Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
L'Imperio

IV

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IV

 

Ranaldi era venuto a Roma trionfando dell'opposizione della famiglia. Suo padre, il commendatore Gaspare Ranaldi, intendente di finanza, aveva chiesto ed ottenuto il ritiro nel 1876, alla caduta della Destra, e viveva d'allora, con la moglie e tre figli maggiori e il minore Federico, nella nativa Salerno. Il fanciullo aveva lungamente peregrinato col padre, dalla Liguria alla Calabria, dal Veneto alla Sardegna, frequentando le quattro classi elementari e le cinque ginnasiali in sei diverse città, imparando altrettanti dialetti, acquistando e perdendo successivamente gli accenti, godendo dei frequenti viaggi, dei continui mutamenti, che invece erano stati ai genitori motivo di disagi e di crucci. Nei primi tempi egli non aveva compreso perché mai, ad ognuna di quelle traslocazioni, una grave inquietudine si diffondesse per la casa, e il padre si chiudesse in camera o in ufficio, e la madre scongiurasse i figliuoli di star buoni, di non aggravare "i dispiaceri" del babbo, e perché poi avesse con lui lunghi colloqui concitati, durante i quali non parlavano d'altro che del ritiro, degli anni ancora mancanti al conseguimento della pensione, della pace che li aspettava a casa loro. L'annunzio del trasferimento prometteva invece a Federico una serie di svaghi e di piaceri tanto più grandi quanto più lontana era l'Intendenza da raggiungere: prima di tutto i preparativi per la partenza, le casse ed i bauli da colmare di roba, le visite di congedo durante le quali già udiva lodare la nuova residenza; poi la partenza, la stazione o lo sbarcatoio pieni d'impiegati, di amici, di signore salutanti; poi la lunga corsa in treno o la traversata in piroscafo, talvolta l'una e l'altra, e talvolta ancora, in Calabria o in Sardegna, dopo il treno ed il piroscafo, il lungo tragitto in carrozza, con i carabinieri galoppanti allo sportello, a motivo dei briganti; e allora, per via, nella nuova città, i luoghi da vedere, le cose da apprendere, i costumi da conoscere: a Salerno, nei primi tempi che vi si era ridotto, egli aveva potuto vantarsi, tra i giovani amici non mai usciti dal guscio, d'aver visitato tanta parte d'Italia. Ma appunto perciò aveva concepito avversione a quella stabile dimora in una città dove era stato più volte, durante le licenze del padre, e che non gli pareva tanto grande, bella od attraente da esser preferita a tutte le altre. Certo, i genitori avevano parenti ed interessi; ma per conto suo egli conosceva bene i nonni ed i cugini, e non credeva di doversi rintanare laggiù per amor loro; e quanto alle possessioni - la casa di piazza Cavour, i poderi della Torre e di Marecoccola - per il momento pensava suo padre ad amministrarle; un giorno, poi, sarebbero andate spartite tra i figli, e la sua quota non gli avrebbe permesso di fare il mestiere del possidente: tutt'altro! Il padre e la madre, anzi, gli avevano sempre detto e ripetuto ed inculcato che doveva mettersi in grado di guadagnar denaro, che senza una professione o un impiego non avrebbe potuto mantenersi col decoro nel quale era nato e vissuto. Contemporaneamente, però, essi avevano dichiarato di volerlo sempre con loro e si erano anticipatamente doluti della necessità di lasciarlo andare durante quattro anni a Napoli, per gli studii universitarii.

Fin da quei primi tempi il giovinetto aveva cominciato a dissentire dai genitori. Non che vivere eternamente a Salerno, egli voleva andarsene subito via. Entrava in quel torno al liceo, e tre anni gli parevano lunghi; né l'università di Napoli, alla quale il padre lo destinava, come la più vicina, come quella dove egli stesso aveva ai suoi tempi studiato, lo attirava. Roma, la metropoli vista una sola volta, di passaggio, di sfuggita, e della quale, interrogato, aveva riferito ai creduli compagni cose lette, udite o addirittura immaginate con fervore di fantasia, lo affascinava; per rinunziarvi, per far contento il padre, gli chiese che, dovendo pure fra tre anni recarsi a Napoli per l'università, ve lo mandasse subito, a seguirvi anche il liceo. Fu una grossa lite. Il commendatore e la signora Luisa si opposero vivacemente a quella pretesa, giudicandola stravagante. A Salerno, dicevano, con meno ressa di scolari, gli studii liceali si potevano compiere con maggior profitto - ed egli fece invano osservare che questo vantaggio non compensava la minore valentia dei professori salernitani. Inoltre, per il momento, lo giudicavano troppo ragazzo e dichiaravano che sarebbero stati in troppa inquietudine a saperlo solo nella gran città, - quasi che, anche fra tre anni, egli non dovesse sottostare alla tutela dei Gargiulo, i vecchi amici di casa Ranaldi, ai quali lo avrebbero affidato!

Finalmente affermavano che il distacco anticipato di tre anni, senza necessità, senza ragione, anzi improvvidamente, avrebbe anche importato un dispendio non lieve - e questo era parso a Ranaldi, il vero, il grande, il solo motivo del rifiuto. Egli cominciava a dubitare dell'affetto dei genitori e giudicarne i difetti. Suo padre era diffidente ed avaro. Si lodava dei buoni studii del figlio, lo applaudiva perché non aveva vizii, ma gli lesinava poi i quattrini occorrenti a comperare i libri e a procurarsi qualche svago. Dichiarava che aspettava d'esserne aiutato nell'amministrazione della proprietà, e talvolta lo mandava in campagna, a vender derrate, ma vietava ai fattori di consegnargli denaro. Neanche alla moglie lasciava maneggiar nulla, fuorché l'occorrente alla spesa quotidiana. La madre, risecando, gli dava poche lire il mese con le quali egli comperava libri e fascicoli di opere periodiche; ma ella non gli sapeva attestare in modo più efficace il suo affetto, non lo assecondava nelle sue aspirazioni, non le comprendeva, andava d'accordo col marito nel pretendere di tenerlo sempre legato laggiù. Federico non si ribellava, ma li giudicava tra sé egoisti ed illogici. Se erano tanto orgogliosi dei suoi trionfi di studente, dei premii riportati agli esami, del lieto avvenire assicuratogli dai professori, come mai glielo circoscrivevano fra le mura del loro paesuccio? Professionista, che slancio avrebbe potuto prendere in quella bicocca? E non era poi anche più strano che, dichiarandosi mal contento della propria carriera di pubblico ufficiale, il padre gli desiderasse un impiego governativo?

Federico non sapeva che cosa avrebbe fatto. Molte cose lo attiravano a un tempo. La madre, buona musicista, gli aveva dato il gusto di quest'arte; e sonando al pianoforte, o assistendo alle lezioni di canto della sorella maggiore Maria, o udendo un'opera a teatro, egli sognava di farsi compositore; ma la sola volta che ne parlò in casa, i genitori si posero a ridere. A scuola, egli non aveva provato decisa simpatia o antipatia per l'uno o l'altro insegnamento, come la maggior parte dei suoi compagni, alcuni dei quali non potevano soffrire il latino e il greco, altri nutrivano un particolare rancore contro la storia e la geografia, e quasi tutti spiritavano al solo nome del professore di matematica. Egli aveva studiato ogni cosa con lo stesso zelo e con eguale profitto. La lettura dei libri di viaggi, il fascino delle avventure nei continenti misteriosi e nelle isole deserte, gli aveva fatto disegnare carte geografiche e ricercare la descrizione di sestanti e di bussole; ma se all'annunzio della sua vocazione artistica i genitori avevano riso, non lo lasciarono finire udendogli manifestare il proponimento di far la vita del marinaio. Tanto i Ranaldi quanto i Caravita, la famiglia della madre, erano nobili, e Ranaldi non divideva il senso d'alterezza che ne provavano i parenti; ma non perciò pensava che avrebbe derogato se, invece che al liceo, fosse entrato all'istituto nautico. Del resto, posto che la carriera del capitano mercantile non fosse molto signorile, che c'era da ridire contro quella dell'ufficiale di marina? Ma allora i suoi osservavano che, non dovendo fare il militare, sarebbe stato da stolto sottoporsi a quella disciplina; e del resto, militare o mercantile, la marina lo avrebbe strappato alla famiglia, e il loro amore - il loro egoismo, pensava Federico - non poteva rassegnarsi a perderlo. Egli non insistette, rammentandosi il mal di mare sofferto col cattivo tempo; ma, a questo argomento soggiunto dai suoi, rispose sdegnosamente che quasi tutti i grandi navigatori hanno vinto con l'assuefazione le nausee.

A poco a poco egli si venne così chiudendo in sé stesso giudicando inutile discutere con persone che non lo comprendevano. Altre cose lo avevano ferito, fuori della famiglia. In iscuola, al ginnasio, la gelosia dei compagni meno intelligenti o più svogliati si era vendicata insinuando che i professori lo proteggevano perché suo padre era un pezzo grosso amico del provveditore e del prefetto. Con la coscienza d'aver sempre studiato diligentemente, con la febbre di non far cattive figure, egli aveva provato un doloroso stupore e concepito un muto sdegno a quell'accusa. Udendo un giorno tutta la classe dargli del "figlio di papà" perché il professore lo aveva solennemente encomiato e portato ad esempio, ne aveva anche pianto. Come sbugiardare gli invidiosi, come provare ai calunniatori che suo padre, se diceva qualche cosa al provveditore od ai professori, raccomandava loro di essere particolarmente severi con lui?

Per fortuna, dopo la giubilazione, al liceo di Salerno, quell'accusa non poté più essere ripetuta. Ma egli ne udì allora un'altra, più grave. Gli studenti avevano le loro opinioni politiche: alcuni parteggiavano per la Destra, altri per la Sinistra, parecchi si professavano repubblicani, e qualcuno che non si pronunziava passava per gesuita e borbonico. Ranaldi era prima che ogni altra cosa italiano. In fondo alle più lontane sue memorie, il giorno dello Statuto ed il 14 marzo erano associati all'idea di festa solenne: la bella bandiera fiammante che l'usciere traeva dalla custodia e issava all'asta del balcone centrale, le salve dei cannoni, il Te Deum alla cattedrale, la rivista militare, la premiazione scolastica, la musica nelle piazze, la luminaria ed i fuochi. A scuola, uno dei primi maestri, un vecchio che si chiamava Milone, gli aveva data la prima lezione di storia patria contemporanea in un modo tanto efficace che gli si era indelebilmente stampata nella memoria. Disegnata col gesso sulla lavagna la figura dello stivale, simile a quella della gran carta geografica pendente dalla parete, ne aveva narrato e descritto col gesso le secolari divisioni: il regno delle Due Sicilie, lo Stato romano, il Granducato di Toscana, i possedimenti austriaci, e via dicendo. Quelle linee erano catene, barriere, muri che impedivano l'andare e il venire, e strozzavano la vita nazionale: egli s'era sentito propriamente mozzare il fiato alla descrizione delle male arti di quei governi: l'esilio, la prigione, l'estremo supplizio inflitti a chi manifestava un'opinione od esprimeva un voto o semplicemente portava il cappello d'una certa foggia: impossibile scrivere un libro, diffondere una notizia, cantare una musica, lasciarsi crescere il pizzo: gli sbirri padroni delle cose, della vita, dell'onore dei cittadini. Ma in un cantuccio di quella patria rotta ed inceppata, le cose procedevano molto diversamente, poiché un Re forte e valente lasciava liberi i sudditi suoi: differenza resa evidente dal maestro, con l'imbiancar di gesso la figura del Piemonte - capitale, Torino - sul fondo nero della lavagna, in cima allo screpolato stivale, il cantuccio tutto candido come di neve, attirava gli sguardi e confortava il cuore. Ed ecco un bel giorno il buon Re fare una bella pensata: quella di liberare, riunire, resuscitare tutta l'Italia! Allora, che fa? Insieme con un imperatore suo amico dichiara la guerra agli stranieri e li obbliga a restituire le province mal tolte; intanto, più giù, il popolo desto al fragore dell'armi ed ai canti della vittoria, insorge e mette in fuga i tiranni. Garibaldi scende per conto suo con mille diavoli rossi a rovesciare il maledetto Borbone; poco dopo il Re torna ad intimare una nuova guerra insieme con un altro amico, e sposa la Regina dei mari: così, ad uno ad uno, sotto la mano fremente del maestro infervorato che vi strofinava il bastoncino del gesso con tanta forza da mandarlo in frantumi, tutti gli altri pezzi d'Italia diventavano bianchi: il candore si distendeva a destra, scendeva in basso, risaliva dal basso all'alto, guadagnava tutti gli angoli, ricopriva tutta la figura, abbagliando... Una sera, a Cagliari, mentre c'erano visite in casa, un gran clamore di voci e riflessi di fuoco alle vetrate aveva fatto correre Ranaldi al balcone: le persone intorno dicevano che era la presa di Roma.

Così egli aveva cominciato a palpitare d'amor patrio; poi, col più preciso studio della storia e della letteratura nazionale, il suo fervore venne crescendo all'idea che l'Italia una, libera, grande, lungo sogno, aspirazione secolare, eterno struggimento dei poeti, dei politici, dei patriotti, finalmente esisteva. Che cosa avrebbero detto Dante e Petrarca, se avessero potuto un momento tornare al mondo e vedere il miracolo? Ah, se Leopardi fosse vissuto tanto da assistere al gran fatto! Trent'anni di vita ancora, e con "le mura e gli archi e le colonne e l'erme torri degli avi nostri", egli avrebbe visto anche "la gloria!". Alfieri avrebbe avuto novant'anni, se fosse vissuto fino al Sessanta: quanti non vivono anche di più? Ma non era stata una vera disdetta che Giusti, il gran poeta civile, amareggiato dai disinganni, dubitoso dell'avvenire, fosse morto proprio alla vigilia del miracoloso avvenimento?... Per compenso di quei rammarichi, Federico godeva di non aver visto i giorni del servaggio: a scuola, tra i compagni più grandi di lui, vantavasi d'esser nato in terra libera, il dodici novembre del 1860, lo stesso giorno che Vittorio Emanuele entrava in Napoli!... Ed a scuola, i compagni malevoli gli avevano dato del "figlio di birro borbonico!..."

Il commendatore Ranaldi veniva infatti dall'amministrazione napoletana, nella quale si chiamavano intendenze quelle che i piemontesi dovevano ribattezzare col nome di province. Segretario dapprima, poi consigliere, al tempo dell'annessione si era trovato, come il fratello capitano, e come tutti gli impiegati civili e militari delle Due Sicilie e di tutti gli antichi Stati, nel bivio di serbar fede al sovrano decaduto rinunziando all'impiego, oppure di assicurarselo giurando una seconda volta ad un altro. La devozione alla Dinastia era in lui ereditaria. Con pochi beni di fortuna, i Ranaldi entravano tutti negli uffici pubblici, nella magistratura, nell'esercito, nella marina; di nobiltà autentica ma non illustre, non si erano però spinti mai presso al trono e non ne avevano per conseguenza goduti i favori; nondimeno, secondo i tempi, dal regime e dal Re avevano avuto riconosciuti i gradi, le pensioni e gli onori conseguiti grazie alla solerzia ed alla lealtà dei loro servigi. Nessuno di essi aveva mai preso parte a cospirazioni, né si era ascritto alle sette o semplicemente dimostrato fautore di novità: nei moti rivoluzionarii del regno e di fuori, il padre di Federico aveva visto l'effetto di false dottrine destinate ad essere disperse dalla ragione e dal diritto, capaci di ridurre soltanto i malcontenti, gli squilibrati, i sognatori. Egli aveva quindi giudicato malaccorte e pericolose le repressioni severe, attribuendole alla violenza di altri fanatici e scagionandone il sovrano; per conto proprio, aveva sempre consigliato la prudenza ed il perdono, virtù essenziali ad un regime paterno.

L'improvviso trionfo della rivoluzione lo stupì ed afflisse. Quantunque, negli ultimi tempi, il governo che egli considerava legittimo lo avesse un poco trascurato, facendogli aspettare una promozione ad intendente che gli spettava per anzianità, egli lo vide crollare con segreto dolore; questo sentimento non fu determinatoaccresciuto dall'incertezza della situazione nella quale egli restava. Dubitoso della durata del nuovo regime, invitato a servirlo grazie all'ottima reputazione acquistatasi, esortato dalla maggior parte dei più risoluti e meno scrupolosi compagni, stretto dalla necessità di accrescere le sue rendite, insufficienti ai bisogni della numerosa famiglia, inadatto ad altri lavori fuorché a quelli dell'ufficio suo, egli finì, dopo molti dubbi penosi, col prender servizio sotto la Dittatura. Mancò alla sua adesione l'entusiasmo, ma non la lealtà. Ne fu rimeritato con la promozione da più tempo invano aspettata; se non che, cessato il governo provvisorio, l'amministrazione italiana non confermò il decreto garibaldino. Altrettanto accadde a molti altri, a suoi compagni ed amici, ed allo stesso fratello: il ministero piemontese, cancellando i decreti del Dittatore, retrocesse tutti i militari da quest'ultimo promossi, rimettendoli nel grado inferiore che occupavano prima del 7 settembre 1860. Come il fratello Gaspare, così il capitano Lodovico Ranaldi aveva ottenuto l'avanzamento non già per favore, ma per diritto acquisito: entrambi, vedendo disconosciute le loro ragioni ed assistendo al trionfo degli intriganti che facevano valere mentite benemerenze patriottiche, non ne poterono concepire molta simpatia per il nuovo ordine di cose. Consigliati di recarsi a Torino per parlare coi ministri, vi andarono ottenendo mezza giustizia: il capitano riammesso nel grado di maggiore, ma tolto dai Corpi combattenti; il consigliere di intendenza riconosciuto intendente, ma non prefetto: dall'amministrazione politica lo sbalzarono alla finanziaria.

Né egli doveva godere in pace del contrastato grado. Come tutti gli impiegati provenienti dalle vecchie amministrazioni ai quali era mancata la destrezza di maneggiarsi e procacciarsi amici e protettori, egli sentì una sorda diffidenza e una secreta ostilità circondarlo, nei primi tempi, e coglier pretesto dalla sua inesperienza delle nuove leggi per infliggergli rimproveri e trasferimenti. Spinto da naturale amor proprio a far del suo meglio, riuscì a vincere il discredito; e nativamente onesto, fino allo scrupolo, volle anche smentire, coll'inflessibilità contro gli affaristi, l'accusa di corruzione troppo spesso scagliata al governo dal quale proveniva; ma allora altri e più grossi dispiaceri lo colsero, perché le nuove birbe non erano da meno delle antiche; anzi, grazie alle inframmettenze parlamentari, riuscivano meglio a sopraffare i galantuomini ed a vendicarsi di chi non si piegava a favorirle. La seconda fase della sua carriera fu perciò tempestosa: sbalestrato dall'uno all'altro capo d'Italia per dar soddisfazione ai protettori dei ladri, dei falsarii, dei prevaricatori, i ministri lo premiavano poi con le croci e le commende: ad ognuno di quei vani onori e di quelle reali afflizioni, egli sospirava il momento d'ottenere, con la giubilazione, la pace della vita privata. Equanime, non chiamava il nuovo ordine di cose interamente responsabile del male visto e patito, distingueva anzi la parte degli eterni vizii umani trionfanti sotto tutti i regimi, a dispetto delle leggi migliori, e non si metteva perciò fra coloro che, mangiando il pane del governo, lo denigravano e ne auguravano la caduta. Ma se non aveva partecipato alla rivoluzione nei primordii, né condiviso l'entusiasmo del domani divampato in tanti suoi colleghi, tanto più freddamente giudicò, coi disinganni, gli uomini e gli avvenimenti. Pieno di buon senso, presto si persuase, dopo le prime esitanze, che il vecchio regno non sarebbe mai più risorto; che anzi la rivoluzione avrebbe ripreso l'andare fatale; ma, ossequente per indole e tradizione all'autorità, rispettoso per educazione delle gerarchie e diffidente per esperienza dei mutamenti, non simpatizzò con gli impazienti e gli avventati che formavano l'opposizione nel Parlamento e nel Paese. Al 1876, compiti gli anni di servizio mentre la rivoluzione parlamentare portava la Sinistra al potere, chiese ed ottenne il ritiro, non condividendo i nuovi entusiasmi per l'avvento d'un partito che si vantava di dover riparare le colpe del predecessore. Al contrario: egli ne temette l'impreparazione e l'intemperanza, ed all'idea dei rischi che si stavano per correre coi vincitori, sostenne la causa dei vinti; sebbene poi, considerando quanto poco aveva da lodarsene, personalmente, l'amarezza antica gli ritornasse in gola. C'era per tutte queste ragioni nei suoi giudizii sulla cosa pubblica una freddezza, un riserbo, che all'ardente figliuolo doveva dispiacere. Quando i compagni gli rinfacciarono la prima volta le origini borboniche, Federico reagì con insolita violenza: nativamente mite, diede e ricevette ceffoni e pugni per affermare il paterno liberalismo; ma apprendendo che suo padre era stato realmente servo dei tiranni, ne provò dolore e vergogna. Più tardi, considerando che non tutti gli impiegati napoletani avevano preso parte alle infamie di quel governo, che anzi tanti erano fra i più stimati rappresentanti e difensori del nuovo regime, se ne consolò: il commendatore Ranaldi aveva bensì potuto appartenere all'amministrazione borbonica, ma per fatalità, non per elezione, soffrendone anzi ed uscendone con un senso di sollievo e di gioia! Non era uno dei rappresentanti della nuova Italia? Il posto del signor Intendente non era segnato accanto a quello del prefetto, del generale, del questore, del procuratore del Re, tutte le volte che si celebrava qualche festa civile?... Ma se in fondo alla memoria, Federico trovava i ricordi delle testimonianze d'ossequio tributate a suo padre, delle solenni cerimonie alle quali aveva preso parte: inaugurazioni, discorsi, ricevimenti di ministri e di prìncipi, e se perciò lo credeva uno dei sostegni della patria risorta, lo vedeva e lo udiva ora, crescendo negli anni, pronunziar critiche e fare reticenze, intorno a quest'Italia diletta, che lo turbavano ed offendevano. Cominciati i dissidii, il contrariato giovanetto dubitava, per il rancore che gl'invadeva l'animo, della coerenza politica paterna. Perché mai suo padre aveva preso servizio sotto il nuovo regime, se non lo apprezzava? Perché non si era dimesso, al Sessanta, se aveva rimpianto l'antico?... Fin dai tempi dei primi giuochi infantili, quando gli scolaretti marinavano la scuola per giocare alla guerra in qualche giardino, fra le macerie di qualche casa abbandonata o lungo la spiaggia, Federico aveva imparato a lanciare il grido di Savoia! come quello che incorava i combattenti nel momento del pericolo e li precipitava irresistibili sugli sgominati nemici. Come mai suo padre, servitore della prode monarchia, parlava ancora rispettosamente dei vili tiranni? Dell'ordinamento costituzionale, il giovanetto aveva udito spiegare la perfezione: Re e Popolo partecipi del governo, quello coi ministri, questo coi deputati; il Senato di nomina regia moderatore della Camera elettiva; il potere giudiziario libero e indipendente fra il legislativo e l'esecutivo: che cosa poteva opporre suo padre a questa perfezione? Un più grave e doloroso stupore egli doveva provare, udendo in famiglia affermare che, senza il tradimento, né mille né diecimila garibaldini avrebbero potuto abbattere un regno come quello di Francesco II!

A questo proposito, non il solo commendatore, ma anche la signora Luisa gettava acqua fredda sul fervore del giovanetto. Donna semplice ed unicamente inquieta del benessere della famiglia, la madre di Federico misurava la bontà dei governi dal trattamento che avevano fatto a suo marito: buono era stato, secondo lei, il borbonico, quando aveva rapidamente promosso il giovane segretario d'intendenza a consigliere; non tanto buono, quando gli aveva fatto sospirare l'avanzamento ad intendente; ottimo il garibaldino, nel rendergli prontamente giustizia; pessimo il piemontese nel negargliela; discreto dopo che ne riconobbe finalmente l'anzianità; detestabile nell'amareggiarlo e nell'infliggergli i frequenti traslochi, il fastidio e il danno dei quali ricadeva su lei, costretta a star sempre senza casa, a fare e disfare i bauli e le casse e a vedere la suo povera roba rovinarsi nei continui viaggi. Aggiungendo a questi motivi di cruccio l'enormezza delle tasse che si portavano via tanta parte del loro reddito fondiario, ella avrebbe avuto troppo poco da lodarsi dell'Italia una, se non fosse stata la paura del peggio. Il nuovo Stato non si dissolveva, il nuovo governo non falliva, come molti profetavano: pagava regolarmente, benché in fogli sudici e non in bella moneta sonante, lo stipendio di suo marito e le cedole della rendita che questi veniva comperando col frutto delle piccole economie e che formavano, al tempo della giubilazione, un ragguardevole capitaletto. Per questa ragione ella doveva augurarsi la saldezza del nuovo regime; ma, quando si parlava dell'antico, e particolarmente delle cerimonie regali, degli splendori della Corte, dei costumi delle principesse, ella che era nata e vissuta a Napoli, vicino alla Reggia, non finiva di rimpiangere il passato, esaltando la sontuosità di certi spettacoli, impietosendosi al destino di Maria Sofia, non comprendendo come la metropoli avesse potuto ridursi alla condizione di un qualunque capoluogo di provincia. «È stato un volenteroso sacrifizio sull'altare dell'unità!...» affermava Federico; ma ella sorrideva di quelle parole, protestava contro quel "volenteroso", negava la spontaneità, adduceva sintomi di pentimento, senza accorgersi dell'irritazione inflitta al giovanetto. Egli ne aveva provata un'altra, il giorno che il fanciullo di dieci anni, declamando con enfasi una poesia patriottica intitolata Il Disertore, dove una madre diceva al figliuolo: "Figlio mio, t'ho partorito - per la patria e non per me!..." sua madre aveva riso di quella presunzione, di quella "patria", che, a detta del poeta, esercitava più diritti della mamma! «Io t'ho partorito per me! per me!...» ma tra le braccia della mamma sua che pareva volesse contenderlo a invisibili nemici, egli era rimasto freddo e deluso; e i dubbii uditi esprimere da lei, più tardi, sull'eroismo delle genitrici lacedemoni e romane, lo avevano più profondamente ferito. Se ella non lo condivideva, non per questo doveva negarlo! Certo, ella giudicava così per la forza dell'amor materno; ma, come quello paterno, Federico lo veniva giudicando egoista, vedendosene ostacolato nelle sue aspirazioni.

Si placò un poco quando, compito il liceo, gli fu dato finalmente di lasciare Salerno per Napoli. Suo padre fedelmente e quasi superstiziosamente rispettoso delle tradizioni familiari, lo consegnò ai Gargiulo, in casa dei quali egli stesso e suo nonno erano stati ospitati, al tempo dei loro studi: gli fece assegnare la stessa camera già da lui occupata, nella quale stavano ancora i mobili e i libri da lui adoperati. Federico non vi restò più di un mese: la casa era vecchia, i mobili antiquati, gli ospiti borbonici. Se costoro si contentavano d'una pensione modicissima, tale vantaggio poteva sedurre il genitore, sempre a caccia di economie: per conto suo, egli preferiva avere meno da spendere nei minuti piaceri piuttosto che vivere tra quella gente. La sua risoluzione fu disapprovata dai suoi, i quali vedevano pericoli e danni in qualunque cosa egli facesse, e non gli scrivevano una sola volta senza rammentargli che si guardasse dai cattivi compagni e dai colpi d'aria, dalle carrozze e dai borsaiuoli, dalle indigestioni e dalla politica. Sapevano bene che questa era la sua gran passione!

Libero, sdegnoso delle raccomandazioni che implicavano una sfiducia nel segno del quale si credeva pieno, egli frequentò più le associazioni elettorali e le redazioni dei giornali che non le aule universitarie e le biblioteche. I sentimenti d'italianità si erano specificati in lui, divenendo un culto religioso per la monarchia redentrice e un'ammirazione sconfinata per il partito a lei più devoto. I moderati erano riusciti a portare l'Italia "da Novara a Roma", - aveva udito e letto sul grave Dibattimento, il giornale di suo padre: - "dai campi del duolo al Campidoglio!..." - disse egli stesso in un foglio napoletano, Il Risveglio, del quale divenne presto gran parte, scrivendovi gli articoli di fondo e la cronaca teatrale. Con la politica, poteva ora soddisfare anche l'altro suo gusto per la musica, ottenendo spesso la libera entrata ai teatri ed ai concerti. Suo padre, quando lo seppe, gliene mosse rimprovero, giudicando che fosse poco dignitoso non pagare il biglietto, che ne restasse impedita la stessa libertà del giudizio: insofferente di quelle continue critiche, egli finì col tacere al genitore quasi tutte le sue occupazioni e i suoi disegni, col restringersi a dargli in poche righe le notizie della salute e del tempo. Gli nascose d'aver preso l'iniziativa di un Circolo universitario monarchico, per porre un freno alle prepotenze del Democratico e del Repubblicano. Dei repubblicani era avversario inconciliabile, ma rispettoso; il loro ideale gli pareva intempestivo, data l'imperfezione umana, e addirittura funesto in Italia; ma ne riconosceva la nobiltà e l'altezza. Quelli che invece si contentavano di chiamarsi democratici, o progressisti, o riformisti, e che si dicevano ossequenti alla monarchia, ma lavoravano a menomarla, discutendo il prestigio, restringendone le prerogative, gli parevano in mala fede. Le stesse parole che designavano, secondo la topografia parlamentare, i due partiti, ne rivelavano le qualità: la Destra era stata destra, sagace, maestra di senno politico, diplomatico, economico; l'opera della Sinistra riusciva veramente nefasta, ponendo a repentaglio, con le riforme più immature, i miracolosi risultati conseguiti dalla risoluta prudenza e dal cauto ardimento. Nel sostenere la moderazione gli metteva una foga alla quale i suoi compagni di fede poco partecipavano, e della quale si stupivano quelli tra i repubblicani ai quali era amico. Scarse e tempestose amicizie: perché, concependo questo sentimento come il più saldo e dolce legame delle menti e degli animi, egli non poteva ammetterlo senza la totale e perfetta concordia, e l'antipatia per l'atteggiamento politico diametralmente opposto al suo, gli impediva di apprezzare le belle qualità degli avversarii. Molti di costoro lo ripagavano di altrettanta antipatia, e liti violente insorgevano coi riformisti. Certi giorni, dovendo discutere e decidere l'atteggiamento di tutta la studentesca a proposito di qualche avvenimento o cerimonia, l'Università diveniva teatro di pugne clamorose: volavano le sedie, i vetri cadevano infranti, guardie e soldati accorrevano: al loro apparire, mentre i riformisti protestavano e i repubblicani fischiavano, Federico si cavava il cappello.

Una volta, ad un rivoluzionario il quale diceva: «Mi farei tagliare piuttosto la mano, che stringer quella di un Re!...» egli rispose: «Io mi onoro di stringerla ad un questurino, e non ad un sovversivo». Allora l'altro gli diede del "birro dilettante" e dell'"aspirante spia": trattenuto dai circostanti, non potendo castigare immediatamente l'offensore, lo sfidò a duello. Durante i preparativi, esercitandosi lungamente alla sciabola nella sala di scherma, col braccio irrigidito e le gambe rotte, il suo ardore si temperò alquanto, il pensiero dei parenti lontani lo turbò; ma l'insulto proveniva dalla malvagità dell'avversario: egli negava di averlo provocato. I padrini composero la questione, e le liti ricominciarono, più tardi.

Gli chiedevano che cosa sarebbe stato a quarant'anni, se a venti era tanto codino; ed egli rispondeva che il tempo non avrebbe modificato il suo liberalismo prudente, mentre a breve andare gli scamiciati avrebbero invidiato il knut allo Zar ed il palo al Gran Turco. L'eccellenza del reggimento monarchico costituzionale gli pareva innegabile, evidentissima la necessità di associare l'esercizio dei diritti con l'adempimento dei doveri, di contemperare l'autorità e la libertà. Cavour ed i suoi continuatori incarnavano talmente per lui il patriottismo illuminato e la sapienza politica, che diffidava dell'intelligenza di chi non li ammirava altrettanto. Una grossa questione che minacciò anch'essa di degenerare, fu quella del paragone tra l'inno garibaldino e la marcia reale: udendogli anteporre questa a quello, i suoi avversari gli risero in faccia: «E con simili criterii fai il critico musicale?...». In verità egli non poteva apprezzare il puro valore artistico delle due composizioni, considerando che il canto dell'indipendenza, accaparrato ora dai sovversivi, echeggiava in tutte le dimostrazioni ostili alla monarchia; mentre la marcia reale evocava magicamente l'epopea nazionale: se egli ne udiva per le strade le prime battute, si scopriva, come al passaggio del Sacramento.

Dopo questi quattro anni di vita napoletana, il ritorno in Salerno, conseguita la laurea, ridestò più acuto e intollerabile il suo malcontento. Durante le vacanze autunnali, alla fine di ogni corso, il soggiorno della provincia non gli era riuscito grave; per la certezza di dover ripartire col novembre, alla riapertura dell'Università, e poi anche perché egli passava quei pochi mesi di riposo in campagna a Marecoccola. Due sole volte si era fermato in città, ma in due occasioni solenni, per i matrimonii delle due sorelle maggiori: di Maria con l'ingegnere Scarola, di Enrichetta col professore Romani. Ora, finiti gli studii, pretendendo suo padre di averlo eternamente con sé, l'idea di dover trascorrere l'esistenza a Salerno facendo il "paglietta" o mummificandosi tra gli scartafacci di qualche pubblico ufficio, quasi gli mozzava il fiato. L'ideale per lui era di andarsene a Roma, di far il giornalista, il polemista politico, il critico d'arte; i guadagni sarebbero stati modesti sulle prime, ma suo padre avrebbe potuto bene, senza perciò fallire, continuargli per qualche tempo la pensione pagatagli a Napoli. Come parlare però di quel disegno ad un uomo che giudicava il giornalismo l'ultima delle professioni, l'occupazione dei disoccupati, la capacità degli inetti?

Il temperamento trovato da Federico fu questo: egli avrebbe fatto, sì, l'avvocato - per contentar suo padre; ma a Roma, non già a Salerno, iscrivendosi come praticante, raccogliendo gli affari della provincia nativa - e cercando poi e trovando, una volta alla metropoli, il modo d'appagare le proprie inclinazioni. Questo temperamento, del quale il giovane ammirava la conciliante discrezione, non piacque neppur esso alla famiglia: padre e madre dichiararono di volerlo con loro. La passione per quel figliuolo, unico maschio, continuatore del nome, avvocato a ventidue anni, era cieca nei coniugi Ranaldi. Il commendatore, pur disapprovando l'attività giornalistica, era orgoglioso che il suo Federico sapesse scrivere; la signora Luisa lo giudicava il più bel giovane e il più vantaggioso partito della città, sognava per lui una sposa bella e buona; nobile e ricca, la perla delle mogli. Entrambi, maritate le prime figliuole, prevedendo che anche l'ultima, Giulia, tra poco li avrebbe a sua volta lasciati, non potevano rassegnarsi all'idea di restar soli nella casa deserta. Invano Federico osservò che ad evitare la solitudine avrebbero dovuto semplicemente scegliere con quale delle figlie far vita comune: gli risposero che i generi, benché rispettosi ed affezionati non si sarebbero acconciati a stare insieme coi suoceri; non soggiunsero, credendolo superfluo, che la compagnia cara e necessaria alla loro vecchiezza era la sua. L'ostinazione irritò il giovane, rinfocolò il suo rancore. Provvido veramente, quel grande amore dei genitori che gli contrastava la più innocente e legittima aspirazione, che gli precludeva l'avvenire, gli rinserrava l'orizzonte e gli toglieva la libertà! Quell'amore che dicevano di portargli, ma che li faceva solleciti del loro proprio vantaggio, del loro proprio piacere, non già del suo, non era altro che mostruoso egoismo! Era forse egoista egli stesso non sacrificando i propri desiderii all'affetto e alla devozione filiale? Ma egli entrava appena nella vita, doveva viverla ancora, adoperare la propria forza, provare la propria parte di gioia; mentre essi dichiaravano e ripetevano di non dover far altro al mondo, ormai, fuorché assicurare la felicità dei figli, la sua! Soltanto, pretendevano che la trovasse dove pareva loro che fosse: nella meschinità e nella grettezza della vita provinciale, nella dolcezza monotona ed a lungo andare incresciosa della famiglia, nel servaggio domestico! Per giudicare così, per cadere in simile contraddizione, per non intendere le aspirazioni di un giovane, le loro stesse facoltà mentali dovevano essere anguste! Già la madre, tolta la musica, riconosceva di non intendersi di nulla; e nella stessa musica non dimostrava di possedere un gusto molto squisito.

La cultura del padre era quella dei legulei di trent'anni addietro: nulla egli aveva fatto per rinfrescarla, la qual cosa non gli impediva di condannare, senza conoscerle, tutte le nuove dottrine scientifiche, filosofiche, morali! Disprezzava la politica, vituperava il giornalismo, incapace di comprenderne le funzioni sociali; e dopo aver passato sedici anni agli stipendii del nuovo regno, rimpiangeva l'antico! Quando tutta l'Italia fremeva sotto il giogo iniquo, quando il fiore della gioventù dava le sostanze, la libertà e la vita per la salute della patria, egli se ne era rimasto tranquillo sulla sua poltrona, a servir gli oppressori, ad eseguirne gli ordini, a mangiare il pane! Caduti, non aveva spinto lo zelo fino a restar loro fedele! La paga cresciuta esercitava una persuasione potente! Non tale, tuttavia, da renderlo riconoscente! E si lagnava della sua carriera? Ma che diritto poteva vantare ad un trattamento di favore un impiegato che invece di farsi perdonare la macchia originale, pareva anzi studioso di sfoggiarla, quasi fosse un titolo d'onore? Intransigente coi disonesti? Intrattabile piuttosto, con tutti; ostinato, cocciuto, angoloso, prepotente fuori di casa come in famiglia, ed anche peggio!...

La crisi si risolse nel pianto. Fanciullo, prima di partire per Napoli, tutte le volte che aveva qualche dissapore coi suoi, Federico non recalcitrava, non dava in escandescenze: al contrario: ammutoliva, rifiutava il cibo, si dava ammalato, si chiudeva in sé stesso, covava il suo corruccio, finché una carezza della mamma o una parola del babbo lo facevano sciogliere in lacrime. Allora, il suo rancore si dissipava, rapidamente, la stessa memoria se ne disperdeva. Giovane di ventidue anni, dottore in giurisprudenza, le tracce della nuova tempesta, simile alle antiche, ma tanto più grave, dovevano durare in lui più a lungo. Tra le braccia della madre, che non reggendo a vederlo tanto dolente, gli prometteva di intercedere per lui, di piegare il marito, di trovare una via di mezzo, egli riconobbe che la mamma era la più buona, la più santa fra le donne; baciando la mano al padre, dinanzi a cui ella lo trasse, udendo le dolorose espressioni del suo stupore e la promessa di lasciarlo andar via poiché disconosceva l'affezione dei genitori e la giudicava tirannica, si vergognò d'aver mal giudicato. Ma, superato il parossismo, la febbre dell'anima sua non cessò. Era stato indegno pensare cose tanto tristi dei genitori, ma essi medesimi avevano fatto sorgere in lui quegli odiosi pensieri, con la loro ostinazione nell'ostacolarlo. Come mai non si erano accorti del disastroso effetto della loro opposizione? Perché non lo avevano contentato un poco più presto, evitando quelle scene penose?... Egli stesso avrebbe potuto e dovuto trovare argomenti adatti a persuaderli, facendo assegnamento sull'amor loro... L'amor paterno ed il filiale, in quegli intimi dibattimenti, non gli parvero forze tanto pure quanto erano stimate: l'egoismo li intorbidava. La capacità del sacrifizio era molto rara: egli non aveva saputo rinunziare ai disegni di vita romana, i genitori si erano arresi dopo una lunga lotta.

A Roma, il commendatore aveva un amico d'infanzia nel celebre Satta, deputato e avvocato tra i più influenti alla camera e nel Foro: per convincere il padre della serietà delle proprie intenzioni, Federico gli aveva detto che sarebbe andato nel suo studio: Satta avrebbe immancabilmente portato avanti il figlio dell'amico di gioventù. E infatti il "professore", come i praticanti lo chiamavano, lo aveva accolto a braccia aperte, gli aveva fatto una vera festa. Una dozzina di giovani popolavano il suo studio, formavano il suo "stato maggiore". Ad eccezione di un toscano e di due romani, tutti gli altri erano meridionali: napoletani, calabresi, siciliani. Alcuni, gli anziani, lavoravano col professore, studiavano le cause, scrivevano le memorie; altri, ed erano i più, freschi di laurea come Ranaldi, stavano a udire, o prendevano note nei volumi della giurisprudenza, o ricopiavano manoscritti, o correggevano bozze di stampe, o correvano per le cancellerie e i gabinetti dei magistrati a estrarre documenti o a riferire ambasciate.

Federico faceva volentieri quel lavoro: il piacere d'essere a Roma, la novità della vita, l'amicizia del professore non gliene lasciavano vedere la meccanica aridità e la subordinazione quasi servile. Era del resto un onore molto conteso e molto difficile poter copiare le carte di Satta, stare tre o quattro ore al giorno in casa sua, accompagnarlo da per tutto, udire la sua parola. Quando non parlava degli affari professionali, egli discorreva di politica; e il posto che occupava in Parlamento, il credito di cui godeva presso i governanti, conferivano una grande importanza alle sue opinioni, alle sue previsioni, a tutto ciò che egli diceva.

Infatuato della Destra, il giovane credeva di dover udire cose molto amare pel suo partito, poiché il professore godeva fama di progressista ad ogni costo; invece, con suo grande stupore, egli criticava tutt'e due i partiti, ma più il proprio che il contrario. Un giorno che lo accompagnava solo, senza nessuno dei compagni di studio, il suo stupore crebbe vedendolo entrare negli uffici dell'Italiano, il giornale della vecchia Destra. Egli credeva che gli avversarii politici non si potessero incontrare se non sul terreno della lotta; che tra loro non ci potesse essere tregua: che cosa andava dunque a fare Satta, il liberale ardito, tra i conservatori più rigidi?

Seppe più tardi che il professore era amico di Cusagrande; ma questa amicizia pareva impossibile al giovane che le sue amicizie giovanili aveva sacrificato all'ideale politico. Ammaestrato dall'esperienza, s'era proposto, entrando nello studio, di star guardingo, di conoscere bene le idee dei nuovi compagni prima di stringere relazione con loro; ma egli non riusciva a sapere quali fossero queste idee. Non che essi evitassero di parlare di politica; anzi, non parlavano quasi d'altro, non facevano altro, nelle lunghe ore d'ozio, che leggere e commentare gli articoli dei giornali; ma nessuno d'essi dimostrava d'aver fede in un partito. Dicevano male di tutti, demolivano allegramente reputazioni di capi-parte e di giornalisti che Ranaldi credeva superiori al sospetto; ma ognuno di essi aveva pronti una quantità di rimedii per correggere i vizii della Camera, per instaurare la perduta moralità parlamentare: idee più o meno bislacche, ricette da farmacie politiche, proposte che facevano a pugni, dirette ad ottenere uno stesso risultato: restrizione del voto appena allargato, oppure suffragio addirittura universale; un solo deputato per provincia, oppure un'assemblea di mille legislatori; il referendum popolare oppure l'elezione di secondo, di terzo, di quarto grado. Le discussioni prolungavansi indefinitamente, erano riprese da un giorno all'altro, con nuova lena, secondo che nelle notizie parlamentari o negli articoli dei giornali ciascuno trovava nuovi argomenti. Federico stava a udire, col proposito di tenere per sé le proprie idee, poco allettato da quel genere di discorsi; ma i suoi compagni non ne facevano altri. Uno specialmente, Filippo Russo, ci metteva molta passione: per alleggerire alla famiglia il carico del suo mantenimento a Roma, mandava corrispondenze a parecchi giornali di provincia, di diversa tradizione politica; e la sua tesi era appunto questa: che ormai le antiche distinzioni di Destra e Sinistra non avevano più senso; che quattrocento deputati, sopra cinquecentootto, pensavano allo stesso modo e volevano le stesse cose. Per suo mezzo, Ranaldi andò alla Camera, nella tribuna della stampa, il 30 maggio, e vi tornò altre volte. Quantunque facesse forza a sé stesso per evitar la politica, la tentazione lo circondava da ogni parte, non solamente nello studio del professore, ma fuori, nei caffè, nei ridotti dei teatri, per le vie di quella Roma, dove i grandi giornali, gridati dai venditori, esposti da per tutto al pubblico, gli offrivano le notizie di prima mano, con una prontezza alla quale non era abituato; dove egli incontrava ogni giorno le persone che li scrivevano e quelle che erano oggetto delle loro scritture. E il professore più spesso faceva brillanti improvvisazioni dinanzi ai giovani e li metteva a parte delle sue idee, dimostrava di tener lui specialmente da conto. Volle leggere la tesi di laurea di Ranaldi, una tesi politica, I doveri della libertà, il cui solo titolo diceva l'ideale del giovane, i principii di severa disciplina, ai quali voleva che ubbidissero tutti e ciascuno; e per quella monografia che dalla commissione d'esame era stata giudicata molto favorevolmente e data alle stampe, Satta, il progressista che nella libertà avrebbe dovuto vedere più presto un diritto che un dovere, ebbe parole di lode sincera ed assoluta. Ranaldi, che da un pezzo trovava molti argomenti di stupore, non poté nascondere al professore quello che la sua lode gli procurava. Era anche questa volta solo con lui; Satta andava in fretta dal tribunale alla Camera, ma quando, data licenza al giovane di esprimere il suo pensiero, gli udì dire, timidamente, stentatamente: «Io credevo... io non credevo che lei m'avrebbe approvato...» si fermò ad un tratto ridendo. «Ti stupisce?» gli disse dandogli del tu, come faceva qualche volta. «Perché mi credi anarchico? Ma dovrei piuttosto stupirmi io stesso, vedendo un giovane di ventidue anni esprimere idee che cominciano a parer buone molto più tardi...» E, ripresa la corsa, come il passo altrettanto rapida divenne la sua parola. Sì, egli aveva sostenuto il diritto alla libertà quando era stato negato; quando la schiavitù era stata imposta come un dovere; ma della libertà non aveva mai disconosciuti i limiti necessarii al mantenimento del patto sociale. Fare che le due nozioni andassero d'accordo: questo era il problema antico; perché in ogni tempo, in ogni luogo, si manifestano tendenze a sconfinare in un senso o nell'altro, a troppo vincolare, e a sfrenar troppo; e il suo discepolo non aveva tutti i torti meravigliandosi un poco dell'approvazione accordata alla tesi più rigida da chi prima aveva accarezzata la più larga; ma questo mutamento era più apparente che reale. Poiché il pensiero è come il Pròteo della favola, che muta incessantemente d'aspetto, o meglio, poiché non v'è un pensiero unico e fisso, ma una serie infinita di pensieri, incostanti, contradittorii, nessuno può con una parola definire esattamente un uomo; nessun uomo può definire esattamente sé stesso. «Tu incolli sopra una bottiglia di Capri rosso un cartellino dove sta scritto Capri rosso, e sopra una bottiglia di Corvo bianco, il cartellino: Corvo bianco: la confusione è impossibile; se tu scambii i cartellini, i tuoi sensi, gli occhi e il palato ti avvertiranno dell'errore. Ma quando si tratta del pensiero, dello spirito, della persona morale, il sistema dei cartellini è sbagliato. Di quest'uomo dirai che è, mettiamo, credente, passa in quel punto un prete, perché gli vedi addosso l'abito talare e l'odi predicare la parola di Dio; ma sai tu se, nel punto che la predica, egli dubita; e quante volte, prendendosi la testa fra le mani, s'accusa di ipocrisia?» Così in politica. Definire un uomo da una parola, da un discorso, da cento discorsi, è un errore, giacché per ogni idea che egli esprime, ve ne sono, nel suo cervello, migliaia che la combattono o la combatteranno più tardi, e la potranno modificare, trasformare, distruggere. Perché si dice che i più violenti rivoluzionarii diventano i più rigidi tiranni? Tra un rivoluzionario e un autoritario che sembrano due uomini assolutamente diversi, incapaci di poter intendersi mai, la differenza non dev'esser poi molto grande, se l'uno è capace di mutarsi nell'altro e l'altro nell'uno. La convenienza, l'utilità, il tornaconto, può suggerire a ciascuno una certa professione di fede, interessata, e perciò soggetta ad esser disdetta col venire meno del vantaggio, ma chi potrà vantarsi d'esser del tutto disinteressato? Muta la qualità dell'interesse: interesse materiale o morale, diretto o indiretto, presente o futuro, reale o immaginario; ma sempre, tra tutte le opinioni che cozzano dentro di noi e che riconosciamo tutte vere, noi ne esprimiamo qualcuna per uno speciale motivo... «Ah, ah! ah!» Egli s'interruppe una seconda volta, per tirare una risata. Dove diavolo l'aveva trascinato la foga oratoria? Che discorsi scettici teneva a un giovane apostolo! «Sì, caro Federico...» e passatogli il braccio nel braccio riprese la via; «io ho modificato un poco le mie idee; è meglio confessarlo subito; ma le mie idee d'ora non mi sono nate a un tratto nel cervello, ci sono state sempre, invece; solamente, come in una bilancia, levando e mettendo continuamente pesi, ora s'inchina un piatto, ora l'altro, così nel mio, nel tuo pensiero, nel pensiero d'ogni uomo le oscillazioni sono continue. Vedi un poco che cosa accade dentro...»

Erano vicini a Montecitorio. «Due partiti che da anni ed anni si combattono, si dilaniano, si calunniano, adesso, guardandosi bene in faccia, cominciano a pensare che forse, in fondo, non c'è tra loro nessuna differenza. Quando la Sinistra non aveva ancor fatto l'esperimento del potere, era difficile, sì, che quest'idea venisse in mente a qualcuno; ma ora? I conservatori che temevano il finimondo dall'opera dei progressisti, si sono accorti che il mondo durerà quanto ha da durare; e se noi fossimo stati al governo durante la formazione del regno, diciamola tra noi, avremmo poi fatto molto diversamente da quelli contro i quali gridavamo?...»

Egli s'era fermato dinanzi al portone del palazzo, dimenticava la sua fretta, rispondeva meccanicamente, con un moto del capo o un gesto della mano, alle persone che lo salutavano passando, tutto occupato a sviluppare quelle idee. Non venivano nuove a Ranaldi; da che era a Roma, le aveva sentite ripetere, più o meno chiaramente, un po' da per tutto: ma adesso, oltre che teoricamente, egli le vedeva praticamente dimostrate da quella specie di confessione. Il discorso del professore prendeva sempre più il tono d'una confidenza, a quattr'occhi, dell'intima espansione di un uomo che prova l'imperioso bisogno di dire tutta la verità: e un poco per l'evidenza delle prove, un poco per l'orgoglio d'essere stato lodato e messo a parte dell'intimo pensiero del maestro, la fede del giovane si scosse. Da principio, egli non aveva credutopossibileutile la lega tra gli opposti partiti, adesso, se uno come Satta parlava a quel modo, bisognava credere che un gran mutamento operavasi, anzi s'era già operato negli spiriti. Egli si sentì un poco turbato da quello che poteva avvenire dentro di lui. La forza innaturale da lui messa nel sostenere principii di moderazione era forse il segno d'un errore d'indirizzo, e credendosi conservatore inflessibile, era egli forse della stoffa dei rivoluzionarii?

In politica, aveva sostenuto con la più grande saldezza le proprie idee; ma in filosofia, nella speculazione pura, era stato egualmente partigiano? Studiando i grandi problemi metafisici, i secolari enimmi che opprimono il pensiero umano, non aveva riconosciuto quella parte di vero che c'è nelle contraddittorie soluzioni? Leggendo la storia della filosofia, vedendo il continuo sorgere e tramontare degli opposti sistemi, e il loro assiduo ritorno dopo un tramonto che pareva definitivo, non s'era persuaso che essi sono tutti falsi e tutti veri ad un tempo? Personalmente, che cosa aveva creduto intorno ai misteri dell'anima e di Dio? Era passato dalla fede positiva alla negativa, secondo l'efficacia dell'ultima lettura, l'umore dello spirito, il colore del cielo. Discutendo di queste cose, aveva dimostrato una grande arrendevolezza, una ragionevolezza larga; soltanto nel difendere un sistema politico era stato incrollabile!... Egli non dubitava ancora; ma, da quel giorno, si trovò naturalmente più disposto ad ascoltare le dimostrazioni di coloro che predicavano la fine delle antiche parti, la convenienza di un accordo formale come sanzione di quello sostanziale già riconosciuto. Il professore tornò a parlargli di queste cose, intimamente, quasi gli importasse di giustificarsi dinanzi a lui; e le parole di Satta esercitavano una più grande influenza nel suo spirito.

I fedeli ai vecchi partiti chiamavano confusionismo la nuova scuola; Satta protestava contro la volgare designazione, parlava d'un illuminato eclettismo. La politica, diceva, è la più pratica delle scienze; ma, se l'eclettismo ha del buono in filosofia, dove si specula intorno a idee, e la cocciutaggine partigiana non può in fin dei conti produrre grave danno, in politica, nella scienza pratica, la vera saggezza consiste nel prendere da tutti i sistemi quel che hanno di buono, o nell'adattare ogni sistema alle necessità del momento.

Secondo lui, in quel momento era necessario che, messe da parte alcune divergenze intorno a quistioni molto secondarie, tutti gli uomini fatti per intendersi si intendessero francamente, sinceramente e si dessero la mano, e si votassero con zelo ed amore ad un'opera di salute. I destini della patria erano in giuoco; le lotte di partito, venuti meno i principii, degeneravano in lotte personali, le più funeste di tutte: il credito del regime parlamentare pericolava, il malcontento del Paese poteva manifestarsi in modo violento se, occupati dai loro piccoli interessi, i deputati trascuravano i grandi, i vitali interessi della nazione... e Ranaldi era già persuaso della giustezza di queste idee, della necessità di questa predicazione, quando un giorno il professore gli disse che aveva da parlargli e lo invitò a desinare con lui. Il giovane era smanioso di sapere che cosa avrebbe potuto dirgli e con l'eccitata immaginazione esaurì tutte le ipotesi senza indovinare. Satta gli disse che, parecchi deputati, concordi nel riconoscere la convenienza di indirizzare per una nuova via, più larga, più diritta, l'attività parlamentare, avevano pensato di fondare un giornale che bandisse il nuovo credo: in questo giornale gli offriva di scrivere. Il capitale, già messo insieme, era tale da dar tempo di conquistare il favore del pubblico; maggiori difficoltà incontrava la scelta della redazione. A cose nuove, uomini nuovi: i fondatori volevano dei giovani indipendenti, fresche energie capaci d'intendere, prima di predicarla e per predicarla, quella rinnovazione ideale. Quanto alla direzione, la difficoltà era superata: il giornale non avrebbe avuto direttore; ma un comitato direttivo composto di cinque fondatori. Redattore capo sarebbe stato forse il Broggi, giornalista lombardo molto conosciuto per la smagliante eleganza dello stile, ma egli voleva mettergli accanto qualcuno di sua particolare fiducia. Non si contentava del solo Russo, che sapeva troppo divagato: aveva invece molta opinione di lui, Ranaldi, e sarebbe stato veramente contento della sua accettazione... Il giovane chiese del tempo prima di decidersi. L'offerta lusingava il suo amor proprio; ed egli non era indifferente ai vantaggi materiali.

Come egli stesso aveva proposto, suo padre non gli dava più di duecento lire il mese; lo stretto necessario; è vero che da casa gli mandavano una quantità di roba, biancheria, oggetti di vestiario, dolciumi, ma l'aiuto era mediocre, e specialmente adesso che egli cominciava a fare qualche conoscenza, che molte tentazioni di lusso alle quali dapprima aveva resistito, lo assediavano più da vicino, il magro assegno gli pareva magrissimo; con poca fatica, senza trascurare lo studio positivo, scrivendo qualche articolo, passando qualche ora in redazione, avrebbe potuto raddoppiare le sue entrate. Poi, per dimostrare alla famiglia che non s'era prematuramente vantato quando assicurava che appena arrivato a Roma avrebbe guadagnato quattrini, si confermava nella convenienza d'accettare; ma l'idea di far opera buona e feconda, di lavorare al rinascimento politico del suo Paese lo seduceva principalmente, lo infervorava, gli metteva addosso una vera febbre.

La lettura dei giornali, i discorsi dei compagni e del maestro, lo spettacolo della Camera, la frequentazione degli uffici giornalistici, quella specie di contagio diffuso nell'aria della capitale avevano operato tanto più facilmente in lui, in quanto che egli aveva già provato il morso della passione politica. Ma il paragone era forse possibile tra le agitate ed inutili discussioni fatte all'Università, o nei circoli giovanili o nei caffè napoletani, e l'opera di propaganda che adesso gli proponevano? Egli non avrebbe parlato a dieci o a venti compagni, ma il suo pensiero si sarebbe diffuso da un capo all'altro del Paese, persuadendo e convincendo.

Si sentiva veramente capace di persuadere e convincere, poiché il suo spirito erasi slargato, aveva perduto l'ostinata rigidezza di prima. L'antica infatuazione per un partito che trasformavasi mentre egli continuava a giurare in suo nome, gli pareva adesso un poco ridicola; continuare a combattere i progressisti come nemici non era prendere per giganti dei mulini a vento?

Morti quei partiti, bisognava suscitarne altri, nettamente distinti, fondati sopra divergenze reali e non nominali; egli intendeva l'eclettismo di Satta come mezzo, non come fine; aveva in mente tutto un nuovo ordinamento della vita parlamentare; e la grandezza dello scopo, l'opportunità del momento lo persuadevano a dir di sì.

Tuttavia sentiva di non poter fare un passo di tanta importanza senza consultare suo padre. Gli scrisse, quindi, e per ottenere più facilmente il consenso, espose egli stesso, preventivamente, i lati meno seducenti della proposta di Satta. Il mondo giornalistico era forse un po' troppo mescolato, e accanto a pubblicisti insigni v'erano troppi mestieranti. Ma, innanzi tutto, la moralità di Satta era garanzia della moralità della redazione da lui formata; secondariamente, v'era molta differenza tra il giornalista di professione costretto a vivere in mezzo ai colleghi di professione, e il collaboratore d'un giornale che, scrivendo qualche articolo, sarebbe rimasto libero di vivere a modo suo, nella compagnia che gli sarebbe piaciuta. L'acrimonia delle polemiche, le noie delle quistioni personali non erano neppur da temere, perché egli avrebbe scritto articoli speculativi, pieni soltanto di serene idee. Restavano i vantaggi, non ultimo era quello di far cosa grata al professore, di entrar meglio nelle sue grazie.

Suo padre rispose con una lettera secca e breve, in cui rimproverandogli i dispiaceri dati alla famiglia, gli dichiarava che questo sarebbe stato il più grande. Allora, senz'altro, egli andò dal professore e gli disse che accettava.

Satta aveva ricevuto anch'egli una lettera dell'amico nella quale questi lo pregava di lasciare agli studii positivi il figliuolo e quasi lo rimproverava d'averlo tentato: «Dispiace a tuo padre, non ne parliamo più» disse al giovane che veniva a significargli il proprio consenso. «Mio padre» gli rispose «ha la curiosa pretensione di trattarmi come quando avevo dodici anni. Se almeno egli vedesse giusto, potrebbe avere il diritto d'essere ascoltato, ma le sue idee sono troppo particolari e fuori stagione. Tutto ciò che mi può legare a Roma gli dispiace perché vorrebbe che io tornassi a Salerno; ora io ho preso la ferma decisione di non tornarci a nessun patto, e di vivere dove e come credo...»

Salerno, Napoli, la stessa Roma dei primi tempi gli parvero molto lontane, il giorno che prese parte alla prima riunione della redazione. Si teneva in casa dell'on. di Francalanza, un quartiere in via Nazionale, montato con un lusso fiammante: una serie di salotti arabi, giapponesi, persiani, pieni di tende variegate, di vasi panciuti, di ventagli multicolori, e di tavolini minuscoli come deschetti da calzolaio. V'era tutto il comitato direttivo composto del padrone di casa e degli onorevoli Sceasse, Silonne, Buci e Calorio; v'era il redattore capo, Gualtiero Broggi, un piccolo uomo con poco pelo in viso, la fronte solcata da una cicatrice e il monocolo all'occhio destro; v'era l'amministratore Beneventi, israelita, con un naso che pareva un rostro, la barba d'un nero lucente e il cranio nudo roseo come il didietro d'un lattante; v'era Filippo Russo e un redattore letterario, Vietri, bel giovane coi capelli tagliati a frangia sulla fronte, una punta di barbetta alla fiamminga e le mani bianchissime e inanellate. Discutevano del titolo non ancora scelto. Gli onorevoli volevano un titolo serio, perché il giornale, pure avendo una parte letteraria, mondana ed amena, doveva essere innanzi tutto politico; rifiutavano quindi i nomi d'eroi più o meno popolari come Fortunio o Don Chisciotte; l'amministratore, senza proporne alcuno, raccomandava che il titolo fosse di facile comprensione, perché da questo dipendeva la vendita in piazza; la gente spicciola non avrebbe comprato un foglio il cui nome non le dicesse subito qualcosa: i titoli migliori erano per lui i più semplici: Gazzetta di Roma, Corriere nazionale, Cittadino italiano.

«Aspettiamo di sentire l'opinione della signora Vanieri» disse il padrone di casa.

Ranaldi non sapeva ancora che il giornale avrebbe avuto una collaboratrice. Al solo annunzio, egli sussultò. Della Vanieri, di Beatrice Vanieri, che aveva scritto fino a quel giorno nel Gargantua, anzi era stata la fortuna di quel giornale, parlavasi non soltanto come d'una valorosa cronista, ma anche come d'una donna molto attraente. Vedova, giovane, col prestigio della fama letteraria, aveva fatte molte passioni; l'idea d'averla compagna di lavoro infiammava Ranaldi, quantunque non l'avesse mai veduta. Egli non conosceva ancora l'amore, la passione intellettuale di cui sono piene le opere dei romanzieri e dei poeti; struggendosi d'amare e d'essere amato a tal modo, s'era dovuto contentare o del secreto e sterile culto per donne cui non aveva mai parlato, o dei disperati e non meno sterili tentativi di spirare un'anima alle mercenarie. Una scrittrice, una creatura che sapeva la vita, la Vanieri era per lui l'ideale: avendola tutti i giorni vicina, non dubitava che la fiamma si sarebbe accesa. Per suo conto, già era disposto ad amarla, non udiva più quel che dicevano intorno a lui, fantasticando tutto un avvenire di lavoro fecondo, di passione ardente, di felicità alta, quando s'udì squillare il campanello, e il cameriere annunziò la scrittrice. Ella entrò rapidamente, parlando fin dall'anticamera: «Scusate, principe, se mi sono fatta aspettare... prego questi signori di scusarmi...» e al primo vederla, dispiacque a Ranaldi. Non già che fosse brutta, al contrario: ben fatta di corpo, con una statura vantaggiosa, una copiosa chioma castana, la carnagione bianca, anzi pallida, la faccia forse un po' troppo lunga, ma non disdicente all'alto personaggio; il giovane non riusciva a rendersi conto della propria impressione esaminando a parte a parte quella figura. Forse gli dispiaceva l'aria, il tutto insieme, la petulanza chiacchierina del suo ingresso, l'ineleganza o piuttosto la sciatteria dell'abito: dalla cintura le pendevano sul di dietro due pezzi di guarnizione così sgraziati e tanto gualciti che veniva voglia di strapparli via; sull'abito grigio portava un cappellino giallo e azzurro, giallo di paglia, ricoperto di velluto azzurro non di prima freschezza e ornato d'un'ala di volatile: l'ala era rotta, ad ogni movimento della persona oscillava.

«...Volete ammazzarlo in fasce? State bene attenti, signori miei: il titolo è una cosa gravissima, come il nome d'una creatura. Voi capite quant'è funesta la vita d'un uomo che si chiama Procopio o Apollonio? Neppure un titolo troppo futile, va bene; ma lasciate stare il Rinnovamento ed il Rinascimento, per carità!...»

Seduta accanto a Ranaldi, ella si rivolgeva a tutti fuorché al suo vicino; e il giovane non parlava, un poco punto dalla distrazione del padrone di casa che non lo aveva presentato. Ciascuno dicendo la sua, la discussione animavasi: «Io direi L'Araldo... Ce n'è uno a Como... Il Trovatore è un bel titolo... Anzi, Il Traviato... Ah! ah! ah! Quant'è bello Il Traviato... Siamo pratici: il titolo deve dire che cos'è il giornale: io lo chiamerei semplicemente: Il Partito Nazionale...». Il Partito Nazionale proposto dall'on. Buci, piacque a parecchi suoi colleghi; ma la Vanieri:

«Il Partito Nazionale, scusate, onorevole, è seccante assai!» E il principe, che fino a quel punto era stato a sentire:

«Scusate, onorevole collega, non siamo d'accordo. Né Rinnovamento, né Partito Nazionale, né Partito Nuovo, né altro titolo di questo genere. Non ci facciamo illusioni: l'opera che stiamo per imprendere non è delle più facili; avremo da superare molte diffidenze; già ne vediamo qualcosa: se la naturale e logica evoluzione delle idee vien detta confusione interessata. Non conviene, poi, a mio giudizio, battezzare una cosa che è ancora da venire. Il Partito nazionale noi vogliamo formarlo appunto perché ancora non c'è. Di più, questi nomi peccano un poco, mi pare, di prevenzione; noi dobbiamo trovare qualcosa di più modesto e di più semplice...»

«Benissimo!... Molto giusto!... Io sto con voi!...»

La scrittrice approvava clamorosamente le idee del principe. L'on. Buci si arrese, e la caccia al titolo ricominciò. Ciascuno proponeva il suo: La Posta, Il Moschettiere, Il Giorno; ma nessuno incontrava interamente.

«E lei, Ranaldi, non dice nulla?»

Il giovane aveva pensato un titolo, che gli piaceva molto, ma per timidezza, per paura di far fiasco come gli altri, se l'era tenuto per sé.

«Ne proporrei anch'io uno, ma non so quanto valga... Un titolo semplice, di facile comprensione, né pesantefutile, mi pare che potrebbe essere La Cronaca...»

«Eccolo!»

Tutti approvarono, concordi: la Vanieri, particolarmente, esprimeva una vera ammirazione per la trovata; ripeteva quel nome, ad alta voce: La Cronaca, quasi a dimostrare quanto bene sonasse; si volgeva al suo vicino, del quale non s'era accorta fino a quel punto, per dirgli:

«Ben trovato!... Molto bene!... La Cronaca: quel che ci voleva...»

«Allora,» riprese il padrone di casa «diamo la parola all'amministratore, per la parte tipografica.» Il Beneventi espose le offerte avute da tre o quattro stampatori e da parecchie cartiere: mostrò dei campioni, riferì dei prezzi. Il Broggi e la Vanieri si misero a discutere, ma pareva più pratica quest'ultima degli uomini. Il tipografo Marcello era "un ladro", con la casa Pistone non voleva che avessero da fare. «Non sapete che tiri giuoca?...» E raccontava commissioni non eseguite o eseguite al rovescio, di pubblicazioni sospese per colpa di "quegli lader". Furono scartate assolutamente le tipografie dove si stampavano altri fogli politici; l'amministratore ebbe incarico di tornare a trattare con le rimanenti e di scegliere la più discreta. Metter tipografia propria era per la Vanieri il miglior mezzo di risolvere la quistione; ella assicurava che sarebbe stato un affare, date le condizioni di quell'industria a Roma, e ne spiegava la convenienza con gran lusso di cifre. Quantunque ci fossero cinque azionisti rappresentanti della società, ella rivolgevasi particolarmente al principe, come al pezzo più grosso, al più danaroso: «Il denaro sarebbe impiegato al 20 per cento: pensateci, principe!...». Poi si discusse del servizio telegrafico. Il Broggi aveva grandi idee, raccomandava agli onorevoli di trattare col governo perché il giornale potesse avere un filo speciale. L'antico tipo di giornale, a base d'articoli di fondo, di elucubrazioni più o meno accademiche, con le notizie relegate in terza pagina, aveva fatto il suo tempo: bisognava che la Cronaca fosse innanzi tutto un foglio abbondante di notizie fresche, di prima mano, messe bene in vista; la rapidità e la copia delle informazioni le avrebbero procurato lettori da per tutto, i quali, grazie alle notizie, avrebbero poi letto gli articoli di propaganda. La Vanieri approvava il modo di vedere del redattore capo con più calore degli altri. Aspettando che le pratiche per la concessione del filo telegrafico particolare approdassero, il Broggi ebbe incarico di provvedere al servizio delle corrispondenze. L'on. Sceasse propose un suo cugino che stava a Londra come corrispondente della metropoli inglese; Vietri, il poeta, che non aveva ancora fiatato aprì la bocca per assicurare che Gustave Aloux, il celebre romanziere francese "amico mio" avrebbe accettato sicuramente di mandar delle lettere parigine; e la Vanieri a batter le mani: «Aloux! Aloux! Se Vietri ci fa avere Aloux, un migliaio di signore prenderanno l'abbonamento!...». Frattanto l'on. Buci, dopo avere discusso a parte col suo collega Calario, richiamava l'attenzione della adunanza:

«Tutto questo sta benissimo; ma sarebbe tempo di pensare a una cosa più impellente: voglio dire all'ufficio del giornale

«Sicuro... Certamente... La casa...»

Ma il principe, a quel punto, s'alzò:

«Bisogna senza dubbio pensarci; ma, col permesso dell'onorevole preopinante, io vorrei dire che non c'è tanta impellenza quant'egli asserisce. Sempre che vi sarà bisogno di riunirci, per ora, ed anche dopo, sarò ben felice di mettere a vostra disposizione la mia casa. Potremo anche stabilire fin d'ora quando vogliamo rivederci per concretare le cose lasciate in sospeso. Frattanto, se gradite una tazza di the...»

Così dicendo, offerse galantemente il braccio alla signora; e tutti passarono nella sala da pranzo.

«Oh! Oh!... Una tazza di the... Che modestia...» V'era una tavola molto riccamente ed elegantemente imbandita: i cristalli dalle forme svelte e l'argento massiccio luccicavano in mezzo ai fiori: mazzi di fiori e piatti colmi di pasticcini, di frutta candita, si confondevano da lontano.

«Oh! Oh!... Grazie!... Quante buone cose!...» La Vanieri esaminava i piatti ad uno ad uno, ci ficcava dentro il naso, mangiando pel momento dei sandwichs, ghiottamente. «Caro principe, vi dirò che avete avuto un'ottima idea... Che roba è questa?... Il molto parlare mi mette appetito; e a lu?... Quella crema deve essere eccellente... Vietri non manca: i poeti si nutriscono d'aria!...»

Ella parlava e mangiava tutto in una volta. Il principe aiutava il cameriere a servire i suoi invitati, nessuno dei quali però faceva tanto onore ai rinfreschi quanto la scrittrice.

«E Calorio che voleva cercar subito un ufficio!... Il bisogno di sloggiare non è vivamente sentito; eh?... Ah! ah!... Questo marsala colma una lacuna... Anche lo sciampagna!... crescit eundo!..."

Allegrissima, rideva prima d'ogni altro di quelle espressioni scherzose, caricatura dello stile giornalistico; ma poiché gli altri tornavano a parlare del giornale, del suo ordinamento, della sua fortuna, ella lasciava lo scherzo per affermare:

"Io vi dico che fra un anno la Cronaca sarà attiva. Coi mezzi materiali e morali di cui disponiamo, la riuscita è immancabile. Esiste in questo momento un giornale a Roma?" "Questo poi!... Come... Ce n'è una dozzina..." "Carta stampata, se vi piace; ma giornale come intendiamo noi? Nominatene uno, di grazia... Sarebbe il Dibattimento?... O la Politica?... O la Sveglia?" E uno dopo l'altro li buttava giù, con una parola; buttava giù i direttori, i redattori, gl'ispiratori, dava a questo del "mariolo", a quello della "volpe", a quell'altro del cretino. "Cretino, v'assicuro; ma cretino a segno da non capire le cose più intuitive... Ne volete una prova?..." E confortava le sue asserzioni narrando aneddoti, riferendo motti, imitando le persone di cui parlava con una mimica efficacissima che faceva ridere l'uditorio. Poi, tornando al serio: "Quello che non si può tollerare, signori miei, è la mancanza di senso morale!... Oh!... Mi date ragione?... Mancanza di senso morale!...» Tolti due o tre galantuomini, persone veramente integre, tutti gli altri erano banditi, cavalieri di ventura, bravi pronti a lasciarsi assoldare dal maggior offerente. Chi aveva rispetto di sé poteva rassegnarsi a certe convenienze che, prolungandosi, dovevano essere giudicate come vere complicità? Così ella era uscita dal Menestrello, dall'antro dove, per sua disgrazia, l'avevano attirata: antro, sì, con quale altro nome chiamarlo? Se ne appellava a Vietri: "Voi che ci siete capitato, dite se è vero, se un galantuomo può restare in compagnia dei briganti..." se ne appellava ai deputati vecchi i quali conoscevano quei ricattatori, raccontava cose vituperevoli che colmavano di sdegno l'animo di Ranaldi. Sfogandosi, la scrittrice aveva smesso di mangiare: il principe le presentò un piatto di paste perché si facesse la bocca dolce. "Grazie! Voi siete amabilissimo, prenderò un'indigestione... No, basta, adesso grazie davvero... Facciamo una cosa, piuttosto: datemi un po' di carta, li porterò a casa...»

Lo scoppio delle bottiglie di sciampagna sturacciate la mise di nuovo in allegria: alzato il bicchiere spumante, si rivolse al padrone di casa: «Prima di tutto, all'anfitrione!... Anfitrione! Vi prego di notare l'eccessiva bellezza di anfitrione, ah! ah!...» ridendo, torcendosi ella quasi si buttava nelle braccia del principe. «Poi alla Cronaca, giornale dei giornali... Il merito è tutto vosto...» Adesso si rivolgeva a Ranaldi: «Un bravo di cuore!... In verità, io domando e dico: chi leggerà altre cronache che non siano quelle della Cronaca?... Le politiche di Broggi, scoppiettanti e brillanti come fuochi d'artifizio; le letterarie di Vietri, dove Sainte Beuve la mano a Théophile Gautier; le mondane, e crepi la modestia, di Parisina; perché badate, signori miei, io non lascio il mio nome di battaglia...» «No, no!... Bene inteso!... Certamente!...» tutti approvarono. La conversazione divenne generale. «Volete venire a fumare una sigaretta?...» propose ad un punto il padrone di casa.

Un salotto turco era destinato al fumo: alle mura, trofei di pipe; sui tavolini, scatole di sigari, scatolini di sigarette, recipienti di tabacco per tutti i gusti. La Vanieri accese una sigaretta continuando ad assicurare la riuscita morale e materiale dell'impresa. Nessuno ne dubitava, del resto. Stabilito che si sarebbero rivisti fra sette giorni, l'on. Buci s'alzò per andarsene. «Vengo anch'io... ed anch'io...»

Lo stesso principe chiese un momento di tempo, volendo uscire insieme con i suoi invitati. Durante la sua breve assenza, la Parisina ne tessé l'elogio: «Un giovane d'avvenire, con un nome così bello, e con tanti quattrini più belli del nome!...». Egli tornò portando un gran cartoccio di dolci e un fascio di fiori per lei: «Ma tanti! No, è troppo... Grazie!... Le orecchie v'hanno zufolato?... Parlavamo anche di voi!...».

Per via, la conversazione continuò; la comitiva aggruppavasi diversamente secondo che qualcuno parlava più forte e richiamava l'attenzione dei più lontani.

La Vanieri, a braccio del principe, il quale portava il cartoccio dei dolci, lo costringeva ogni tratto a fermarsi, per volgersi indietro, per dire qualcosa a questo o a quello, per udire ciò che dicevano gli altri. Dal tema del giornale, erano passati a quello più vasto della politica; e i deputati, Broggi e la scrittrice discutevano animatamente, lungo i marciapiedi, nella notte alta: la scrittrice specialmente precipitava i suoi giudizii sugli avvenimenti e sugli uomini; come del mondo giornalistico, dimostrava una conoscenza minuta, intima, dell'ambiente parlamentare e governativo, diceva cose ardite e spietate, o comiche e mordenti, eccessiva in tutto, nella critica ed anche nell'ammirazione: «Quel Milesio, che forza, che polso, che fibra; un leone, no? Guardatelo in faccia, se non ha la faccia leonina, come Garibaldi; lo sguardo tagliente come d'acciaro!...». E Ranaldi che le stava vicino dall'altro lato, ammirava in lei, quella bella natura vivace ed esuberante, quell'ingegno versatile, quella larga esperienza. A piazza Venezia, Beneventi e Vietri fecero per congedarsi; ella li costrinse a proseguire fino a mezzo il Corso: lasciato il braccio del principe, preso quello di Vietri, incominciò a parlare di letteratura e di poesia, a declamare versi francesi, a manifestare il suo culto per l'Aloux. A piazza Colonna la comitiva si sciolse; restarono insieme la Vanieri, il principe, l'on. Buci, e Ranaldi. Il Buci abitava in via dei Pontefici, gli altri tre lo accompagnarono. Tornando indietro, videro spegnere i primi lumi: era mezzanotte; ma dinanzi all'Aragno, il principe propose:

«Chi vuole un gelato? Io ho sete...»

Ranaldi entrò per restare in loro compagnia. La Vanieri, vedendo l'on. di Francalanza divorare il gelato, esclamò:

«Adesso si vede il siciliano

«E prima, no?»

«No, prima; davvero. Ranaldi, dite voi: pare siciliano? Neppure meridionale: tanto freddo, così corretto...» E prodigò una quantità di lodi all'onorevole, per la sua scienza del mondo, per la sua intelligenza: il principe se le prendeva.

Usciti dal caffè, ella dichiarò che adesso andava a casa. Stava alle Quattro Fontane, vicino a casa di Ranaldi. Allora il principe, lasciandola in buona compagnia, si congedò per andarsene al Circolo della caccia.

Il giovane era lieto ed impacciato ad un tempo, di trovarsi da solo a sola con la Vanieri, non sapendo bene di che parlare dopo che l'unico argomento possibile era stato esaurito in quattro ore di discussione. Ella stessa, lo cavò d'impaccio, domandandogli da quanto tempo era a Roma, che cosa aveva fatto fin . Udendo che egli non voleva più tornare al suo paese, gli dette ragione: non c'era altro che Roma per arrivar presto ed alto. «Costa, però; sapete?» Si fermò, scrollando il capo. «Costa; costa tanto che, alle volte, uno si domanda se ne vale la pena...» E senza parlare propriamente di lei ma col tono di chi ha provato le cose che narra, disse come era aspra e dura la concorrenza, tra quella folla avida d'arrivare; di quanti vinti era seminata la via; di quanta forza bisognava essere armati, per vincere. «Se è difficile agli uomini, immaginate che sarà stato per una donna!» Allora, come con un amico d'antica data, come con un congiunto, ella parlò di sé stessa, delle calunnie che l'avevano morsa, delle pene morali e fisiche che aveva dovuto patire prima d'imporsi. Il giovane l'ascoltava pieno di simpatia, di tenerezza. Ella gli dava ancora consigli: diffidate di tutto e di tutti: specialmente di chi più vi fa l'amico, di chi più sta vicino, cominciate a diffidare di me...

«Oh, signora Vanieri...»

«Sì, di me!... Adesso dico per dire; ma io che vi parlo non so se domani potrò esser costretta a combattervi, a sbarazzarmi di voi... Diffidate, aprite gli occhi, non credete: questa è una galera!... Avete visto quel Vietri, eh: il poeta, quell'anima squisita? Sarà il primo vostro nemico. Se vi potrà nuocere, anche senza guadagnare nulla, ne godrà con l'anima, per amore del male, così, per malvagità organica, per la sconfinata superbia che lo rode... Bugiardo, poi, bugiardo come una donna... Voi credete che sia amico di Aloux, che ci farà avere le corrispondenze di Aloux? Avrà seccato quel pover'uomo mandandogli i propri libri per ottenere un rigo di autografo; adesso si spaccia come amico d'Aloux... Aloux corrispondente di un giornale politico!... Non saprei darmene pace. Voi concepite questa cosa? È buffa, semplicemente, ah! ah!...

«E quel Broggi: state attento al Broggi, amico mio: io ne ho sentito di belle, a Torino, sul suo conto: quello è capace di passare sul cadavere del suo proprio fratello, se il fratello suo gli sbarra la strada. Tremendo, il Broggi; tremendo... Benvenuti ne ha da sapere qualcosa, quando furono insieme al Caffè... il giudeo, vi dico, è forse il migliore di tutti; ma giudeo, voi capite: giudeo!...»

S'era appoggiata al suo braccio, per parlargli più da vicino, quasi all'orecchio; e Ranaldi sentivasi altero d'aver conquistato d'un tratto l'amicizia di lei, stimavasi fortunato d'esser guidato da un'esperienza come la sua.

«Conosco un poco il mondo, amico mio; ho un certo fiuto... Voi siete giovane; chi sa forse se non pensate male di me, se non mi giudicate invidiosa, maldicente... No, non dico proprio questo; va bene, ma quando avrete sulle spalle cinque anni di vita romana e giornalistica, vedrete le cose come sono; la gara delle cupidigie, la lotta delle ambizioni nascoste sotto tanti nomi belli e sonori: la patria, la virtù, la moralità... E quel siculo, eh? Quel principe?... Avete mai visto una boria simile?... E quella casa? Mi pare un magazzino di tappezziere, quant'è presuntuosa!... Avete sentito le battute: niente programma troppo evidente, niente impegni compromettenti!... Quello , vi dico, ci darà da fare... Vuoto di testa, vuota come una zucca, sapete?... Ho parlato mezza dozzina di volte con lui, m'è bastato per giudicarlo. Furbo assai, quel siculo; ma vuoto come una zucca... E poi sapete: così...» mosse la sinistra come una banderuola; e si fermò a un tratto. «Io adesso sono arrivata; tante grazie, Ranaldi... E rammentatevi i miei consigli... Tante grazie; arrivederci!... Buona notte, arrivederci

 

 

 


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