
sentito troppo solo. Anche con la mia fidanzata parlavo, sì e no, tre volte il
mese, di nascosto, fuori di città, perché suo padre non aveva ancora voluto
dare il consenso, permettendole nondimeno di ricevere le mie lettere e di
rispondermi; credo che volesse aspettare la sistemazione della mia eredità,
ch'egli supponeva molto al disotto di quanto è stata. C'erano, è vero, molti
debiti da pagare; ma non abbastanza da sciuparmela!
Il mio amore sincero per Clementina aveva molto influito su la mia vita e sul
mio carattere. Mi ricordo che una volta, per esempio, avrei potuto veder nuda,
riflessa dal suo specchio, la mia padrona di casa, che non era né brutta né
vecchia ed io invece entrai in fretta nella mia camera. Un'altra volta,
d'estate, mi ritrassi dalla finestra perché a un'altra finestra, dall'altra
parte della strada, a un piano più basso, c'era una ragazza che si spogliava.
Ora non lo farei più!
Ogni giorno m'accadeva di vedere e di osservare le stesse cose e le stesse
persone. Il calzolaio di faccia, che faceva invano la corte alla mia padrona:
era un ometto piuttosto basso, magro, con i baffetti sottili e gli occhi
glauchi: ad ogni momento, lavorando, seduto sul suo panchetto, si passava il
dorso della mano, quella libera, sopra i baffetti.
Un altro vinaio che stava su la porta della sua fiaschetteria a guardare sempre
quella della mia padrona: qualche volta faceva anche pochi passi, nella strada,
con le mani incrociate: portava un grembiule con una gran tasca dove teneva i
soldi e le chiavi, un berrettino scuro; e aveva i baffi neri, alto e sempre
serio, a capo basso. Quando entrava un cliente nella sua bottega, lo lasciava
passare innanzi e dava un'occhiata a quella della mia padrona. Sopra la sua
insegna c'era una Madonna, ad affresco, scalcinata e stinta: tutti i sabati le
accendeva il lumino, tirando giù la fune a cui era attaccato; riconoscevo
perfino il lieve cigolio della carrucolina. E poi restavo, dietro i vetri, a
guardare quel lumicino che faceva scorgere soltanto le mani e le ginocchia
della Madonna.
Nella casa di faccia alla mia, un poco di sghembo, perché la via non è dritta,
c'era un laboratorio di sarta. Una delle ragazze, saranno state quasi una
dozzina, non andava, nell'ore di riposo, a mangiare come facevano le altre; ma
socchiudeva la finestra dietro la quale prima aveva mangiato, in piedi, il suo
spicchio di pane con il companatico, per fare all'amore con uno studente che
aveva la finestra di fianco alla mia. Il sole batteva tra l'una e le due,
proprio su la faccia, ma stava per tutto quel tempo quasi immobile: era
biondissima, con una carnagione più rossa che rosea. Non sorrideva mai, forse
per nascondere di più agli altri il suo motivo di star lì.
Sopra a me, abitava la moglie di un pizzicagnolo, e tutti i pomeriggi, il
vicecurato della nostra parrocchia saliva da lei: ne sparlavano, ma non ci
credo. Era pallida e con un collo così gonfio che mi faceva pensare a quello di
un'anatra quando ha il gozzo pieno.
Qualche sera, io escivo e andavo in Piazza di Provenzano: c'era più fresco e
vedevo la campagna doventar madreperlacea, dietro le mura della città, tutte
rosse e più alte o più basse secondo la forma dei poggi che, di seguito,
salgono e poi scendono. In fondo, il Monte Amiata che brillava come una seta
azzurrognola; mentre gli avvallamenti del terreno, quasi tutto creta, si
empivano di un'ombra violacea, e i rialzi s'illuminavano di giallo o di bianco.
Poi l'ombra velava ogni cosa, i colori si confondevano e sparivano: e tutta la
campagna mi dava un senso di solitudine che mi scoraggiava. Quando
m'allontanavo dal murello, su cui m'ero appoggiato con il petto e con i gomiti,
i tre lampioni della piazza erano già stati accesi, la facciata della Chiesa
era più grigia, la cupola pareva per sparir nel cielo con la sua palla dorata
che non luccicava più. Via Lucherini, in salita, era oscurissima: io tornavo a
casa toccando uno per volta i colonnini dalla parte del mio marciapiede.
Qualche volta, da un uscetto, che è più alto della strada due scalini, esciva
una meretrice che ci stava di casa. Ed io, per guardarla, una volta, buttai
giù, urtandoci, una gabbia con un merlo; che un ciabattino teneva attaccata ad
uno stipite fuor della sua bottega.
* * *