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Quando Ranaldi s'affacciò dal parapetto della tribuna, appoggiandovi la destra armata del cannocchiale, l'aula era spopolata. Scoccavano le due, e per aver salito più che in fretta le scale, dalla paura di perdere il principio dello spettacolo, il giovane ansava. Era anche un poco confuso e intimidito. Il bersagliere di guardia, al portone; più su, al primo piano, l'usciere che lo aveva avvertito di dover lasciare la mazza; l'altro usciere che, ancora più in alto, nella saletta già popolata di giornalisti vociferanti, gli aveva chiesto di mostrare la tessera, quasi sospettando in lui un intruso: quell'apparato, quella diffidenza, i visi sconosciuti, l'ignoranza della via, l'errore d'essere entrato nella sala del telegrafo prima di fare l'ultimo tratto di scale, lo avevano impacciato e quasi intimorito. L'impressione non era stata tuttavia tanto forte da impedirgli di notare l'angustia, la bruttezza e l'oscurità dei luoghi. Sapeva che l'entrata nobile serviva ai soli onorevoli e che alle tribune s'andava per altre vie; nondimeno anche queste avrebbero potuto essere lucide e decorose. I primi tratti della scala da lui salita erano invece così bui, che ad un punto egli aveva dovuto accendere uno zolfanello per non urtare contro il muro; più su il gas illuminava l'anticamera e il corridoio, piccoli, storti e ignobili come gli accessi d'un teatro di terz'ordine; salendo l'ultima rampa della scaletta di legno, erta, stretta e posticcia, gli era parso di arrampicarsi su per uno studio di fotografo. Un sordo crescente fragore lo aveva spronato, facendogli credere che i posti fossero già tutti occupati, che già il campanello del Presidente squillasse; invece la tribuna della stampa era vuota, quasi vuote le altre torno torno, eccetto una, la pubblica, dove i curiosi si pigiavano; e vuoto, deserto l'emiciclo. Alcune persone, probabilmente segretarii, ordinavano carte sul banco della presidenza; pochi onorevoli confabulavano accanto all'entrata, ed uno solo era seduto al suo posto: uno dei posti estremi del più alto ordine dei banchi.
Ranaldi comprese che quella doveva essere l'Estrema Sinistra. Non sapeva ancora se la Destra e la Sinistra che davano il nome alle parti politiche fossero quelle del Presidente rivolto all'assemblea, o degli onorevoli rivolti alla presidenza; ma la vista del zelante e solitario onorevole inerpicato sull'angolo dell'orlo dell'anfiteatro lo orientò: quella era la Montagna. Notando, all'altro capo dello stesso ultimo banco, una lapide nera con caratteri d'oro spiccante sulla tinta uniforme degli stalli, si confermò nella supposizione: quello era il posto di Garibaldi, non più occupato da nessuno dopo la morte del Generale. Ma neanche col cannocchiale il giovane riusciva a leggerne l'iscrizione; le stesse tavole dei plebisciti sul banco della presidenza, restavano nella lontananza. Dinanzi all'aula grandiosa Federico sentiva pertanto dissiparsi l'impressione di meschinità provata per le vie d'accesso, tornava anzi in preda a un senso di soggezione. Nella solenne ascensione delle gradinate dal piano un poco oscuro dell'emiciclo verso il cielo del lucernario donde pioveva una chiarità pacata, eguale, senza contrasti di raggi e d'ombre; nella sontuosità delle arcate e nella gravità delle colonne giranti attorno alle tribune; e più che altrove nell'imponenza del banco presidenziale, alto e massiccio come un altare sullo sfondo delle lapidi sacre, tra le quali spiccavano i simulacri dei Re, c'era qualche cosa del tempio. Non era quello, infatti, il tempio dove convenivano i fedeli al culto della patria e dove se ne celebravano i riti?
Le voci dei giornalisti che cominciavano ad entrare nella tribuna distolsero Ranaldi dalla contemplazione. Due di quelli che parlavano animatamente nella saletta proseguivano a discutere anche ora che s'avviavano a prender posto; ma non più col calore di prima, anzi piano e quasi sottovoce.
«Vedrai!... Vedrai!...» diceva uno, piccolo, magro, con una punta di barbetta sul mento, al compagno, piccolo anch'egli, ma grasso, con gli occhiali d'oro a stanghetta sulla faccia lucida e rossa; il quale replicava, soffermandosi e scotendo il capo:
«No, non è possibile!... All'ultimo momento?...»
«Anzi!... O perché?... La cosa è preparata accortamente... Le dichiarazioni del governo serviranno di pretesto...»
«Ma se ancora non si conoscono?...»
«Norsa, andiamo!... Sei troppo ingenuo!... Qualunque cosa il governo dichiari...»
«Ai voti!... Ai voti!...» esclamò un terzo giornalista, entrando frettolosamente nella tribuna, seguito da altri compagni, dei quali pareva volesse sbarazzarsi, ripetendo: «Ai voti! Ai voti!... La discussione è chiusa!...»
«Si voterà, poi?» domandò un altro.
«Puoi telegrafare alla Gazzetta la vittoria del ministero!»
«Ma guarda!... Guarda un po'!...» ad una nuova voce più squillante Ranaldi si rivoltò e scorgendo il cronista sopraggiunto additare qualcuno nell'aula, vide che questa già cominciava a popolarsi. «Ma guarda un po' Vittoni che entra a braccio di Luzzi!»
«Si sono rimangiati i propositi battaglieri di ieri?»
Gli onorevoli scendevano le scale lentamente, soffermandosi a tratti, alcuni colle mani nelle tasche dei calzoni, altri coi pollici negli sparati dei panciotti, altri portando carte e giornali. Parecchi avevano già preso posto nei banchi degli ordini più bassi; molti restavano tuttavia in piedi, un numeroso crocchio si veniva formando a' piedi della scala di sinistra, ingrossandosi dei nuovi venuti ai quali impediva il passo. Nuovi cronisti sopraggiungevano anche nella tribuna: l'uscio cigolava continuamente, le esclamazioni s'incrociavano.
«C'è già la palandrana del Sarchini!»
«Bello, il panciotto bianco del Valta!»
«Ma che ha il piccolo Pallastrini?... Peppino!... O Peppino?... Che ti prende?...»
Ranaldi, guardando col cannocchiale riconobbe nel gesticolante il celebre oratore Pallastrini, Giuseppe Pallastrini, la cui testa calva, sferica come una palla da bigliardo, aveva vista tante volte disegnata sui fogli umoristici. Una gran barba bianca, un naso aguzzo, un paio di occhiali d'oro: ed egli ravvisò un altro parlamentare celebre: Gori, il radicale austero. A poco a poco, secondo che i giornalisti li venivano nominando o additando, altri personaggi noti, grazie ai ritratti ed alle caricature, fermavano la sua attenzione: Marin il gran patriotta bresciano, superstite delle Dieci giornate, testa di cammeo dalla canizie veneranda; Marco Leoni, il garibaldino aristocratico, uno dei Mille chiamato ora "l'allievo carabiniere" per la rigidità dei suoi principii conservatori: alto, asciutto, elegante, con un altero portamento del capo, con un'aria di diplomatico nella redingote abbottonata: tutto l'opposto di Boldretti, troneggiante all'altra estremità dell'emiciclo, col viso grasso e rosso come congestionato, con una selva di capelli grigi, con baffi ancor neri, corti e folti: Boldretti, uno dei capi della Sinistra, l'ispiratore del democratico Campidoglio, l'oratore focoso ed ardente. Ma troppi visi di sconosciuti passavano nel campo del cannocchiale di Ranaldi, e invano il giovane cercava di riconoscere tutti coloro che i giornalisti venivano nominando, chiamandoli con tono confidenziale, rivolgendo loro domande, consigli e barzellette:
«Barresi cerca un'idea nel gilet di Santorelli... Corre voce che Cozzi-Balestri si sia mutata la camicia... Salandra, non fare il solletico a quel povero Bacchini...»
Abbassato il cannocchiale, il giovane volse uno sguardo circolare alle tribune che si erano venute popolando. Quelle della presidenza prendevano l'aspetto di vasti ed elegantissimi palchi, colle signore dagli abiti chiari e dai cappelli infiorati che ne occupavano i parapetti, colle file oscure degli uomini in piedi, nel fondo. In un'altra tribuna, sull'estrema Sinistra, si vedevano solo signore - le mogli degli onorevoli, certamente - ed anche nelle altre, tutt'in giro, molta gente prendeva posto; vuote soltanto restavano ancora la reale e quella d'angolo. Ma giù, nell'aula, la folla degli onorevoli cresceva di momento in momento e con la folla il brusio, il vocìo, l'animazione. Si vedevano gli uscieri andare e venire rapidamente; alcuni recavano carte e biglietti, altri disponevano i portafogli sul banco dei ministri, altri s'accostavano a qualche deputato che smetteva di discorrere e lasciava i colleghi. Scoppii di risa e parole pronunziate ad alta voce vincevano il sussurro, il ronzio d'alveare, e provocavano nuove osservazioni e commenti fra i giornalisti.
«Senti, senti come crocida Bettiloni!»
«Malvagna annunzia che il gruppo Picanelli si è trasportato a Frascati aspettando l'esito della votazione.»
«Se il Ministero è fottuto alla lettera P, vengono ancora!»
«Ma che succede?... Da quando in qua l'allievo carabiniere si abbandona alla lettura dello Squillo?»
«Bravo, Cerego: questa è buona!...»
Udendo nominar Cerego, Alvise Cerego, uno dei giornalisti romani più reputati, Ranaldi, si volse a guardarlo. Lungo, magro, vivace, mobilissimo, con gli occhietti roteanti, scintillanti e penetranti, Cerego, Pif dell'Era, si spenzolava dal parapetto, sorrideva ai deputati amici, tossiva con forza per richiamare l'attenzione di quelli che non badavano alla tribuna, lanciando motti e frizzi ai colleghi, tendendo le orecchie a tutti i discorsi, a tutte le notizie, a tutti i commenti.
«Non sapete di Maineri? Non viene per paura di Costi!»
«Il fiero Mabelli s'accosta all'onesto Ghironi... gli si inchina... gli stringe la mano!»
«No, sentite: è troppo canaglia!»
«Ortesi, di' un po': è vero che Toldi non viene più da Milano?»
«È stato colpito da un reumatismo al Borsetti!»
Ranaldi considerò il giornalista che aveva risposto con quella facezia: Ortesi, "Dragutte" del Pantagruele, un altro degli umoristi: un giovanetto, all'aspetto: imberbe, con appena un'ombra di baffettini biondi sul labbro carnoso, il naso aguzzo, un gran ciuffo di capelli castani sulla fronte.
«Ecco una compatta falange» osservava egli spenzolandosi dal parapetto «intorno al Giovannino: Tremarchi e Settemini, che fanno dieci; più Ottoboni: dieciotto!» Vedendosi guardato dall'Ortesi nell'atto che proferiva la freddura, Ranaldi gli sorrise. Appiccar discorso con l'arguto cronista gli sarebbe riuscito gratissimo. Ma già Dragutte, rivoltatosi dall'altra parte, esclamava, vedendo sopraggiungere un collega, un bell'uomo, barbuto e calvo, con le mani inguantate e imbarazzate da un fascio di stampe, dal cappello e dal binoccolo: «Oh, il Governo!... Bene arrivato il Governo!... Che notizie dei vessilliferi?»
«Rimpasto?... O bomba?... O connubio?...» incalzò un altro giornalista, rivolto al sopravvenuto. Questi, depositate le cose sue sul banco, afferratosi il barbone sotto il mento e facendolo scorrere tutto fino alla punta, nel pugno chiuso, rispose con aria di studiata gravità:
«Il Governo si riserva di dire se e quando risponderà...»
«Sul serio, Colombo» incalzò un altro «è vero che il tuo principale non ha voluto ricevere Zarini?»
«Domandane un po' al tuo appaltatore che glielo ha spedito!»
Botta e risposta furono scambiate sorridendo, e Ranaldi ammirava la virtù di quella reciproca tolleranza. Senza guida, egli cominciava pure ad orientarsi. Il "Governo" era dunque Egidio Colombo, il Colombo del Nazionale, il foglio della Lega delle Sinistre, l'organo di Milesio, Presidente del Consiglio. Un nome pronunziato più volte alle sue spalle: "Borsi!... Onorevole Borsi!..." gli fece conoscere Scipione Borsi del Quotidiano, il deputato giornalista del Triumvirato, salito in visita alla tribuna della stampa e attorniato dagli ex-colleghi.
«Dov'è Avallini? Avete visto Avallini?...» domandava egli; e a un tratto, schiudendosi ancora l'uscio, gli fu risposto: «Eccolo!»
Ranaldi provò una delusione. Baldassarre Avallini, il "Signor di Camors" era un uomo d'età, tozzo, con un testone calvo, orecchi enormi e macchie di vaiuolo sul naso. Leggendone sulla Bandiera gli articoli spumeggianti di spirito, pieni di sapore d'arte, egli lo aveva immaginato giovane ed elegante, simile al Morello dell'Era che sopravveniva in quel punto, e che un collega chiamava: «Morello... Di', Morello...»: tipo d'ufficiale di cavalleria in borghese: faccia magra, naso aquilino, baffi conquistatori, caramella all'occhio sinistro, pochi capelli, ma sapientemente accomodati, un grosso mazzo di violette, ingrandito da un giro di foglie, all'occhiello. Ma ad un tratto la voce squillante di Cerego attrasse di nuovo la sua attenzione verso l'aula:
«I vessilliferi!... i vessilliferi!»
Erano i ministri che entravano in quel punto e s'avviavano al loro banco. Accusati dal Triumvirato, dopo la scissione di febbraio, di non rappresentare più la Sinistra, uno di loro, Piretti, aveva asserito che ne erano rimasti i vessilliferi: la parola era rimasta, continuava ad essere adoperata con accento solenne dagli uni, con tono d'ironia dagli avversarii.
«Come son belli!» esclamava Cerego, frattanto. «Guarda quel Luzzi: che serafino! "Tanto gentile e tanto onesto pare..." No, la testa di Varinuzzi è proprio impagabile... E che fa Milesio?... Si tocca il sedere?... Spiega il vessillo?... Il vessillo! Il vessillo! Il vessillo!...»
Tutta la tribuna si mise a ridere, vedendo il Presidente del Consiglio cavare dalla tasca posteriore del soprabito un gran fazzoletto di colore e soffiarsi il naso: ridevano anche giù nell'aula, rideva anche Sua Eccellenza.
Ranaldi, spianato ancora una volta il cannocchiale, considerava ad uno ad uno i governanti, i supremi reggitori dello Stato, e ne riconosceva le figure rese popolari dalle fotografie e dai ritratti dei giornali illustrati ed umoristici, le più caratteristiche prima di tutte: la faccia lunga, glabra, quasi clericale, del Presidente del Consiglio; il cranio lucente e i baffi incerati del Generale Marghiera, ministro della Guerra; la testa quadrata, la barba quadrata, i capelli a spazzola di Viglianesi, ministro degli Esteri; il naso adunco, gli occhi sbuzzati, il pizzo baritonale del ministro delle Finanze. Un deputato, piccolo e grasso, con un testone rotondo e ricciuto, avvicinatosi a Milesio, gli diceva qualche cosa che Sua Eccellenza ancora in piedi si curvava a udire, senza guardarlo, con gli occhi sul banco, il viso inespressivo, e Cerego apostrofava:
«Melinuzzi, cominci presto con le paroline all'orecchio... Non rompere i freni all'automedonte... Infondi piuttosto un po' di coraggio al defunto Coletti... Bene! Così!...» rincalzava, vedendo che l'on. Marinuzzi si volgeva al ministro degli Esteri: «Digli che non abbia paura, che Sonnino, se andrà al potere, lo manda ambasciatore alla Repubblica di S. Marino... E chi è ora quella palandrana che s'accosta al nostro venerato Agostino?... Guarda un po' che lasagne!... Ma, Ortesi, chi è quella palandrana che si struscia contro il banco dei vessilliferi?»
L'interrogato, guardando dietro il cannocchiale, rispose:
Ma ad un tratto l'altro, battendo le mani:
«È il cocchiere dell'ambasciata inglese!»
E allora Ortesi:
«Perdio!... Se non è lui!... Con quella faccia!... Con quelle lasagne!... Di' un po', Colombo, come si chiama il cocchiere dell'ambasciata inglese?»
«Ah, ecco!...» fece Cerego; e volgendosi al deputato, a voce alta, lo apostrofò: «Dica un poco, onorevole A, Bi, Ci, U, Zeta, guardi che la palandrana le piglia il lucido, se continua a strusciarsi così...»
Ranaldi sorrise ancora una volta. La redingote dell'onorevole era infatti abbondante ed appoggiato di fianco al banco governativo, parlando col Presidente del Consiglio e col ministro Mazzarini, egli faceva col busto una serie di brevi mosse in cadenza. Ma l'attenzione del giovane fu improvvisamente distratta da una esclamazione di Cerego:
«Pedrin s'avanza alfin!... Pedrin ascende il Calvario, seguito da alquanti Pitirolli... Tromba: attenti!»
Pietro Boglietti, il Presidente dell'assemblea, prendeva infatti posto sull'alto ed ampio seggio, e gli sguardi di Ranaldi andavano, dietro il cannocchiale, dall'uno all'altro banco, da quello del governo a quello della presidenza con un'attenzione crescente, con l'intima soddisfazione di trovarsi a quel posto, di vedere quegli uomini, di assistere a quello spettacolo. Quante volte, leggendo le relazioni delle tornate parlamentari sui grandi fogli politici, a Napoli ed a Salerno, aveva cercato di rappresentarsi il luogo e le persone, la viva fisonomia di Montecitorio!... Ora vi si trovava e riconoscendo dinanzi ed intorno a sé i maggiori uomini di governo, i più autorevoli rappresentanti del popolo, i moderatori della pubblica opinione più reputati per la gravità o la spigliatezza dell'ingegno, un senso di compiacimento lo animava. Le facezie di Dragutte e di Gravoche erano gustose nella loro birichina irriverenza; ma già i cronisti più seri prendevano posto, ordinavano carte, o curvi sulle ribalte cominciavano a scrivere, interrompendo il lavoro per prendere le loro copie degli ordini del giorno, dei disegni di legge, delle stampe ufficiali che l'usciere veniva distribuendo. Ranaldi lo vide avvicinarsi, poi allontanarsi senza avergli dato nulla: egli non osò reclamare.
Fra poco avrebbe pure udito i discorsi solenni dei grandi oratori, avrebbe assistito all'epilogo della gran lotta che si combatteva da una settimana, ne avrebbe visto l'esito dal quale sarebbero dipese le sorti del Paese. L'aula era piena oramai; zeppa a sinistra, un poco meno popolata a destra; ne saliva alle tribune un fragore come di folla in fermento; e le stesse tribune, nessuna delle quali era più vuota, sebbene nella diplomatica e nella reale non vi fosse la ressa delle altre, rumoreggiavano dall'impazienza.
Il giovane abbracciava con uno sguardo la scena, impressionato, commosso dalla maestà di Montecitorio, Foro della nazione, Basilica della terza Roma; quando, dietro di lui, una voce disse con tono breve e secco:
«Hanno mandato un altro?»
Voltatosi, vide un giornalista che lo guardava, dietro le lenti, con freddi occhi interrogatori. Capì d'avere occupato uno stallo già preso, e domandò al sopravvenuto:
«Nossignore: tutta la prima fila è occupata.»
In quel momento il campanello del Presidente squillava, molte voci gridavano: «Ai posti!... Ai posti!...»
Dalla confusione, alzandosi, Ranaldi mise un piede in fallo e dovette appoggiarsi alla colonna. Allora, sotto la mano, sentì che la grave colonna sorreggente l'arco solenne era di legno foderato di cartone.
Da principio, i rumori cessarono: nelle tribune la gente era tutt'occhi e tutt'orecchi; nell'aula gli onorevoli s'insediavano, abbassavano le ribalte, leggevano le carte ufficiali, o scrivevano, o guardavano per aria, aspettando. Poi come uno dei segretarii, l'onorevole Torresio, leggeva con voce squillante e rapida il processo verbale della seduta precedente, un rapporto interminabile, a poco a poco le conversazioni si riappiccarono: non era più il frastuono di poco prima, ma un borbottio sordo sordo, quasi un accompagnamento di contrabbassi al falsetto del segretario. Ranaldi al secondo ordine di banchi, dove aveva trovato un unico stallo vuoto, non udiva una parola della lettura; udì ad un tratto i cronisti esclamare ad alta voce: «L'incidente!... Ci siamo!...» e interrogarsi l'un l'altro: «Chi è?... Chi è?...» Un deputato dell'Estrema, l'onorevole Bigli, aveva chiesto di parlare sul processo verbale, per ottenere che rettificassero il senso d'una sua frase; ma il Presidente, da principio con molto garbo, poi un poco concitato, gli dimostrava che nel rapporto era detto appunto ciò che egli voleva. «Ma sì!... Ma sì!...» gridava Momi Cèrego; e altri colleghi: «Bigli, finiscila!... Pappino ha ragione!... Se lo fate arrabbiare a quest'ora!...» Bigli, aperte le braccia in atto di remissione, sedette. Ma le esclamazioni, nella tribuna della stampa, ricominciarono più vivaci all'annunzio di alcune interrogazioni. L'on. Gorgias interrogava il ministro dei lavori pubblici sull'"ubicazione" d'una fermata in una ferrovia di Sardegna; l'on. Mari il ministro dell'interno sopra uno sciopero di sigaraie in una manifattura di tabacchi del Veneto. Le sigaraie dell'uno e la fermata dell'altro, accesero un foco di fila di apostrofi, di motti, di epigrammi, di allegri commenti: «L'ubicazione! L'ubicazione!... A destra! Passate a destra! Torna a destra!...» Dragutte, coll'indice teso, additava al ministro dei lavori pubblici la parte destra dell'aula; poiché infatti l'on. Marzoli era un ex-moderato passato tra i progressisti dopo il Settantasei; ma i vicini del cronista esclamavano: «Lascialo dire! Lascia ubicare su Gorgias! Lo ubicheremo noi?... Lo ubicherete voi?... Egli lo ubicherà!...» Poi tutta la Camera rise pel mancato lavoro delle sigaraie; ma le interrogazioni non erano finite: ce n'era una intorno allo scioglimento del Consiglio comunale di Casalnovo, un'altra sui danni prodotti da un'alluvione in Calabria, un'altra sull'applicazione d'un comma d'un articolo d'un regolamento. Nessuno udiva né gli interroganti né i ministri; le conversazioni erano generali, nell'emiciclo, e il Presidente tratto tratto scampanellava: dei giornalisti, alcuni cominciavano a consegnare dispacci al fattorino del telegrafo o all'usciere, altri, come il grave Colombo che Ranaldi aveva adesso sotto di sé, riempivano con poche righe di carattere largo le brevi cartelle che poi numeravano; i più almanaccavano sull'esito della battaglia: «Trenta voti di maggioranza... Bisogna vedere che fanno a destra... Quanti sono?... Quattrocentododici fino a stamani... Vedrai che neppur oggi si voterà...» Esaurite le interrogazioni in mezzo a un grande frastuono, la Camera continuò a rumoreggiare; molti deputati, lasciati i loro posti, si raggruppavano qua e là; il Presidente aveva intorno parecchi colleghi coi quali parlava animatamente; Ranaldi guardava in giro un po' stanco; impaziente d'udire un vero discorso, quando risonò una scampanellata più energica, più lunga delle altre e nella tribuna esclamarono: «Griglia... Griglia... Silenzio!... Sst!... Zitti!» L'on. Griglia, il più eminente uomo di Destra, pubblicista ed oratore, finanziere e diplomatico, ex-Capo del Governo, sorgeva in quel momento; ma Ranaldi dovè mettersi in piedi per scorgerne la forte testa, la calva e rosea nuca contornata da una corona ancor folta di capelli bianchi come neve, la barba candida anch'essa, che sul viso florido e nudrito lo rendeva rassomigliante al San Giuseppe delle Sacre Famiglie.
Nell'aula, un gran rimescolio; gli onorevoli di sinistra lasciavano i loro posti e i loro banchi per affollarsi intorno all'oratore; ne venivano molti perfino dall'Estrema.
Il Presidente scampanellò ancora una volta: ma quando Griglia cominciò: «Onorevoli colleghi!...» non s'udiva più neanche uno zitto.
«Onorevoli colleghi! Il dibattito al quale assistiamo da giorni, se da una parte... assume nondimeno dall'altra... di risultati indubbiamente fecondi...» Deluso e irritato Ranaldi sporgevasi quanto più gli era possibile, concentrava tutta la sua attenzione sull'oratore per afferrare tutte le parole; ma la voce non arrivava lassù nitida e chiara se non quando Griglia volgevasi verso il centro della Camera. Tuttavia, guardando intensamente l'onorevole, protendendo tutto se stesso verso di lui, Ranaldi comprendeva il senso delle monche frasi.
La situazione parlamentare, secondo Griglia, era delle più curiose.
Il Ministero sorto dalla Sinistra, presieduto da uno dei suoi più obbediti capitani, accolto come salvatore del partito dai suoi maggiori organi, incoraggiato, applaudito, fedelmente seguito da quel lato della Camera, era adesso accusato, in quel lato della Camera, di apostasia e, "nol vorrei dire", di tradimento... Suoni rauchi, scoppii come di tosse malfrenata s'udirono nella tribuna. Un certo movimento avvenne anche tra i colleghi dell'oratore, ma questi proseguiva. A chi dar credito: al gabinetto ed ai suoi fedeli, che sostenevano sempre lo stesso programma; o ai suoi avversarii che non lo credevano più genuino?
Il dibattito avrebbe potuto non interessare per niente l'altra parte della Camera dove l'oratore ascriveva ad onore di sedere, giacché essa sarebbe stata cattiva giudice della sincerità di idee non sue; anzi la discordia degli avversarii avrebbe dovuto esser per lei ragione di contento; ma estranea a quella lotta, un dovere le incombeva: osservare le promesse fatte al Paese, lavorare all'attuazione del programma suo proprio. Egli rammentava il discorso tenuto alla associazione costituzionale di Venezia durante il periodo elettorale, il discorso nel quale, accettando le riforme volute dalle due Camere e sancite dal Re, invocava una sosta nelle novazioni politiche. Il popolo italiano erasi mostrato degno delle maggiori libertà a lui accordate...
«Da lui volute» interruppe una voce brusca a Sinistra.
L'oratore sostò un poco guardando verso l'interruttore, poi riprese, con tono d'arrendevolezza cortese nella quale era un sottile rimprovero al mal garbo della correzione: il popolo erasi mostrato degno delle maggiori libertà chieste ed ottenute, ma esso aveva altri bisogni più gravi, più prementi, alla soddisfazione dei quali era mestieri che si rivolgessero ormai tutte le cure della rappresentanza nazionale... E con fraseggiare dignitoso e signorile, facile, soprattutto, come una lettura; senza incertezze, senza brusche reticenze, senza grossi effetti; con gesti sobrii, con atteggiamenti sempre ben composti, egli enumerava questi bisogni: l'instaurazione della giustizia nell'amministrazione e della sincerità nel bilancio; la razionale sistemazione del sistema tributario; la stipulazione di convenienti accordi commerciali con paesi vicini; l'assicurazione, principalmente, dell'ordine all'interno e della pace all'estero; libertà ordinata e dignitosa pace...
L'oratore non era applaudito ancora, ma ascoltato con attenzione crescente: al banco del governo alcuni ministri, il Presidente del Consiglio fra gli altri, tenevano la mano cupa all'orecchio per non perdere una parola; gli onorevoli affollati ai piedi del settore avevano tutti il collo teso e gli sguardi rivolti al collega: la meccanica uniformità di quell'attitudine faceva un poco sorridere Ranaldi. Il suo posto, rispetto all'oratore, era tale, che l'uditorio rivolto a Griglia pareva rivolto anche al punto della tribuna donde il giovane si protendeva a udire; e tutte quelle facce umane raggruppate sotto di lui, immobili, attonite o vuote d'espressione gli erano per lui una vista quasi comica. Forse contribuiva a quest'effetto un'altra impressione non ancora ben definita, un disinganno simile a quello provato nell'attraversare l'oscura e meschina parte di Montecitorio che dava accesso alla tribuna della stampa, nel sentire che le svelte colonne non erano di marmo ma di cartone. Il senso di delusione ch'egli adesso provava era simile, ma d'ordine diverso, tutto morale: Griglia, uno dei più reputati oratori della Camera, l'uomo politico pel quale senza conoscerlo, senza averlo mai visto né udito, egli aveva concepito un'ammirazione calda, veemente ed esclusiva come un amore, parlava in quel momento: tutta la Camera, tutte le tribune pendevano dalla sua bocca - e che diceva egli? Pace con rispetto, libertà con ordine, elasticità dei bilanci, sincerità delle cifre: periodo di raccoglimento, lavoro fecondo: luoghi comuni di cui erano zeppi gli articoli dei giornali. Tutto il discorso dell'onorevole pareva al giovane un articolo di giornale: a certi passaggi, egli pensava: "Dove ho letto, da chi ho udito dire la stessa cosa?...". L'articolo aveva una forma corretta, nobile ed insieme elegante; le parole erano scelte, le frasi armoniosamente composte: ora egli non ne perdeva più alcuna; ma non trovava l'aspettata manifestazione di un pensiero nuovo, profondo, dominatore, sovrano...
La voce dell'oratore arrivava più chiara a tutta la Camera mano mano che egli avvicinavasi alla conclusione. Non già che si riscaldasse, che gridasse: neppure si poteva dire che il tono della voce si fosse innalzato; ma essa era più francamente emessa, più nettamente articolata, netta e franca come le dichiarazioni finali dell'onorevole. Quel programma pratico di riforme organiche, di raccoglimento fecondo era il suo: egli intendeva che si sostasse nelle riforme politiche non già perché ne disconoscesse la convenienza, ma perché non poteva affermarne l'urgenza. «Urge una sola cosa: assicurare al Paese la tranquillità di cui ha bisogno...» I primi applausi gli troncarono in bocca le parole: applaudivano i deputati di destra rimasti ai loro posti. «I favoleggiati prodigi del giardino d'Armida sono, per disavventura, impossibili: non v'è ubertà di suolo né clemenza di stagione, né assiduità di cure da consentire che mentre spunta una generazione di frutti, l'altra maturi...» Nuovi applausi. «Bisogna che i periodi di attività e di riposo s'avvicendino: altrimenti il campo si esaurisce. Questa stessa prudenza ci guidi nell'orto morale; perché la vegetazione delle idee è misurata come quella delle piante... Diamo tempo alle riforme votate di metter radici, di produrre tutti i loro frutti; altrimenti metteremo a dura prova la salute del Paese... Noi siamo quant'altri devoti alla causa della libertà e del progresso; il nostro amore, può parere tiepido forse perché è troppo geloso...» I bene, i bravo fioccavano ormai quasi ad ogni frase. «Del resto, il problema da risolvere non è tanto politico quanto sociale... La società nostra non ha tanto bisogno di franchigie, quanto di giustizia... Io seguirò chi si metterà su questa via... Gli oratori che mi hanno preceduto hanno guardato alla fede di nascita del ministero: io guarderò alla sua fede di battesimo...»
Griglia sedette mentre scoppiava un applauso lungo e caloroso: tutta la destra gli s'affollò intorno, gruppi animatissimi discutevano, giù nell'aula, vivacemente; molti onorevoli gestivano accalorati come sul punto di venire alle mani: nella tribuna, ognuno diceva la sua: «E dopo?... Sempre fine l'amico!... Voterà contro o a favore?... Ma che volevate dicesse?... Riconosce ora che il Paese si è mostrato degno della riforma? E quando ne aveva paura?... Bello, il socialismo della destra!... Non ancora connubio: fidanzamento!...»
Ma già una energica scampanellata annunziava la ripresa della seduta: Ranaldi vide sorgere a sinistra uno degli onorevoli che egli già conosceva: il marchese Reggiano,
«Il ministero, nato dall'equivoco, non smentisce la sua origine, e nell'equivoco e con l'equivoco, continua a vivere.»
Era entrato di botto in argomento, senza preamboli, senza espedienti rettorici; e la voce, il gesto, tutta l'espressione della sua persona somigliava quella d'un pubblico accusatore.
«Non per questo noi chiamammo tanta parte del Paese alla vita pubblica... non per questo sentimmo il bisogno di ritemprarci nella comunione col Popolo... non questo gli promettemmo... non questo egli aspettava da noi!...»
Tagliava l'aria col braccio, scrollava il capo, fremente di sdegno, fervido di ideali. «Il dodici novembre '82 doveva segnare una data non solo nella storia parlamentare, ma in quella della Nazione..., da quest'aula partire una voce gagliarda capace di scuotere, di vivificare, di suscitare...» Come l'eloquenza dell'oratore era diversa da quella del preopinante, così il contegno dell'uditorio mutavasi: una specie di nervosità elettrica serpeggiava, scuoteva la folla dal raccoglimento un po' torpido in cui la compostezza impeccabile di Griglia l'aveva immersa; i bravo i bene erano gridati quasi in tono di sfida; gli applausi calorosi d'un manipolo di amici rispondevano al mormorio ostile dei banchi ministeriali; ma, come la sorda agitazione cresceva, così Reggiano parlava più alto, più forte, più aspro. Quasi un domatore che più sente recalcitrare la bestia e più le stringe il morso e la sferza, egli non dava tregua al partito del governo: «Gli uomini che seggono a quel banco avevano una missione da compiere...: essi hanno dimostrato di non comprendere qual era e qual è... Non li affratella un ideale, non li unisce il partito...» Le interruzioni erano continue: «È vero!... No! Sì!... Bravo!... Benissimo!...»
Nella tribuna della stampa, molti cronisti scrivevano rapidamente per tener dietro all'oratore; alcuni come Cèrego e Dragutte, prendevano solo qualche appunto; quasi tutti, amici ed avversarii, scambiavano sguardi e brevi commenti per accertare o almeno concedere la vivacità dell'assalto, l'effetto che, nonostante la resistenza delle falangi fedeli, esso produceva sulla Camera. E quando Reggiano dopo una perorazione più concitata, più rapida, fatta d'argomenti incalzanti, enumerò le responsabilità cui i sostenitori di quella politica andavano incontro e dichiarò: «Altri le affronti, io voterò contro...» la Camera restò agitata, turbata, quasi sconvolta dal soffio di quell'eloquenza impetuosa. Sorse un altro a parlare, al centro sinistro, ma nessuno lo udiva, tanto animate e calorose erano le discussioni impegnate dovunque, intorno ai banchi, a piè delle scale: il Presidente scampanellava ogni cinque minuti, ma non gli davano retta; gli stessi cronisti dimenticavano di scrivere per commentare il discorso.
Il nuovo oratore parlò dieci minuti in mezzo ai rumori, accolto dalle grida di: «Basta!... Chiusura!» dei pochi deputati che gli badavano. A un tratto Ranaldi udì intorno a sé scoppii di risa, esclamazioni gioconde: «Ci siamo! Ci siamo! Adesso viene il bello!... Sortini!... Sortini!...» L'onorevole Sortini, un uomo tozzo, molto barbuto, con una gran catena d'oro sul panciotto, era sorto a sinistra, ma egli aveva appena aperto bocca che risate ed apostrofi cominciarono a fioccare dalla Camera e dalla tribuna.
«Onorevoli colleghi, mi direte che abuso della vostra pazienza...»
«Che!... Si figuri!... Parla! Parla!... Parli Sortini!...»
«Però io prometto che sarò breve...»
«Benissimo!... Bravo!... Promissio boni viri!...»
«Onorevoli colleghi, se credete che la discussione non è matura...»
«Ah! Ah!... poveretta!... Mettila sulla paglia...»
Imperterrito, egli continuava, ingrossando la voce, gesticolando con le braccia corte e grosse che facevano i manichi di quella pignatta che era il suo tronco: ma la voce era naturalmente debole; talché non arrivavano lassù, alla tribuna, se non mozziconi di periodi, lembi di frasi rotte, parole, ognuna delle quali provocava un nuovo accesso di ilarità...
«L'Italia è vergine... Quei banchi sono impotenti... L'orizzonte del gabinetto...»
Cèrego, specialmente, non ne perdeva una: quando finiva di torcersi dalle risa, gridava ai compagni: «Zitti!... State a sentire!... No, oggi è veramente sublime...» Ranaldi era scandalizzato del contegno dei giornalisti: l'oratore si esprimeva con immagini un po' stravaganti, saltava da un argomento all'altro; ma non pareva al giovine che dicesse cose veramente ridicole, molto diverse da quelle che si leggono sui giornali e s'odono nei caffè e nelle farmacie. Durante una tregua delle risa, Sortini affermava giunto il momento d'avere il coraggio delle proprie opinioni, di decidersi risolutamente di saltare il fosso «fare, onorevoli colleghi, come diceva il personaggio di Dante Alighieri...» Momi, Dragutte cominciavano già a gongolare, gridando: «Zitti!... Ah!... Ah!... Sentiamo Dante Alighieri... Sentiamo che fece il personaggio...» E l'oratore: «...che giunto alla riva del pelago non si ferma già, né torna indietro, ma si volge all'acqua perigliosa e guada...» Scrosciò una risata così generale, in tutti i banchi, da tutte le tribune, che l'oratore restò colla bocca aperta e le braccia tese in atto di slanciarsi a nuoto. Poiché vide ridere anche i suoi vicini di banco, si chinò verso di loro, interrogandoli, voltandosi da destra a sinistra e viceversa; ma, come la risata non finiva, egli si risolse a concludere: «Insomma: chi comprende la situazione tanto meglio; chi non la comprende o non la vuol comprendere, tanto peggio...» «Bravo!... Benissimo!... Ah! Ah!...»
«Per conto mio non farò come quelli che, non contenti di tenere un piede nella maggioranza e uno nell'opposizione, vogliono anche metterne un altro...»
Allora tutta la Camera si torse, le risa convulse, spasmodiche come singulti formarono un concerto in mezzo al quale le ultime parole del disgraziato si perdettero.
Ma la calma e il silenzio si ristabilirono come per incanto quando sorse a parlare l'on. Corsi, il celebre leader dell'Estrema Sinistra. Ranaldi che aveva riso con gli altri alle ultime sparate del Sortini e s'era ricreduto, a suo riguardo, riconoscendo meritata l'accoglienza fattagli fin da principio, rivolse tutta la sua attenzione al nuovo oratore. Non udì neppure una parola, e provò una grande delusione. Corsi era rauco, la voce uscivagli rotta dalla gola come se parlasse mangiando; poi la distanza, le cattive condizioni acustiche dell'aula rendevano più confuso il suono inarticolato che arrivava alla tribuna. Ranaldi comprendeva però, dal solo aspetto del deputato radicale, il genere della sua eloquenza. Le mani, le braccia, la testa, tutta la persona, non stava un istante ferma. Mostrando delle carte, egli vi batteva su cinque, sei, sette, otto volte con la destra; additando il banco ministeriale pareva lavorasse a far penetrare un succhiello nell'aria, e alzava le braccia, le incrociava sul petto, si voltava da tutti i lati. I suoi colleghi, compresi quelli dell'altro lato della Camera, gli s'affollavano intorno, gli prestavano un'attenzione così profonda come quella accordata a Griglia; e sui banchi dell'Estrema le interruzioni approvative ed ammirative gli erano frequenti. Ma più parlava, più confusa arrivava la sua voce alla tribuna della stampa; e solo i reporters anziani, quelli che comprendevano gli oratori dall'atteggiamento della persona, annunziavano che il discorso era una requisitoria contro il ministero, più severa, più ardente, più acre di quella pronunziata dall'on. Arconti. Quella dichiarazione di guerra, dopo il discorso di Arconti e la buffa difesa di Sortini, e le riserve diplomatiche di Griglia, produceva un senso d'inquietudine tra i giornalisti ministeriali: Ranaldi lo comprendeva a certe frasi che i suoi vicini si scambiavano sotto voce, alla baldanza degli oppositori. «Scendono!... Scendono!... La baracca Milesio è in ribasso!... Guardate quel Curti-Sapioli: se non pare un cane bastonato!...» Alcuni facevano anticipatamente il computo dei voti: il ministero aveva per sé un centinaio di suffragi sicuri, a sinistra; all'opposizione c'era il partito dei duumviri, tutta la sinistra giovane, tutta l'estrema. I centri si sarebbero scissi; a destra, astensione prevalente e quasi generale: tutto sommato, una maggioranza a favore d'una diecina di voti, se pure; tale, in ogni caso, da non poter salvare il governo. Ma i ministeriali davano per sicura una maggioranza di trenta voti, almeno; Cèrego, quantunque non fosse parso a Ranaldi molto sicuro, dimostrava che, se fossero arrivati col treno dell'alta Italia, i deputati che avevano annunziato la loro presenza pel momento del voto, la maggioranza di 45 o 40 voti era certa. Solo Colombo non parlava, badava a scrivere, cartelle sopra cartelle, a consultare le prime colonne del resoconto sommario del quale Ranaldi aveva chiesto una copia all'usciere. Non potendo udire Corsi, che era interrotto sempre più spesso da approvazioni sempre più calde, egli leggeva quelle colonne, umide, odoranti di tipografia; e nonostante la stanchezza, e l'intorpidimento di tutta la persona, poiché da tre ore restava fermo al suo posto, non pensava ad andarsene, afferrato da un interesse simile a quello che si prende in teatro ad un dramma. Più grande, anzi, poiché il dramma era reale e non concepito freddamente a tavolino da uno scrittore; e i personaggi recitanti nell'aula parlavano per proprio conto, spinti da passioni realmente provate, e lo scioglimento impossibile ad antivedere, non era atteso soltanto per semplice curiosità, ma per la somma di conseguenze d'ogni genere che avrebbe avuto nella vita della nazione...
Pareva che il discorso del Corsi, finito tra applausi vivissimi ed insistenti, avesse accresciuto l'impressione di sgomento cominciatasi a manifestare sul principio: si vedevano alcuni deputati, che i giornalisti chiamavano tirapiedi di Milesio, andare a confabulare col capo del governo; salire e scendere pei settori accostandosi un momento all'orecchio dei tepidi amici, degli irresoluti, quasi per comunicare loro una parola d'ordine. Voci insistenti chiedevano: «Chiusura!... Chiusura!...» e specialmente nella tribuna della stampa gridavano: «Ai voti!... Ai voti!... È tardi!... La chiusura!...» Ma il Presidente scampanellò, e sorse un altro oratore al centro sinistro. «Chi è?... Chi è?...» Dragutte annunziò: «To'! Il cocchiere dell'ambasciata inglese!...»
Il deputato che era stato a lungo intorno al banco ministeriale prima della seduta, cominciò a parlare, con voce un po' malferma, ma chiara, tenendo tutt'e due le mani afferrate alla ribalta.
«Onorevoli colleghi, ho bisogno innanzi tutto di fare appello alla vostra indulgenza, se dopo gli insigni oratori che vorrei poter chiamare col nome di maestri...»
Non lo lasciarono finire: nell'aula rumoreggiavano, pestavano coi piedi; nelle tribune lo apostrofavano: «Andiamo!... A quest'ora!... Ma chi è?... Un neo, uno degli eletti dell'art. 100!...» Dragutte, specialmente, udendo che l'onorevole faceva con quel discorso il suo esordio parlamentare, pareva inferocito: «Ma chi ha mai esordito in una discussione sopra una quistione di fiducia?... Sta zitto, art. 100!... Mettetegli la museruola!...» L'oratore, finito il preambolo, sostò un momento, guardandosi attorno incerto e quasi sgomento; ma una violenta scampanellata e una vivace esortazione del Presidente, ristabilirono un relativo silenzio. Ricominciò, dicendo che la situazione di cui si discuteva non era senza riscontro nella storia parlamentare, e che il modo come altre crisi dello stesso genere erano state risolte, poteva esser seguito, o per lo meno dar lume in quel momento. Tutti si volsero a udirlo. La promessa d'un paragone dal quale poter trarre qualche criterio sul da fare, gli conciliava l'attenzione generale. «Onorevoli colleghi, la situazione presente è del tutto eguale a quella determinatasi, dopo il bill sull'emigrazione, nella House of commons, l'anno millesettecento...» Un Uh! generale, fragoroso come un colpo di vento, levossi da tutta l'aula; Dragutte gridò: «Fuori!... Alla porta!... Facciamola finita!...» altri giornalisti emettevano suoni incomposti, sibili, latrati, miagolii, nitriti, o battevano i piedi contro i banchi per soffocare la voce dell'oratore; il quale, adesso, preso coraggio, proseguiva imperterrito citando «l'illustre Macaulay...», i «capisaldi del diritto costituzionale», le opinioni dei «più chiari giuspubblicisti...».
Gli Uh!... Uh!... l'accompagnavano, più forti, più lunghi, ad ognuna di quelle frasi; il baccano cresceva di momento in momento, diveniva così violento che gli squilli del campanello presidenziale quasi non s'udivano più.
«Ma chi è?... Dove l'hanno pescato?... Si può sapere chi diavolo è questa palandrana?... Nessuno lo conosce?... Colombo?... Colombo?...» Colombo che scriveva ancora senza prender parte al chiasso dei colleghi, sorridendo appena alle loro più violente apostrofi, disse: «È un siciliano... un principe siciliano...» Allora Dragutte si mise a cantare, forte: «Un prence egli è, e nulla più...» accompagnato dai vicini che facevano da contrabbassi; ma il canto e l'accompagnamento si perdeva nel gran concerto dei cronisti esasperati che grugnivano, bubilavano, crocidavano, cantavano la ritirata: «Ritirati, cappellon!... Ritirati, cappellon!» o gridavano dei «Bravo!... Bene!... Ma benissimo!...» ironici. Il Presidente, arrabbiatissimo, scoteva il campanello come se lo picchiasse sulle spalle di qualcuno, si rivolgeva all'oratore per incoraggiarlo, o forse per invitarlo ad essere succinto; ma l'oratore, dopo brevi pause, ripigliava: «Il partito whig non è la nostra sinistra... il nostro moderato non è tory...» E i muggiti, i belati, i guaiti, gli squittii, gli urli animaleschi salivano al cielo.
«Momi, la marcia!... La marcia, Momi!...» gridavano parecchi rivolti al Cérego incitandolo, spronandolo, ma Cérego pareva di malumore, non più disposto come al principio della seduta a far chiasso. «Su, Momi, la marcia!...» E Ranaldi, intontito, sdegnato, e suo malgrado sorridente, non sapeva che cosa significasse quell'invito, fin dove dovesse arrivare il baccano; quando Momi, dapprima a fior di labbra, poi a tutta voce e sempre rinforzando, intonò la fanfara reale: «Tarà, taratatà, tarataltà, taratà...» Allora tutti si misero ad accompagnarlo, con la voce, con le mani, coi piedi; e alle prime battute della marcia: «Perepè, perepè, perepè!...» il concerto divenne così alto che tutte le tribune, gli stessi deputati rumoreggianti e vociferanti, si volsero ai banchi della stampa.
E l'oratore continuava! Tranquillo, sicuro, disinvolto, quasi gli prestassero un'attenzione benevola, anzi lo incoraggiassero addirittura, continuava a parlare, a rivolgersi agli "onorevoli colleghi", a consultare un suo foglio di appunti. Impossibile udire una sola frase: intendevasi solamente il tono interrogativo delle antipofore, l'accento vittorioso degli inferimenti improvvisi, poiché il discorso era un vero discorso, ordinato, pieno di effetti rettorici. I deputati, stanchi, seccati, presero il partito di uscire, a frotte, rumorosamente; ma neppure quella dimostrazione lo arrestò: dinanzi all'aula spopolata e ormai tranquilla, egli continuava a perorare. E adesso Dragutte, Cérego, tutti i giornalisti prima furibondi, esprimevano uno stupore straordinario, una ammirazione senza limiti. «Perdio!... Corpo!... Che faccia!... Che polmoni!... Che fegato!...» Essi si guardavano l'un l'altro e la loro meraviglia cresceva, udendo il discorso dell'oratore, una specie di lezione di diritto costituzionale che egli faceva alla Camera: «I partiti si avvicendano al potere... la Corona ha il diritto del veto... il ministero è responsabile!...»
«Ma, onorevole di Francalanza,» gridò a un tratto il Presidente «venga alla quistione!»
«Francalanza!... Oh, Francalanza!... Di', franco-Lanza!...»
Udendo il nome dell'oratore, i giornalisti ricominciarono a motteggiare, a rumoreggiare, a tempestare; e l'onorevole, dopo essersi arreso un momento al richiamo presidenziale, spiegava ancora il meccanismo parlamentare, le attribuzioni delle due Camere, le facoltà del potere esecutivo. «Ma, onorevole di Francalanza, che c'entra questo?... onorevole di Francalanza, la Camera è impaziente!... Ma la prego, onorevole di Francalanza!...» Ogni due minuti il Presidente lo interrompeva; e i giornalisti, adesso, preso il partito della canzonatura, si chiamavano tra loro col nome dell'impassibile oratore, mutando il senso della particella nobiliare: «Di' Francalanza; vieni fuori?... Deh, Francalanza, hai il resoconto sommario?...» Molti, come gli onorevoli, se ne uscivano; Ranaldi, a cui le gambe cominciavano a formicolare, li seguì. Nella saletta, il fumo di sigari era fitto come una nebbia; il frastuono, assordante: discutevano le dichiarazioni di Griglia, di Arconti, e di Corsi, profetavano l'esito della votazione, narravano il dietro-scena, denunziavano i maneggi dei corridoi, le trame dell'ultim'ora. Per tutti quei discorsi, per la contraddizione delle notizie, per la sicurezza con la quale i risultati diametralmente più opposti erano creduti e negati, la curiosità di Ranaldi cresceva. Egli comprendeva che la sicurezza era ostentata; che tolto un certo senso di baldanza negli oppositori, nessuno poteva garentir nulla; e l'aspettazione dell'ignoto verdetto diventava in lui ansiosa come se il voto lo riguardasse personalmente. «Parla ancora!...» annunziavano i cronisti che andavano un momento a vedere quel che avveniva nell'aula; e le storpiature del nome di Francalanza interrompevano la gravità delle discussioni. «Ma che muso!... Ma che tipo!... Questo vi dà il Paese!... L'articolo 100! L'articolo 100!...»
Allora le conversazioni prendevano un'altra piega, s'aggiravano sulla riforma elettorale, sulle speranze che aveva fatto concepire, d'una radicale rinnovazione dell'ambiente politico.
«La chiusura!... La chiusura!...»
Tutti corsero ai loro posti. Dopo l'ultimo discorso la Camera aveva votato la chiusura; alcuni deputati iscritti per parlare rinunziavano alla parola tra le approvazioni generali. Quando sorse il Presidente del Consiglio l'aspetto dell'aula divenne imponente; tutti gli onorevoli rioccupavano i loro posti, e parevano cresciuti di numero; a sinistra, specialmente, tutti i banchi e tutti i settori erano pieni; non più una tribuna vuota: popolate quelle del Senato e degli ex-deputati; folla d'uomini e parecchie signore nella diplomatica; una dozzina di persone e una dama anche nella reale; e in tutte le altre la gente affollata negli ordini più alti e protesa a guardare nell'aula pareva sul punto di precipitarvi. L'onorevole Milesio, magro, alto, chiuso nella severa redingote tra da militare in ritiro e da pastore protestante, guardò un momento in giro, aspettando che gli ultimi piccoli rumori si spegnessero e cominciò:
«Poiché la Camera - ha espresso la volontà - di venire al voto - io sarò brevissimo. - Del resto, anche - se mi consentisse di indugiarmi - io non potrei, oggi, trarre profitto della sua indulgenza. Le dichiarazioni del governo - sono fresche di appena tre giorni, - e non una virgola - noi abbiamo a mutarne...»
Egli parlava breve, conciso, quasi secco: col braccio piegato, il pugno chiuso e il solo indice aperto, faceva un gesto sempre eguale, come per tagliare, per stroncare i suoi periodi che non erano già molto lunghi. La dichiarazione alla quale egli si riferiva era stata anch'essa definita una parafrasi, una trascrizione del programma di Firenze: il ministero non aveva dunque bisogno di ripetere ancora ciò che aveva detto più volte... Al passaggio trascrizione, una voce interruppe: «Per canto e pianoforte...» provocando una risata. Ma l'oratore: «Se nel concetto dei critici, questa definizione implica un biasimo, io credo invece di poterla apprendere come una lode non piccola: la precisa ed insistente ripetizione che può parere monotonia è anche indizio di fedeltà; mentre le variazioni continue possono alterare il motivo fino a mutarne il carattere...» Risero qua e là; alcuni esclamarono: «Bravo! Bene!...» Ma la massa della Camera rimaneva silenziosa, attenta, impassibile. L'oratore non dovendo riesporre il programma del gabinetto, sentiva la necessità di rispondere ad alcune accuse mossegli in quei giorni. E cominciò a confutare le asserzioni di Corsi, di Arconti, dei deputati che avevano parlato nella seduta precedente: «Non è esatto dire - che il ministero... Se l'onorevole Bonacà volesse darsi la pena... Il programma di Firenze rispondeva anticipatamente - a queste difficoltà!...» Senza accorgersene, egli tornava su ciò che aveva promesso di non ripetere: e tutto il discorso, confutazione degli accusatori, riaffermazione di promesse e di impegni, pareva a Ranaldi rigido, grigio, stranamente intonato con l'ora crepuscolare, che stendeva nell'aula come un velo di nebbia e le sottraeva calore.
Ad ogni periodo il giovane credeva che l'oratore stesse per sedere, non avendo altro da dire; che il suo discorso dovesse finire in mezzo a quel gelo, senza un movimento vivace, senza una calda esortazione; pure, Milesio proseguiva. Il ministero non smentiva le sue origini: nessun atto, o parola degli uomini che sedevano a quel banco, poteva far sospettare che essi disconoscessero il loro partito. A quel banco essi non erano andati: erano stati mandati. Se il programma del gabinetto riscoteva approvazioni in altri lati della Camera, non era né ragionevole né possibile rifiutarle e respingerle. Esso aveva detto quel che era e quel che voleva: «Chi ci ama, ci segua».
E sedette. Agli ultimi passaggi, l'ambiente erasi un poco riscaldato; le decise affermazioni avevano provocato qualche applauso; la stessa repentina illuminazione dell'aula giovava all'oratore; infine scoppiò un battimano nutrito. Ma Ranaldi sentiva ancora l'impressione di stento, di freddo provata in principio: gli pareva che Milesio, compresa l'ostilità della Camera, e già disposto ad andarsene, avesse parlato per dovere, senza impegno, senza zelo; e il giovane vedeva che, nonostante gli applausi finali, il giudizio dei giornalisti concordava col suo. «Ohi, Ohi! Poca lena, stamane!... E che diamine: neppure il solito appello agli amici?... Vecchio effetto, l'andati e il mandati.... Causa persa, mio caro!... Se si vota, stasera, il disastro è fatale!...» Nell'aula, un cicaleccio lungo, un mormorio sommesso, confabulazioni intime tra gruppi di vicini e d'amici, quasi nessuno volesse manifestare chiaramente il proprio pensiero: né i ministeriali le loro paure, né gli oppositori le cresciute speranze.
Quando il Presidente scampanellò per dar lettura dell'ordine del giorno, molte voci esclamarono: «A domani!... a domani!...» Allora alcuni, a sinistra, denunziarono la manovra, gridando: «No!... Si continui!... Avete paura!...»
Proposta la quistione, la Camera risolse, a notevole maggioranza, di proseguire. E cominciò la sfilata degli ordini del giorno, di fiducia, di sfiducia, di fiducia condizionata: «La Camera, udito... La Camera, convinta... La Camera, considerato...»
Quasi tutti i sottoscrittori che sorgevano a darne ragione, parlavano in mezzo alla disattenzione, ai rumori. Pochissimi, nella tribuna della stampa, badavano agli oratori; Colombo, adesso, riceveva ogni due minuti letterine in busta chiusa alle quali rispondeva con biglietti chiusi egualmente, che consegnava all'usciere; poi riprendeva a scrivere cartelle, metodicamente, come un impiegato nel suo ufficio, sordo alle voci dei suoi colleghi che o discutevano vivacemente, o facevano baccano: «Chi parla?... Bertè!... Beh! Lo leggeremo domani nel Dibattimento... Oh Oh! Marinetti!... Un discorso Marinetti: questo poi no!... Passa via!... Auh! Auh!... Psccct!... Bum!... Bum!... Zu!...»
Pitti, primo sottoscrittore d'un ordine del giorno favorevole al quale aderivano trenta deputati, ottenne un po' d'attenzione; ma, poiché egli tentava una glorificazione del ministero, interruzioni vivaci e applausi insistenti soffocavano le sue parole. Quando sedette, fu fatto un secondo tentativo di rimandare la seduta: le grida «A domani!... Sì!... No!... No!... Sì!...» echeggiavano da tutte le parti. Questa seconda volta la Camera per pochi voti manifestò la volontà di continuare.
Ranaldi udiva i giornalisti formare pronostici prendendo lume da quelle votazioni, studiando gli aggruppamenti delle firme nelle proposte di deliberazioni; ma i criteri erano fallaci; e non tutti gli oppositori si dimostravano sicuri della vittoria; alcuni dicevano che bisognava fare i conti sul gregge degli incerti e degli incoerenti, sulla massa anonima ed acefala che non sapeva ancora come voterebbe e non avrebbe neppur saputo dopo la votazione come aveva votato... E Ranaldi, un momento persuaso che il ministero sarebbe rimasto soccombente, comprendeva ora come prima, l'impossibilità di prevedere il risultato.
Per lui, ogni deputato doveva già esser fermo in una decisione; avversario risoluto o sostenitore fin dal principio; e gli pareva strano che i lunghi discorsi di quella seduta potessero avere influenza sull'animo di un uomo convinto, che gli assalti di Corsi e di Arconti potessero indurre un ministeriale a votar contro, o la difesa di Milesio sottrarre voti all'opposizione. Ma doveva pur esserci un gran numero di indecisi o di mal fidi, se laggiù, nell'aula, invece di votare immediatamente, parlavano ancora, esortavano, predicavano, se era vero quel che dicevano i cronisti cioè che, nei corridoi, armeggiavano e complottavano. Allora, chi avrebbe potuto dire come sarebbe finita?
A furia di mettere e levar pesi nei due piatti d'una bilancia, da qual parte sarebbe traboccata all'ultimo istante? E il giovane si sentiva venire un'idea che giudicava curiosa, un po' stravagante, ma non del tutto sbagliata: «Tanto vale affidarsene al caso! Mettere un sì e un no in un'urna e tirare a sorte!... Oppure giocarla a pari e caffo!...»
Un movimento generale, un mormorio d'attenzione lo trasse da quei pensieri: «L'allievo-carabiniere!... Silenzio, adesso!... State a sentire!...» Adornesi, l'allievo-carabiniere, da un alto banco dell'ultimo settore di destra, dominava la Camera con l'alta persona rigidamente composta: la mano destra nello sparato dell'abito, il braccio sinistro pendente lungo il fianco, lo sguardo fiso, le sopracciglia corrugate, come un generale sopra un colle nel momento che l'azione impegnata nella pianura sta per decidersi.
«In venti anni di vita parlamentare mai come in questo giorno m'è stato grave parlare. Ho visto in quest'aula combattere lotte accanite e scatenarsi formidabili tempeste; ho visto il bagliore dei lampi, ho udito il cozzo dell'armi, i clamori dei trionfanti e le querele dei vinti: ho visto ancora prepararsi congiure e scoppiare ribellioni violente; ma nelle battaglie, nelle ribellioni, nelle stesse congiure la legge della lealtà vidi sempre rispettata, non mai onorati e premiati i traditori...»
Parve a Ranaldi come se dei colpi di moschetto echeggiassero nell'emiciclo; uno scoppiettio propagavasi pei settori, voci e rumori così forti, brevi e secchi come spari d'armi. I cronisti scambiavano rapide occhiate d'intelligenza, esclamazioni d'allarme: «Ohi! Ohi!... Capperi, Adornesi!... Ora viene il buono!... Ora cominciano i cazzotti!...»
«Una voce amata e venerata...» l'oratore si volgeva verso Griglia «ha qui oggi detto che bisogna distinguere tra fede di nascita e di battesimo: so anch'io che alla fonte battesimale, sia qualunque il rito e il Dio, l'uomo nasce veramente alla vita dell'anima, ma a questa fonte voglio vedere accostare i catecumeni, non apostati...»
Un nuovo, più alto fragore accolse le parole dell'onorevole: applausi, urli, voci di rampogna, proteste di minaccia, un tumulto infernale. Adornesi parlava ancora, gridava anzi, accompagnando la voce con gesti imperiosi, ma non si udiva più nulla, altro che lo squillare del campanello, l'esortazione disperata: «Onorevole Adornesi!... Onorevoli colleghi!!» del Presidente furibondo e abbaiante. All'Estrema Sinistra applaudivano un gruppo di quattro o cinque deputati con più calore che non a destra; ma in ogni parte della Camera gli onorevoli non badavano tanto all'oratore quanto ad apostrofarsi, ad accusarsi, a sfidarsi l'un l'altro. «Mo' si mettono le mazzate!... Bene!... Bravo!... Stasera finisce a cazzotti!» esclamavano alcuni giornalisti gongolanti; altri si interrogavano in mezzo al tumulto: «Ma allora?... Vota contro?... La destra si divide?... E Griglia?... Chi ci capisce più nulla!...»
L'oratore, infatti, appena poté farsi udire, spiegò che il suo dolore, in quel momento, veniva dalla necessità di doversi separare dal capo del suo partito, di non poterlo seguire nella promessa dell'aspettazione benevola.
Nulla di buono poteva uscire dall'equivoco, dalla confusione, dalle beghe immorali... Ancora grida, ancora urli. Egli sedette senza che le ultime parole potessero udirsi.
«Ai voti!... Ai voti!... Ai voti!...»
In mezzo a un frastuono d'inferno gli ultimi ordini del giorno furono ritirati; Milesio sorto un momento a parlare, dichiarò d'accettare quello di Pitti. Ranaldi credeva che avrebbe risposto sdegnosamente alle accuse di Adornesi; invece, dopo quella dichiarazione scussa scussa, sedette.
E cominciò l'appello nominale. La disfatta del ministero pareva ormai a Ranaldi inevitabile; se mezza destra seguiva Adornesi, se quasi tutta l'Estrema Sinistra seguiva Corsi, quelle due grosse pattuglie unite alle fazioni di sinistra antiministeriale dovevano formare una maggioranza ostile. I no fioccavano spessi, risoluti, quasi trionfatori. I giornalisti ministeriali erano serii e taciturni; alcuni, in piedi, con un foglio in mano, facevano il conto dei voti; quelli che non scrivevano ostentavano una falsa fiducia, scherzavano, apostrofavano i votanti per nascondere la loro paura; solo Colombo, sempre seduto, conservava la sua serenità, non chiacchierava, non cantava vittoria né lagnava la sconfitta.
I sì e i no s'udivano da destra, da sinistra, saltellanti come le note d'un pianoforte i cui tasti sono toccati a caso. A poco a poco, i sì dapprima molto scarsi cominciavano a spesseggiare: alla lettera C le due parti s'equilibravano. E a un tratto cominciò una sfilata di sì, rapidi, impazienti, interrotti a rari intervalli da qualche no sonoro e violento che provocava risate.
I ministeriali riprendevano ardire; Cèrego esclamava: «I miei quaranta voti, vedrete!...» Ormai, che il ministero resterebbe vincente cominciava a non esser più dubbio. Ranaldi, affranto, esausto, intirizzito da sette ore di assoluta immobilità s'alzò, ma senza andar via, poiché non comprendeva quel che avveniva, l'agitazione dei deputati, le esclamazioni dei suoi vicini: «Il patto è stretto!... Quel Nicotera... c'è riescito!...». E ormai non s'udivano altro che sì, sì, sì, sì, sì. Le proporzioni della già dubbia vittoria crescevano da un momento all'altro e cresceva il fermento nelle tribune e nell'aula.
La maggioranza era di quaranta, sommava a sessanta, s'avvicinava a settanta voti. Quasi tutta la Destra seguiva l'esempio di Griglia che aveva votato a favore; Adornesi restava in compagnia di una dozzina d'intransigenti. Gli astenuti erano pochissimi; come per effetto di un contagio, come non potendo dire altrimenti, tutti rispondevano sì, senza esitare. La proclamazione, 263 favorevoli, 140 contrarii e 12 astensioni, fu fatta in mezzo a un clamore di piazza in rivoluzione.
Ranaldi che non ne poteva più e non si reggeva in piedi, e non era riuscito a capire, s'avviò per uscire. E nella saletta, per le scale, dinanzi all'uscio dell'ufficio telegrafico, non udiva che voci di giornalisti d'opposizione esasperati, insulti rivolti alla maggioranza ministeriale, come, prima della seduta, aveva udito gli insulti dai ministeriali rivolti alla temuta opposizione: «Farabutti!... Mascalzoni!... Cretini!... Branco di pecore!... Che fior di canaglia!...»