Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
L'Imperio

II

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II

 

Consalvo Uzeda di Francalanza era entrato a Montecitorio, in qualità di rappresentante del Paese il 22 novembre '82, giorno in cui il Re aperse la XIV legislatura, salutando gli eletti dal suffragio quasi universale. La cerimonia inaugurale, sempre solenne, ebbe quella volta una particolare importanza, poiché le elezioni erano state fatte con la nuova legge, a scrutinio di lista ed a suffragio tanto allargato da potersi dire universale; i singoli deputati non rappresentavano, dunque, come prima, qualche centinaio di elettori d'un piccolo collegio, ma parecchie migliaia di cittadini di mezza provincia; la loro autorità era pertanto cresciuta, ed essi avevano diritto ad una maggiore considerazione.

Insuperbito pei seimila e tanti voti che gli avevano dato, ubbriacato dalle dimostrazioni popolari che per tre giorni consecutivi avevano salutato la grande vittoria del "principino", come ancora lo chiamavano nella sua città natale, l'onorevole di Francalanza, appena eletto, aveva subito fatto le valige ed era partito per Roma in gran fretta, quasi che dal suo arrivo alla capitale dipendesse la salute della patria. La presunzione ereditaria degli Uzeda, più conosciuti, laggiù in Sicilia, col nomignolo di "Vicerè", poiché vantavano parecchi vicerè tra gli antenati e dei vicerè serbavano ancora il fasto ed il prestigio; l'abilità della quale aveva dato prova nelle amministrazioni locali; la dottrina acquistata da sé, faticosamente ma ostinatamente, quando s'era proposto di mettersi nella vita pubblica, le facoltà naturali che sapeva di possedere: una forte memoria, una straordinaria facilità d'eloquio, una gran dose di astuzia, gli facevano nutrire le più alte ambizioni. L'ambizione lo aveva gettato nella politica, poiché a lui non bastavano né i titoli di principe di Francalanza e Mirabella, né le ricchezze paterne, né il rispetto di cui era circondato nel suo paese. Fino a ventidue anni se n'era appagato, badando soltanto a spassarsi, a guidare i suoi cavalli, a vestirsi come un figurino, a mettere a male ragazze ed a far baccano e prepotenze la notte insieme coi suoi nobili amici. Ma gli Uzeda, oltreché boriosi come veri discendenti di hidalghi, erano stravaganti, cocciuti e anche un po' matti, e non riuscivano ad andar mai d'accordo in famiglia: Consalvo, per suo conto, s'era messo in urto col padre, il quale lo aveva tenuto fino a tardi chiuso nel noviziato dei Benedettini, e i contrasti erano divenuti quotidiani, quando il principe Giacomo, morta la prima moglie, aveva dato al figliuolo una matrigna. Proprio allora Consalvo, di fresco uscito dal convento, s'era messo a scialacquare ed a far debiti; la tensione si inasprì quindi a tal segno, che il padre lo mandò via di casa, a viaggiare, sperando che dopo quella diversione si sarebbe modificato, e godendo a ogni modo d'una tregua durante la sua assenza.

Il viaggio fu la grande lezione del giovane; e dopo dieci anni, la rammentava ancora. Non poteva, no, dimenticare la mortificazione provata nel vedere che la sua nobiltà, la sua ricchezza, tutte le ragioni del credito goduto in Sicilia, non valevano più nulla, o quasi, appena fuori di casa sua. A casa sua era Consalvo VII; il "principino", uno dei "Vicerè", conosciuto, ammirato, invidiato e riverito da tutti: egli era divenuto un signore qualunque a Napoli, a Roma, a Milano, e peggio ancora a Vienna, a Parigi ed a Londra.

Il ricordo di quel senso d'umiliazione quasi scorata, si ridestava più preciso, in lui, per virtù del contrasto, a bordo del piroscafo che trasportava a Napoli, non più Consalvo Uzeda, ma l'onorevole di Francalanza. Quell'altra volta, dieci anni addietro, nessuno aveva badato a lui; adesso i camerieri gareggiavano di zelo per servirlo, per indovinare i suoi desideri; i viaggiatori, saputo della sua qualità, lo guardavano con occhio curioso, parlottando piano tra loro; a tavola, il comandante gli aveva fatto assegnare il posto d'onore alla sua destra. Ed egli non aveva perso tempo: , tra una portata e l'altra, s'era messo a fare una specie di piccola inchiesta sulla marina mercantile, interrogando il capitano sui traffici, sul piccolo e il grande cabotaggio, sulla concorrenza tra le vele e il vapore, sull'efficacia dei premii; ascoltando con interesse le risposte dell'uomo di mare, ma enunziando in pari tempo le sue proprie vedute, i risultati «dei miei studii», le idee «che propugnerò alla Camera...». Parlava forte, faceva un vero discorso, per farsi udire ed ammirare dalla turba dei semplici mortali intenta a masticare a due palmenti; dimenticava la fame sua propria per gustar meglio la sodisfazione di sentirsi qualcuno, un pezzo grosso, un legislatore, una parte del Potere; per assaporar meglio il contrasto tra la riverenza di adesso e l'indifferenza d'un tempo. Allora, la prima volta che era andato fuori di casa, il suo orgoglio sanguinava vedendosi sconosciuto tra la folla, trattato come tutti gli altri dalle persone alle quali lo avevano raccomandato; offeso ed irato, egli quasi negava la bellezza delle metropoli; la rarità degli spettacoli, la varietà dei godimenti, l'intensità della vita forestiera; quasi voleva tornare indietro, rinunziare al resto del suo viaggio. Ma non v'era mezzo d'esser considerato anche fuori di casa sua come a casa sua, d'esser conosciuto, invidiato, riverito, in quelle grandi città dove, a suo dispetto, doveva pure riconoscere che solo metteva conto di vivere? E il mezzo che gli era rivelato repentinamente, quando meno credeva di trovarlo, a Roma, in compagnia dell'onorevole Mazzarini, pel quale suo zio l'onorevole d'Oragua, gli aveva dato una lettera di presentazione. Egli non aveva pensato, prima, che la politica potesse fargli raggiungere quello scopo, perché non lo aveva raggiunto suo zio. L'onorevole d'Oragua, deputato fin dal '60, non era riuscito ad altro che ad arricchire: ignorante, incapace di dire una parola in pubblico, era passato di legislatura in legislatura ignoto a tutti fuorché ai faccendieri, ai sensali, agli speculatori. Vedendo invece che un umile avvocatuccio di provincia come Mazzarini aveva conquistato una situazione alla capitale, dove una piccola corte di sollecitatori gli stava sempre intorno, Consalvo s'era proposto: "Io sarò deputato e ministro...". E niente gli era stato grave per lavorare a quello scopo. Appena tornato a casa, aveva sbalordito tutti con la sincerità della sua conversione: l'elegante rompicollo, il dissipatore ignorante, l'aristocratico disprezzatore della dottrina, dato un addio alle donne, ai cavalli, ai piaceri, s'era messo a studiare, a tenere gravi discorsi nelle società politiche, a fare il consigliere comunale, l'assessore e il sindaco! E non lo avevano arrestato i sarcasmi degli antichi amici, i rinati contrasti col padre, l'opposizione dei parenti borbonici, la sua propria fede borbonica, il suo ideale d'un governo assoluto, lo stesso senso di ribrezzo che gli impediva di stringere le mani altrui, non solamente le ignobili mani d'un borghese o d'un popolano, ma le guantate e profumate; lo schifo che quasi gli vietava di portare del pane alla bocca, perché era stato maneggiato dal panettiere. Aveva cominciato suo zio a fare il liberale per amor d'arruffare; ma adesso non bastava più il liberalismo tepido e malvaceo dell'onorevole d'Oragua, e Consalvo era divenuto democratico e progressista, promettendo di sedere a sinistra, di dare perfino una mano ai socialisti. Tutto questo non gli era costato nulla, o ben poco: parole, parole, parole; egli si sarebbe professato anche nichilista, se fosse stato necessario per conseguire lo scopo. In fondo, nell'intimo della sua coscienza, egli restava quel che era: autocratico, autoritario, despota, e dimostrava con grande impegno che gli uomini sono eguali, perché tutti coloro che non sapevano fare quella dimostrazione riconoscessero che egli era superiore.

Era stato avvezzo da piccolo a considerarsi come fatto d'una pasta diversa da quella degli altri uomini: nella Sicilia ancora quasi feudale di prima del Sessanta tra nobiltà e borghesia correva un abisso; e in mezzo alla nobiltà paesana gli Uzeda, i principi di Francalanza, i "Vicerè" portavano la palma. Al noviziato dei Benedettini, dove era stato per educazione, Consalvo aveva visto imperare gli stessi privilegi: solo i nobili potevano essere ammessi tra i novizii e tra i Padri; i plebei erano Fratelli destinati al servizio delle Loro Paternità, costretti ad alzarsi, a mettersi con le braccia in croce, la schiena piegata, e il capo basso, quando un ragazzo del collegio passava loro dinanzi. Più tardi la coscienza delle sue facoltà naturali, della sua accortezza, della forza della sua volontà, del valore acquistato con lo studio, avevano accresciuto la sua vanità; e soddisfazioni di vanità egli cercava nello studio e nella politica. Come prima aveva fatto sfoggio di cavalli e di cravatte, più tardi s'era messo a sfoggiare teorie economiche e sociali; come prima non aveva citato altre autorità fuorché quella del suo sarto di Firenze e del suo camiciaio di Napoli; più tardi aveva intronato la testa alle persone con le opinioni del "celebre Spencer" e del "famoso Darwin". Non a vantaggi materiali egli aspirava, mettendosi nella vita pubblica: alla morte del padre era rimasto padrone di parecchi milioni; alla morte dei suoi zii quella fortuna si sarebbe raddoppiata: ma egli voleva essere circondato di considerazione, di rispetto, d'ammirazione; voleva goder credito ed esercitare autorità non più nella breve cerchia dov'era fin a quell'ora vissuto, ma a Roma, in tutta Italia, dovunque sarebbe andato...

E come tutto gli era andato a seconda! Tra per la reputazione acquistata nei Consigli civici, tra per l'eredità politica dello zio, ma specialmente perché al principe di Francalanza nulla era vietato ottenere, arrivava a Roma col prestigio dei seimila e tanti voti raccolti sul suo nome, del favore popolare che aveva circondato la sua candidatura; e arrivava a Roma non come tanti altri nuovi eletti, ancora sconosciuti, costretti a salire in un omnibus d'albergo o in una carrozzella da nolo; ma aspettato alla stazione dall'onorevole Mazzarini, da sua Eccellenza Mazzarini, il quale veniva a prenderlo con la carrozza del ministero del commercio, per condurlo subito a Montecitorio, nella sala rossa, alla riunione degli amici del Governo! Mentre la carrozza scendeva verso il centro della città, Mazzarini gli parlava del posto fattogli assegnare dall'ufficio di presidenza, dell'imminente discorso della Corona, della fisonomia della nuova Camera; ma, in verità, ei non gli dava molta retta, pieno com'era d'un tripudio quasi bambinesco, smanioso quasi di batter le mani, di ridere, di cantare, Egli era a Roma! Era a Roma l'onorevole di Francalanza! Un ministro veniva a prenderlo, gli altri ministri lo aspettavano!... Affacciandosi dallo sportello, egli vedeva la striscia di fuoco che illuminava via Nazionale, edifizii sontuosi che non rammentava di aver visto al suo primo viaggio, un movimento di carrozze, di trams, di pedoni al quale non era avvezzo; e quella vista, la rapida corsa per la grande città dove veniva a prendere il posto sognato, lo eccitavano, quasi lo sollevavano materialmente dal sedile. Dinanzi alla facciata luminosa del Teatro Drammatico, alla folla elegante che s'accalcava sulle sue porte, egli quasi disse: "Che bellezza!..." mentre Mazzarini gli riferiva per sommi capi il discorso della Corona, quel discorso che tutta l'Italia aspettava, del quale egli, non appena arrivato conosceva, con pochi altri, prima di tutti, il contenuto!... Tra i tanti motivi della sodisfazione che stentava a frenare, non ultima era la premura servizievole, quasi umile che gli dimostrava Mazzarini. Ministro, Eccellenza, Mazzarini lo accoglieva adesso come la prima volta, quando era semplice deputato; lo trattava con la stessa dimestichezza, un poco protettrice ma molto più rispettosa ed ossequente d'un uomo d'affari, pel gran signore. L'avvocatuccio arrivato al potere, superbo della fresca sua dignità dinanzi a tutto il mondo, provava un'istintiva soggezione in presenza del patrizio compaesano, quasi che il principe di Francalanza, il discendente dei Vicerè, potesse con una sola parola rammentargli la distanza che li separava. Ed era bastato a Consalvo scrivergli una letterina, dopo l'elezione, perché sua Eccellenza si mettesse ai suoi ordini, prendesse cura di trovargli un alloggio, si offrisse di guidarlo nel mondo parlamentare, di presentarlo ai colleghi del gabinetto, ai decani della Camera. Questa possibilità d'esser subito conosciuto, d'avvicinar subito i pezzi grossi, di mettersi in veduta la stessa sera del suo arrivo alla capitale, lo aveva indotto a lasciarsi ascrivere tra gli amici del gabinetto; senza di ciò non si sarebbe vincolato così presto. Vincolato?... Dov'era il vincolo? A che cosa obbligavasi? Quale carta sottoscriveva? Forse perché andava a quella riunione perdeva la potestà di regolarsi a modo suo, di votare secondo gli conveniva, di mettersi più tardi, nel momento della battaglia, dalla parte di chi aveva maggiori probabilità di vittoria?... Con questa intima riserva egli era andato a far atto di fede ministeriale, per godere i vantaggi dell'amicizia del governo; e un'ora dopo il suo arrivo, appena finito di lavarsi e di cambiar abito all'albergo del Quirinale, dove Mazzarini aveva fissato le sue stanze e mandati i suoi bagagli, era entrato con l'autorevole amico a Montecitorio, nella Sala Rossa già affollata di onorevoli: in mezzo ad un cerchio di Eccellenze, di segretarii generali, di ex-vice Presidenti della Camera, era stato presentato al Presidente del Consiglio; il quale, udito il suo nome, gli aveva steso la mano come a una persona di conoscenza che si ravvisa ad un tratto. «Ben lieto, onorevole, di poterla ringraziare del suo regalo. Ho letto il discorso, mi rallegro sinceramente con lei...» Infatti, egli aveva dato a stampare il programma svolto in un gran comizio elettorale: e ne aveva spedito una copia, accompagnata da dediche, laudative e ammirative, a tutti i luminari del Parlamento, sia di sinistra che di destra, sia di estrema sinistra che di centro: "All'on. Griglia, piccolo tributo di grande ammirazione... All'on. Luzio, con devozione di discepolo... All'autore dei  Bisogni reali come ad un maestro..."

Ah, buona veramente, quella sua prima giornata romana, o per meglio dire quella prima notte: quasi tutti coloro che avevano ricevuto il discorso lo ringraziavano del dono e delle dediche; alcuni, è vero, o che non avessero ricevuto l'opuscolo o che non rammentassero il nome dell'autore, gli stringevano la mano senz'altro; ma in cambio tutti i vecchi parlamentari siciliani convenuti lo riconoscevano come compaesano, lo complimentavano per la clamorosa riuscita della sua candidatura. E il discorso di Milesio all'adunanza; l'appello fatto ai nuovi rappresentanti del Paese, alle giovani energie non ancora stancate da lotte spesso infeconde; la fiducia espressa dal vecchio statista che quei giovani confortati da così largo suffragio popolare avrebbero saputo esprimere i reali bisogni del popolo, e contentarli, e guidare l'Italia a un'alta e nobile meta, avevano finito di accenderlo, di persuaderlo che egli singolarmente, tra tutti quei nuovi, era chiamato a rappresentare una gran parte: Milesio, guardando in giro, non fermava spesso, più a lungo, gli occhi su lui? non faceva rivolgere a lui quelle esortazioni e quella fiducia?... Tornato all'albergo, messosi a letto, non aveva potuto chiudere occhio; la sodisfazione di cui era pieno, le previsioni della sua fortuna lo tenevano desto, contro voglia, perché era veramente stanco e sentiva il bisogno del riposo del sonno. Il nome dell'albergo dove alloggiava, il pensiero che appena arrivato a Roma era andato al "Quirinale" lo faceva sorridere di puerile compiacenza, gli faceva fantasticare le chiamate, a quell'altro Quirinale, alla Reggia. Fra quanti anni: dieci o trenta? Egli ne aveva appena trentadue: poteva dunque aspettare, ma non voleva che l'attesa si prolungasse poi troppo!... Del resto, egli sarebbe andato al Quirinale molto più presto, tra qualche mese, perché avrebbe chiesto di esser presentato al Sovrano. Voleva frequentare la Corte, il mondo diplomatico, la società elegante, tenersi bene con tutti, farsi amici dovunque!... Non potendo prender sonno, aveva riacceso la candela e s'era messo a sfogliare i giornali comprati a piazza Colonna. Il Menestrello portava alcune curiose variazioni statistiche sulla nuova Camera: il nome di Francalanza era citato due volte in prima linea: "I titolati sono sessantacinque che si dividono così: tre principi: Bramante, Ceri e Francalanza... Riguardo all'età quattro hanno trent'anni: Aretta, Torri, Bustini e Forla, due ne hanno trentuno, Messuoro e Provetti, due ne hanno trentadue, Francalanza e Rivatti..." Per l'età, per la posizione sociale egli era già additato alla pubblica attenzione, usciva subito dal limbo a cui erano condannati centinaia e centinaia di colleghi. Al Quirinale-reggia, sarebbe andato più tardi; ma quanti dei suoi colleghi potevano scendere all'albergo del Quirinale? Quelli ai quali aveva chiesto il loro indirizzo gli avevano detto nomi d'alberghi a lui sconosciuti o nomi di vie e numeri di portoni di più o meno modeste case mobigliate!... Certamente, il domani e i giorni seguenti furono più calmi; nella seduta reale, specialmente, egli provò un vero senso di mortificazione vedendosi perduto in mezzo a più di seicento tra senatori e deputati, i più reputati dei quali scomparivano tra per la gran folla, tra perché l'attenzione era tutta rivolta ai Sovrani. Il caso lo mise vicino a due radicali, che non battevano le mani, né gridavano evviva, anzi guardavano in giro con un sorrisetto canzonatorio, e durante la lettura del discorso della Corona scambiavano scettici commenti. Neppur egli batté le mani, un poco per distinguersi dall'anonima turba acclamante, un poco per ingraziarsi i colleghi repubblicani, ai quali definì il discorso «una raccolta di luoghi comuni». Più tardi, in mezzo a un gruppo di ministeriali che giudicavano molto accorte e prudenti le parole messe in bocca al re, egli dichiarò che il passaggio relativo all'applicazione della riforma elettorale, tutto il programma della nuova legislatura, specialmente la chiusa, erano «come non si poteva dir meglio».

Non temeva che potessero scoprire quella contraddizione. Da lontano, la Camera gli era parsa come un intimo circolo di persone che i diversi programmi politici potevano dividere ma che la comune funzione doveva quotidianamente accostare. Adesso invece s'accorgeva che era una specie di grande albergo, dove, ad eccezione dell'ora dei pasti - cioè delle sedute - ciascuno andava e veniva pei fatti suoi, senza badare ai vicini, senza neppure salutarli se non c'era stata una regolare presentazione. Tanti colleghi della precedente legislatura, discretamente assidui a Montecitorio, non già di quelli che si chiamano deputati-telegrafo perché vengono a Roma solo quando c'è da prender parte ad una votazione di fiducia, Mazzarini, vecchio parlamentare, li conosceva appena di nome; dacché era ministro, le sue relazioni avevano preso un grande sviluppo; tuttavia egli non aveva visto ancora la punta del naso di parecchie dozzine di colleghi. Del resto, anche tra quelli che si conoscevano, che stavano spesso insieme, Consalvo vedeva che l'intimità era rarissima e la diffidenza continua. Una delle cose che più lo impressionarono, nei primi giorni, fu la maldicenza unita ad una ipocrisia, così fine che senza la maldicenza egli non l'avrebbe scoperta. Nei circoli delle sue conoscenze, udiva i colleghi lodarsi reciprocamente, ascoltarsi con deferenza, scambiarsi espressioni di viva amicizia, alle volte quasi abbracciarsi: «Tu che hai tanta competenza... Voi che siete una persona di spirito... Ma sì, dite bene: è così, proprio così!... Carissimo!... Mio buon simpaticone!...». Poi appena il collega lodato andava via, il lodatore sogghignava, ammiccava con l'occhio, esclamava: «Che buffone!...», oppure: «Bisogna avere una bella dose di cretineria!...», oppure: «Alla larga!...». Un giorno che egli accostò Mazzarini intento a parlare con un onorevole, un biondo quasi rossiccio, con la lente d'oro sul naso aquilino e certi scopettoni che gli davano l'aspetto d'un diplomatico, il ministro fece la presentazione: «L'on. di Francalanza... l'on. Codenghi, non ho bisogno di aggiungere: una delle più chiare, autorevoli e rispettate personalità della Camera elettiva...» Il Codenghi mosse un poco il braccio e chinò gli occhi protestando: «L'indulgenza dell'on. Mazzarini...» Mazzarini invece insisté: «Dica la modestia sua! Io considero come una vera fortuna quando ho da trattare con colleghi di spirito così largo, di mente così retta come lei...». Ma, quando Codenghi si congedò, il ministro, preso Consalvo pel braccio e conducendolo via, gli disse: «State bene attento, principe: guardatevi da quell'individuo: è un fior di mariolo!...».

Prima di mettersi nella vita pubblica, fin da quando per le stravaganze e le liti continue dei suoi parenti era stato nella necessità di lodarli beffandoli tra sé, e di secondare le pretese dell'uno e contemporaneamente quelle dell'altro, Consalvo s'era assuefatto alla finzione; entrato nelle società politiche e nelle amministrazioni municipali aveva fatto strada con questo mezzo, affermando e negando le stesse cose, secondo l'umore dell'uditorio o della maggioranza o di quei pochi che voleva ingraziarsi, bordeggiando continuamente, menando tutti pel naso. Talvolta egli aveva pensato: "Io sono dunque scettico? Non ho carattere?..." quasi rimproverandosi questo scetticismo, questa mancanza d'una qualità reputata necessaria ad ottenere la stima del mondo: ma i suoi scrupoli s'erano acquetati all'idea che per riuscire bisogna esser così; che le fedi apparentemente più sincere nascondono, il più sovente, un tornaconto eguale a quello che consiglia i voltafaccia e l'instabilità. Del resto la fermezza in una opinione non può esser segno di cocciutaggine, di angustia di mente? Studiando, cercando nei libri le opinioni altrui, egli non ne aveva trovato due esattamente eguali: ed erano opinioni di filosofi, di scienziati, di critici insigni. Tutte le ipotesi, tutti gli ideali più contradittorii possono essere confortati da qualche grande autorità: se ognuno crede di aver ragione, vuol dire o che l'hanno tutti o che non l'ha nessuno. A parole, egli la dava a tutti; tra sé, credeva d'averla soltanto lui. "Il mio carattere" pensava "è di esser senza carattere." Quella indipendenza, quella pieghevolezza, quella capacità d'ammettere e di negar tutto e di adattarsi a tutto, portate ad un grado estremo erano una grandezza e una superiorità come tante altre... Nondimeno, venendo a Roma, entrando a Montecitorio, egli aveva dubitato un istante. , forse, quella sua attitudine gli sarebbe stata nociva; la saldezza in un principio, il costante proseguimento d'una idea netta e immutabile erano forse il segreto della vera forza. Credendosi scettico consumato, egli aveva ancora un istintivo senso di rispetto per certe cose. Ma il suo dubbio, si disperdeva rapidamente, alla Camera, vedendo che il suo scetticismo di piccolo provinciale era timido e innocente a paragone del cinismo di cui vedeva le prove.

Nei pochissimi giorni corsi tra il suo arrivo alla capitale e l'inaugurazione della legislatura, le conversazioni udite in casa di Mazzarini, dove convenivano parecchi deputati amici del ministro, lo avevano fatto ricredere: schernivano i colleghi; demolivano, con una parola, le reputazioni parlamentari che egli credeva più salde e pure; ministeriali, ne dicevano d'ogni colore perfino contro il Presidente del Consiglio; Mazzarini, suo collega, sua creatura, lo difendeva fiaccamente; alle incolpazioni più gravi, più atroci, portate con un modo leggiero e quasi scherzoso, fingeva di credere che non fossero dette sul serio, ma sorrideva, talvolta, quasi di compiacenza.

Questo continuo malinteso, questa comoda incertezza sul tono col quale le cose eran dette, comoda per la possibilità di disdirsi, dimostravano a Consalvo, che egli non doveva inquietarsi, e che la via per la quale voleva mettersi era la buona. Poi, aperta la Camera, le prove della reciproca disistima e della generale canzonatura, lo avevano confermato nei suoi propositi, erano valsi a fargli recuperare il suo primo senso di balda fiducia. Mentre tanti suoi colleghi giravano timidamente per le sale di Montecitorio, come invitati che non riescono a trovare il padrone della casa dove entrano la prima volta, egli si sentiva come in casa propria: vi parlava a voce alta; dopo pochi mesi vi aveva fatto tante conoscenze quante ordinariamente se ne fanno in parecchi anni. Oltre quelle dovute a Mazzarini, quasi tutte di sinistra, ne aveva contratte molte anche a destra grazie alle lettere di presentazione dategli da suo zio per quelli che il vecchio chiamava "miei amici". Ma costoro, i più autorevoli, specialmente, Griglia fra gli altri, non lo avevano accolto come egli s'aspettava; cortesi e freddi, pareva lo considerassero eguale al parente; un gran signore ignorante, forse più ricco e perciò più retto, ma certo egualmente destinato a restare sconosciuto. Mortificato e pentito della svista commessa nel ricorrere alle raccomandazioni del vecchio faccendiere, egli era impaziente di dimostrare a tutti costoro, con gli studii, con l'ingegno, con la facilità della parola ch'egli possedeva, il loro inganno. Smanioso di fare il suo esordio, era poco disposto a seguire i consigli di Mazzarini, il quale gli raccomandava d'esser paziente, d'aspettare una buona occasione, e frattanto di assuefarsi all'aria di Montecitorio, di impratichirsi del meccanismo parlamentare. Certo, egli non voleva trascurare nessuno dei mezzi adatti a raggiunger lo scopo; e fin dalla costituzione degli uffici, era andato assiduamente alle riunioni del settimo, al quale la sorte lo aveva destinato. Però anche aveva roso il freno, vedendo come la sola anzianità, la presunta esperienza dei vecchi deputati, costituiva il maggior titolo alla considerazione dei colleghi. Per la nomina delle cariche, c'era stata una lotta tra Parrini e Malpioli: Malpioli, uno dei giovani intelligenti rivelatisi nelle ultime legislature, non aveva potuto vincere contro Parrini, solo perché questi sedeva da dodici anni a Montecitorio. Per ogni posto da occupare, nell'ufficio di presidenza, nella giunta del bilancio, nelle tante commissioni permanenti, quel criterio premeva sugli altri. «Come? Io ho quattro legislature!... Io ne ho cinque!... Io ne ho sei!...»

E quantunque la nullità di cotesti presuntuosi dovesse parere tanto più inguaribile quanto più a lungo erano stati alla Camera senza trovare un momento per mettersi in mostra e farsi valere, il numero delle medagline che portavano alla catenella misurava la loro importanza.

Quando il suo ufficio cominciò a lavorare, Consalvo poté accertare l'autorità esercitata dai vecchi parlamentari senz'altro fondamento che la sola pratica: con una parola, con un'osservazione, rammentando un precedente, citando una legge, per la sola virtù della memoria, solo per avere assistito a un gran numero di sedute, essi sgominavano i giovani. Sul progetto di legge relativo ai probi-viri, l'on. Barra aveva parlato a lungo, più volte, dimostrando d'essersi impadronito della quistione, d'averla studiata sotto ogni aspetto: non lo nominarono relatore perché era "troppo giovane". Quella gioventù di cui Consalvo gloriavasi come d'un grande vantaggio, d'un titolo capace di giovargli, era invece d'ostacolo. Tanti fra questi giovani, quasi tutti i nuovi eletti, sentendo la propria inesperienza, avvertendo il pericolo del fiasco, se ne stavano zitti e quatti, lasciavano fare ai maggiori, stavano a udire, ad osservare, deferentemente e pazientemente.

Anch'egli dimostrava molto rispetto e molta ammirazione ai vecchi, dava loro del maestro a tutto pasto, faceva loro una corte in tutta regola, ma quanto alla pazienza dei colleghi, credeva che fosse alimentata piuttosto dalla paura, e avendo paura d'aver paura anche lui, si faceva forza per parlare, per farsi notare, nell'ufficio, nei corridoi, dovunque gli se ne offriva l'occasione. Alla Camera, durante la discussione del bilancio dei lavori pubblici, s'alzò la prima volta per fare una raccomandazione intorno alle ferrovie siciliane: non aveva prestabilito di chiedere di parlare, obbedì invece a un moto repentino ed impulsivo. Non più di cinque minuti di parola, dinanzi a una cinquantina di colleghi distratti e annoiati, ma conveniva cominciare comunque: e quel modo gli pareva il migliore.

Aspettando di poter fare il gran discorso che doveva essere la rivelazione, egli parlò un poco altre volte, fece altre raccomandazioni, presentò anche un'interrogazione al ministro della guerra intorno a certi inconvenienti avvenuti nell'impresa-viveri del XII° Corpo d'esercito. Sedute spopolate, senza pubblico, con la tribuna della stampa quasi vuota, bastando ai giornalisti il resoconto sommario; e neppure la soddisfazione d'esser nominato da tutte le gazzette perché molti si sbrigavano con un "raccomandazioni varie"; però il Dibattimento e la Politica, portarono sempre il sunto delle sue parole; due o tre righe, nella prima delle quali spiccava, pel carattere corsivo o molto inchiostrato, il suo nome: l'on. di Francalanza. Egli s'era abbonato, subito appena giunto, a tutti i giornali d'ogni colore, mandando i quattrini alle direzioni dei fogli piuttosto che alle amministrazioni: in casa di Mazzarini aveva anche conosciuto Romeo Colombo, e tutto questo: l'assiduità loquace agli uffici, i brevi discorsi alla Camera, gli abbonamenti presi ai giornali, gli pareva avessero dovuto già concigliargli l'attenzione benevola dei colleghi e della stampa.

Quando scoppiò la crisi, quando il ministero ricomposto dallo stesso Milesio si ripresentò alla Camera e vi fu accolto con tanto malumore che una seconda crisi parve imminente, lo spettacolo delle passioni scatenate, delle ambizioni frementi, delle agitazioni, delle gare, delle lotte cui era in preda tutto il mondo politico, gli dette la tentazione violenta di farsi avanti col solo modo che egli poteva adoperare: parlando, facendo un gran discorso politico, il primo vero discorso.

Mazzarini lo dissuase, gli disse che era un errore parlare in quell'occasione; che, nei momenti decisivi, soltanto chi aveva l'autorità di contribuire alla risoluzione poteva essere ascoltato; che un giovane come lui, senza seguito, ancora poco conosciuto, non poteva fare se non una dissertazione teorica, incapace di interessare gli animi appassionati. Egli riconobbe che l'amico diceva bene, che in quel momento non c'era da far nulla, che bisognava anzi agguerrirsi contro le tentazioni. A meno di sentirsi chiudere la strozza dinanzi al pubblico, come suo zio, chi non era capace di fare un discorso? E i discorsi che egli udiva in quell'occasione, che cosa avevano di alto, di nuovo, di peregrino? Si sentiva capace di farne una dozzina di fila, come quelli; di parlare un intero giorno, a favore del ministero, o contro, né a favore né contro, in un senso qualunque. Gli pareva che i più reputati oratori d'ogni parte della Camera non dicessero tutto ciò che si poteva dire in sostegno delle loro opinioni, o che non lo dicevano con la forma, con l'insistente efficacia che ci voleva; se avesse parlato lui, avrebbe messo le cose a posto, denunziati i malintesi, rischiarata la situazione... Ma egli non voleva parlare. Chiese la parola, come la prima volta, obbedendo a un impulso istintivo. Uno dei suoi colleghi aveva affermato che la situazione non aveva riscontro nella storia parlamentare; ora, giusto la sera precedente, leggendo la Storia del Parlamento inglese - che insieme con altri libri di diritto pubblico, di economia politica, di scienza amministrativa formava il suo pascolo serotino, in letto, al lume della candela - aveva trovato che nel parlamento inglese, una volta, sulla fine dello scorso secolo, s'era presentato un caso simile a quello di cui si trattava!...

I suoi elettori avevano il viso composto a mestizia, come nelle visite di condoglianza; alcuni, oltre che tristezza, esprimevano sdegno vivace e confortativa speranza.

«Principe, ci dispiace... Non sapevamo... Un'altra volta, certamente... Ma è una cosa indecente!... Qualcuno ci dovrebbe pensare!... Fanno sempre così?»

Di passaggio a Roma, quegli isolani erano andati a visitare il loro illustre concittadino per salutarlo, per ottenere da lui i biglietti di entrata alla Camera; e giusto ci s'erano trovati nel momento che egli parlava. Vedendolo sorgere, rammentando i trionfi oratorii da lui ottenuti laggiù in Sicilia, avevano creduto immancabili gli applausi e le congratulazioni; e orgogliosi di averlo mandato a Montecitorio, felici di averlo trovato in quella Roma dove s'aggiravano come anime in pena, senza conoscer nessuno, in quella Camera dove se ne stavano mogi come cani in chiesa, s'erano a un tratto rianimati, tirandosi l'un l'altro pel braccio, dicendo a voce alta nella tribuna: «Il principe... Zitto, parla il principe...» per far sapere ai vicini, che conoscevano qualcuno tra gli onorevoli, che erano amici di quel grand'uomo. E con le bocche aperte e gli occhi fissi e le persone piegate in due, avevano aspettato d'udire le cose straordinarie che avrebbe dette e le salve di battimani che lo avrebbero accolto, quando la sua voce era stata coperta dagli urli, dalle esclamazioni, dalle risa, da un baccano infernale. Il grand'uomo, il deputato del loro cuore destinato a sbaragliare la Camera con la forza dell'eloquenza, aveva fatto fiasco, ma un fiasco terribile, come neppure il più cane dei cantanti dinanzi al più feroce dei pubblici! Ne erano spaventati, non si sentivano neppure il coraggio di andarlo a trovare per ringraziarlo dei biglietti, per congedarsi da lui. Ma poiché, non avendo udito nulla di ciò che egli diceva, non potendo ammettere che la sua dottrina e il suo ingegno fossero mancati d'un colpo, essi addebitavano l'insuccesso allo scandaloso contegno degli onorevoli, all'invidia che forse li rodeva, deliberarono di andare, tutti insieme, per confortarlo, per dargli animo, per assicurarlo che essi gli serbavano intatta la loro fiducia devota. E il domani della memorabile seduta, di buon mattino, entrati nel salotto dell'albergo dove Consalvo, già levato, in veste da camera, scriveva, gli venivano incontro imbarazzati, dolenti, sdegnati, gli stringevano forte la mano, parlavano tutti insieme:

«È una vergogna!... Se avessimo saputo!... Ma quel Presidente?... Chi sa come la notizia sarà arrivata da noi?...» Erano stupiti vedendo che il loro deputato pareva non comprendere e li interrogava con lo sguardo, con la voce:

«Ma che?... Perché?... Che cosa è successo?...»

«La seduta di ieri... il discorso...»

«Ah, quel po' di frastuono?... Ma sì, fanno sempre così, nelle lunghe discussioni! E, in verità, non hanno poi tutti i torti! Pensate che per tre giorni di seguito hanno dovuto sentire dozzine e dozzine di discorsi, lunghi, corti, serii, comici, importanti, futili, pedanteschi, noiosi; pieni, su per giù, la maggior parte, delle stesse cose, delle stesse idee, perfino delle stesse parole, e poi vediamo se la pazienza non scapperebbe anche alle panche!... Certo, non è molto piacevole, per chi parla, sentirsi fare quell'accompagnamento; e ci sono alcuni - anche dei vecchi, eh! - che si smarriscono, e smettono. Ma io mi sono presto abituato ai costumi parlamentari, e non mi lascio intimorire. Non volevo parlare, da principio; chiesi la parola per rispondere a una certa bestia che credeva tutti ignoranti come lui; poi, parlando, sapete come succede, un'idea ne chiama un'altra, e naturalmente...»

«Naturalmente!... Però il Presidente...»

«Il Presidente!... Poveromo! È la vittima più da compiangere! Ma sapete che esce con le braccia rotte, con la voce perduta, tutto in sudore, da una di queste discussioni; e che, appena finito, scappa a chiudersi nelle sue stanze dove muta biancheria da capo a piedi, per non prendere una polmonite

«Davvero?... Perbacco!... Eh, veramente...»

«Vorrei vedere un altro al suo posto! Armato d'un semplice campanello! Se avesse a sua disposizione un revolver o un cannoncino, non dico!...»

«Ah! Ah!... Allora!... Ma sì!...»

E tutti riconfortati, essi che erano venuti a confortare, ridevano, ammiravano la disinvoltura del loro eletto, l'indulgenza con la quale scusava i colleghi ineducati, la pratica, l'esperienza, la forza che aveva acquistata in pochi mesi. Non si parlò più del fiasco oratorio, ma del voto, delle cose del collegio, di quel che l'onorevole avrebbe fatto. Veramente, parlava egli solo, rispondeva continuamente, premuroso ed eloquente, alle domande degli elettori. «Il voto era previsto, non lo prevedeva il pubblico, la gente che non sapeva il dietroscena; ma io che... io che... In casa del Presidente del Consiglio, l'altra sera, prendemmo gli accordi che... Io sono col ministero, pel momento, ma s'intende: appoggio chiaroveggente, e non cieca fiducia. Pel momento, pare ben disposto verso di noi: il mio amico Mazzarini appoggia tutte le domande che ho fatte nell'interesse del collegio: fatelo sapere...»

Avendogli uno domandato se sarebbe presto venuto in Sicilia, il suo discorso prese un'altra piega:

«Eh, no; almeno per un certo tempo. Finché la Camera sarà aperta, mai, a nessun patto. Ma anche a Camera chiusa: io ho tante relazioni a Roma, né credo che il deputato, l'uomo politico, si improvvisi a Montecitorio: esso si forma a poco a poco, vivendo alla capitale, frequentando la società... Voialtri partite subito?...» Sì, la comitiva, provvista di biglietti-circolari, partiva il domani. «Se restaste qualche giorno, vi farei vedere la casa che ho affittato... l'albergo era buono pei primi tempi; adesso ho bisogno di sistemarmi a casa mia... Ho preso in affitto un primo piano del Villino Broggi, al Macao... sapete, vicino piazza dell'Indipendenza... quella gran piazza alberata? Sì... un bel quartiere: tremila lire l'anno, e non è caro... ho anche intenzione di mettere un carrozzino: le distanze, qui a Roma, avete visto? sono tanto grandi...» Enumerando le cose fastose che voleva fare, egli aveva cura di spiegarne la necessità, quasi di giustificarsi; perché i suoi elettori non pensassero che egli facesse stravaganze. Era sul più bello di quel discorso, quando il cameriere gli recò, sopra un vassoio, i giornali.

«I giornali del mattino... Il Dibattimento... La Politica... Volete vederli?...»

E li distribuì in giro. Allora ricominciò, pei suoi visitatori, l'imbarazzo di un'ora prima: , in quei fogli, doveva essere registrato il fiasco dell'onorevole: i giornalisti che nella loro tribuna avevano fatto come diavoli scatenati, non potevano prender la cosa con tanta filosofia come l'oratore... E lessero.

Il Dibattimento diceva: "L'on. di Francalanza dimostra che la situazione presente non è nuova. Il giovane deputato siciliano, che è un grande patrizio, sfoggia una erudizione molto rara e molto solida che gli fa veramente onore. Peccato che la Camera sia un poco nervosa e non stia attenta come converrebbe..." La Politica era più breve: "L'onorevole di Francalanza parla fra i rumori, rammentando un precedente e dichiarandosi favorevole al ministero". Ma il Menestrello era più lungo, più favorevole e più grazioso: "L'onorevole di Francalanza, spezza una... lanza, con franca voce, pel gabinetto: l'oratore, che è giovanissimo e possiede molta dottrina e - beato lui - molti quattrini, non si lascia sgominare dall'impazienza dei colleghi e pronunzia un discorso molto serio e molto importante...".

 

 

 


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