Federigo Tozzi
Bestie

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Le notti d'estate non dormivo: e, s'ero andato a letto piuttosto presto, mi rialzavo e uscivostrano come la notte mi sia impossibile pensare a quel che ho fatto il giorno! È per me un altro mattino che comincia. I miei sogni, allora, sapevano d'aceto od erano voluttuosi.
E le strade solitarie dove i lampioni parevano acchiapparsi al muro per non cadere dalla stanchezza, svegliavano tutti i miei brividi, e cercavo per l'indomani gli amici e la donna da amare, che non avevo mai. Quando tirava vento, qualche manifesto staccato, sotto un arco, sbatteva al muro, e anche il mio cuore sbatteva.
Quando amavo sempre la medesima, mi piacevano i tetti rossi e i geranei. Di primavera m'ostinavo a doventar cattolico e d'inverno sognavo di doventar ricco.
Ah, non dimenticherò che ella si faceva togliere le calze da me perché le baciassi i piedi, si faceva sbucciare le frutta, mi bruciava il viso con la sua sigaretta! E perché, quand'ella mi teneva abbracciato, io guardavo noi due nello specchio e non sapevo se fossimo di qua o di da esso? E perché dimenticavo perfino il mio nome? Ella mi aveva ingannato sempre, ma ero così abituato a lei che l'amavo egualmente. E per la stessa ragione che l'orsa la notte splendeva, così doveva esserci il mio amore; e mi pareva che la mia bocca fosse nata soltanto per baciare lei. Ah, sì!
Mi piacevano i tetti rossi, i platani pieni di foglie, le acacie quando avevano messo i loro fiori, i muri delle strade e le finestre chiuse! Ma più di tutto, lo ripeto un'altra volta, mi piacevano le distese dei tetti rossi ch'erano una festa per la pioggia e per il chiaro di luna che mi faceva stare con la testa ai vetri.
Pensavo, in vece a cose che avrebbero dovuto nascere l'indomani e che io stesso dimenticavo. Non so di che mi vergognassi.
In campagna mi fermavo sotto un albero che aveva i rami troppo schiacciati, e gli offrivo di sorreggerli con la mia anima. E prima d'entrare in una strada io mi ci affidavo tutto. La stessa città mi pareva forse più di cento ; quella di quando avevo vent'anni non somigliava a quella di venticinque; la molta gente, che conoscevo, mi faceva lo stesso effetto di un pianoforte se si pigiassero insieme tutti i suoi tasti.
Rientrato in casa, deliberavo di star con la finestra aperta e allora la notte aveva una dolcezza piena di estasi sovrapposte, come accordi, dal silenzio. Palpavo, con le braccia scosse da brividi, il mio letto dove m'aspettava il sonno come un compagno. Ma io ero certo di non aver mai dormito; e mentre la musica della notte entrava, quasi di corsa, dalla finestra, io ascoltavo in piedi nel mezzo della stanza: la mia giovinezza era una cosa sola con il tempo, che mi trasportava con sé. E respingevo da me l'ultima donna, la cui nullità mi faceva un poco ribrezzo.
Ma perché, dunque, quando due briachi cantarono io non chiusi la finestra? Perché la loro voce mi dava una gioia irrefrenabile, una contentezza che non mi faceva star fermo? Sapevo forse spiegarmi quel che fosse avvenuto? Non potevo io aver ucciso molta gente? Di che cosa temei, all'improvviso? Perché non morii in quel momento di dolore?
La voce dei due briachi divenne come un disperato singhiozzo lungo, una tristezza che mi faceva raccapriccio. E, quando, affievolita, fu per sparire, io mi sporsi dalla finestra: le stelle mi parvero più belle, e ad aspettarmi.
E capii perché un gatto, accovacciato su la porta di casa mia, fosse scappato quando gli fui vicino.

* * *


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