Federigo Tozzi
Bestie

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Per lo più i nomi di quelli che fanno parte d'una famiglia acquistano un'armonia che li riunisce, sembrano fatti d'una stessa materia, come i chicchi di un rosario. Già i nomi, che si tramandano da avo a nipote, completano questa fisionomia.
Delle persone che amiamo, dei nostri parenti, non rimane nel tempo che il loro nome; quand'essi non sono né meno doventati fotografie sbiadite negli angoli meno visibili del nostro salotto.
Siccome la mia zia era morta povera, non avevo mai più aperto l'armadio dove stavano ancora i suoi abiti. Soltanto dopo cinque anni, dovendo ripulire la casa per prendere moglie, untai con la penna e con l'olio la serratura prima di ficcarci la chiave piena di ruggine.
Dunque dicevo che la mia zia aveva una voce che ricordava le pasticche biascicate senza che nessuno se ne avveda. Tutte le volte che veniva a cercarmi, ch'io l'avessi chiamata o no, teneva le mai, una dietro l'altra, nel grembo. Quando se ne andava, era certo che le moveva perché aveva intenzione di mettersi a qualche faccenda.
Si chiamava Betta, ed aveva cinquant'anni quando morì di male nervoso.
La sua vita ch'ella non mi confidava, il suo modo di parlare per nascondersi di più che fosse possibile; per me non era che una vecchia vestita male, con molte grinze, senza denti, senza sentimenti, affezionata, paziente, modesta.
Accendeva i fiammiferi soltanto sull'impiantito, a mangiare ci metteva tre volte più di noi e mangiava meno, voleva essere l'ultima ad andare a letto, la prima ad alzarsi; quando non faceva niente, s'appoggiava sempre a qualche cosa, in cucina, alla madia; si confessava ogni mese; era di stomaco debole, non le piaceva l'agnello; non sapevaleggerescrivere; canticchiava quand'era sola. Tutte le cose che diceva riguardavano solo quelli della famiglia. Per solito cominciava così: "Il mio povero marito...". Aveva tre figliole tutte sposate, che andava a trovare per le feste solenni.
Era invecchiata tra cinque casupole, che chiamano Ferraiola, a ridosso d'una scorciatoia scavata sul galestro e le macchie di ginepro. Questa scorciatoia è l'ultima svoltata, dinanzi al lavatoio, che si trova per salire a Pari; e porta, da casale, fino a Paganico e poi a Grosseto.
La prima figliola stava a Pari, ossia distante meno di mezzo chilometro da Ferraiola; ma la zia non si sarebbe mossa da casa senza mettersi il miglior vestito, e parlava di Pari come di un territorio straniero, a cui non s'appartiene e con il quale non c'è niente da vedere, dove non si va che di rado e il meno possibile e per qualche ragione speciale. Non importava che dalla sua finestra vedesse tutto il cocuzzolo del caseggiato!
L'ultima volta che la mia zia venne da me, mi portò, dentro un fazzoletto, due conigli da razza che le graffiarono le mani.
Bisognò disinfettargliele; ed ella non voleva e ci pianse.
Nei grandi prati, che mi piacevano anche prima di leggere il Petrarca, torno per vedere i fiori che avrei offerto, molti anni fa, a qualche ragazza che me l'immaginavo come ora la vedo disegnata in qualche libro. Doveva esser soprattutto buona e sentimentale; e mi doveva amare sempre lo stesso quantunque l'avessi sposata. E, qualche volta, rileggendo le nostre lettere, dovevamo sospirare insieme.
Ma i fiori ci sono anche quest'anno e forse di più, perché il tempo è stato meno secco; e allora mi vien voglia di correre verso l'orizzonte per vedere se mi riesce d'abbracciare questa donna che mi pare più viva di prima.
Ma c'è soltanto una rondine che stride.

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