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Con mia madre che mi voleva molto bene, andavo da luglio ad ottobre, in villeggiatura. Mangiavo il pane dei contadini, che di nascosto mi facevano bere il loro vino anche a mezzi bicchieri per volta. Io stavo quasi tutto il giorno insieme con i loro ragazzi, a cui insegnavo a rotolarsi giù per le balze del tufo sodo, a fare gli archi con una frusta o con un laccio delle scarpe. Senza che ne avessimo bisogno, andavamo a rubare negli altri campi; e, così, mangiavo tante pesche, la maggior parte acerbe, che mi sentivo la pancia più dura di un muro. E noi ci divertivamo a picchiarci, vicendevolmente, cazzotti sopra. M'ero fatto scuro e grasso: bestemmiavo e cantavo lungo i borri in fondo alle vallate, camminando tra i roghi, le canne e i pioppi; che si sentivano tremare sotto le nostre mani. Qualche volta andavamo a pesticciare sui seminati, scappando a tempo con le scarpe che non si alzavano più da quanto fango c'era rimasto attaccato. Ma ero contento di non portare più il colletto e d'avere una giubba non meno rattoppata di quella dei miei amici. Ci sentivamo con un mezzo fischio, ci capivamo a volo storcendo a pena la bocca o alzando le sopracciglia e raggrinzando la fronte: certe nostre risate avevano significati impossibili agli altri; e, ormai, non c'era più nascondigli dentro i quali non fossimo stati. O zufoli di canne e di buccia di castagno! O fruste agili e flessibili, con le quali qualche volta ci segnavamo le gambe nude! O ginocchi incrostati di sudicio, piene di ferite e di lividi! O dormite fino alla mattina, finché non m'avevano chiamato due o tre volte! E chi dirà la mia gioia quando, grattandomi i capelli con le unghie, la mamma mi disse che mi avevano attaccato i pidocchi?
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