Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
L'Imperio

V

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V

 

Lunghe, nervose, le tornate parlamentari di quella primavera: la vittoria clamorosa del ministero non aveva tanto fiaccato l'ardire degli avversarii quanto riaccesa la loro ira; e sempre che ne trovavano il destro lo assalivano, lo molestavano, ordinavano il suo danno. Milesio, invece di rabbonirli, pareva si studiasse di esasperarli, lasciandoli dire, quasi non li temesse; o rispondendo breve e secco, o facendo rispondere da qualcuno dei suoi; talché l'elettricità si veniva addensando, il tono delle discussioni si inacerbiva, gli incidenti personali fioccavano. Consalvo di Francalanza, per dimostrare che il fiasco non lo aveva sgominato, anzi per sgominare egli stesso chi lo credeva mortificato e confuso, parlò, quindici giorni dopo la famosa tornata, per raccomandare certi interessi siciliani. La concione, ch'ei volle questa volta breve e succosa, passò senza infamia e senza lode; contento d'aver affermata in tal modo la propria padronanza, egli deliberò di starsene zitto, a studiare l'eloquenza degli altri. Ce n'era d'ogni genere e per tutti i gusti: dalla prolissa e cattedratica dei professori, all'impetuosa e scapigliata dei tribuni; dalla stentata e rigida dei militari, alla copiosa e drammatica degli avvocati. Alcuni dei massimi uomini politici, di quelli che Consalvo credeva grandi oratori, erano particolarmente infelici: Crispi pareva sostenesse una battaglia, parlando, quasi volesse aprirsi con le mani la strozza e cavarne la sillaba ribelle, quasi cercasse l'espressione addosso alla propria persona, intorno a sé, tra le sue carte, nell'aria, pronto a ghermirla. Zanardelli era facondo, ma parlava a scatti, saltuariamente, alternando pause lunghe, troppo lunghe, durante le quali pareva non avesse più nulla da dire, con periodi interminabili, emessi così rapidamente che il senso ne sfuggiva. Bernardino Grimaldi sgolavasi come un cerretano in piazza, con accompagnamento, se non di grancassa, di pugni assestati sul banco, e Prinetti, suo vicino, rassomigliava alle sonnambule che recitano d'un fiato le filastrocche mandate a memoria. Contro due o tre la cui parola era veramente facile e chiara e nobile a un tempo, la folla degli oratori abbaiavano, miagolavano, muggivano, ansanti e sbuffanti, per dir cose che non s'intendevano o per ripetere durante un'ora una stessa idea. Ma la Camera non li ascoltava e solo di tratto in tratto, quando le loro chiacchiere, gli onorevoli riuscivano a cogliere lembi di periodi e pezzi di frasi: ai più noiosi, contendevano la parola con esclamazioni e rumori, e l'Uzeda era tra i primi a pestare i piedi, a far baccano, per vendicarsi, per sfogare l'irrequietezza che lo tormentava, nelle tornate monotone e interminabili. Studiavasi di far l'inglese, d'essere freddo e composto come un diplomatico; ma i suoi nervi di giovane e di siciliano scattavano. Li avrebbe domati, si sarebbe sentita la forza di domarli se fosse stato sul banco dei ministri; aspettando d'arrivarci si strofinava ad esso, andava a chiacchierare con Mazzarini, col Capo del governo, o saliva su dal Presidente, dal bonaccione Giuanin, col quale era entrato subito in dimestichezza. Verso le cinque lasciava l'aula per salire alla tribuna della stampa a trovare i redattori della Cronaca. Ranaldi non mancava mai. Prima d'entrare al giornale il giovane aveva creduto che la nuova occupazione non lo avrebbe distolto dallo studio, sicuro di dividere così bene la propria giornata da trovare tempo per tutto: cominciate le pubblicazioni, s'era sentito afferrare e travolgere come da un ingranaggio; l'ufficio, la tipografia e la Camera divennero il suo domicilio, il giornale accaparrò tutti i suoi pensieri. A prendere esempio da qualche compagno avrebbe potuto buttar giù i suoi articoli tra un sigaro e l'altro, venire il pomeriggio a chiacchierare nella sala di redazione, dare una capatina a Montecitorio; ma egli metteva molto amor proprio nel lavorar del suo meglio. Quel paio di centinaia di lire che gli davano ogni mese, il primo denaro guadagnato, gli parevano una gran somma; erano per lui, con l'assegno della famiglia, la ricchezza; gli sarebbe parso di non meritarle, di scroccarle quasi se non avesse compito con tutto zelo l'ufficio suo. Poi, egli s'affezionava a quel foglio che aveva tenuto a battesimo, gli pareva quasi d'averlo creato lui solo, sentiva come un dovere di lavorare alla sua fortuna. A poco a poco, senza obbligo, per amore, era arrivato a far solo più che tutti gli altri non facevano insieme. Egli doveva, oltre che scrivere un certo numero d'articoli, aiutare il Broggi nella compilazione; ma il Broggi, o per poca attitudine, o per poca voglia, lasciava fare tutto a lui. I primi numeri erano usciti zeppi d'errori di stampa; egli prese l'impegno di correggere le tre pagine da cima a fondo. Dalle otto della mattina a mezzogiorno, ora dell'uscita del giornale, non aveva un momento di riposo; dopo colazione, andava alla Camera; la sera di nuovo in ufficio, a scrivere, a sollecitare gli altri, a preparare il numero del domani. Amava il giornale quasi come una persona; lo rileggeva, dopo stampato, quasi non ne sapesse a memoria il contenuto, con un piacere nuovo, con l'orgogliosa compiacenza dell'autore per la creazione del proprio ingegno. E se la parte materiale del suo lavoro era ingrata e pesante, egli trovava un compenso nell'altezza e nella generosità dello scopo: la rigenerazione politica e morale del suo Paese, quasi una seconda creazione della Patria. Infatti, egli non si contentava, nei suoi articoli, d'almanaccare intorno alle combinazioni parlamentari, non si rivolgeva ai politicanti di professione, perché credeva che prima dei politicanti bisognasse persuadere il popolo, che non la coscienza dei deputati, ma quella dei cittadini fosse da rinnovare. E nella predicazione metteva un ardor di neofita, una fede così persuasiva, che la riuscita politica del giornale era in gran parte dovuta ai suoi scritti. L'on. di Francalanza non gli lesinava le lodi, gli dimostrava molta simpatia, gli scriveva bigliettini dal suo stallo di deputato, per riferirgli il dietroscena, le notizie circolanti pei corridoi, gli umori dei capiparte, ma più spesso andava a parlargli all'orecchio, su nella tribuna, guardandosi dagli altri giornalisti, prudentemente. Giacché egli non era molto indulgente per gli avversarii, anche i più rispettati, li accusava di malafede, li credeva capaci d'ogni più nera azione. Quella grande e nobile cosa, la formazione d'un partito nazionale, che non avesse altro scopo se non il bene del Paese, era avversata dai duumviri, da Grimaldi perché non ci vedevano altro che l'interesse di Milesio, mal sicuro della Sinistra, e l'ambizione di Griglia e di tutta la Destra, disperata per non poter agguantare altrimenti il potere! Costoro misuravano gli altri alla propria stregua! Se Milesio li avesse chiamati al ministero, si sarebbero subito ricreduti!... E l'Uzeda, oltre che riferire impressioni e notizie al giovane, gli portava spesso brevi note, commenti ai discorsi, previsioni parlamentari da pubblicare tra le ultime notizie della Cronaca: negli scritti, l'onorevole era un altro, non solamente non offendeva gli avversarii, ma li lodava, li trattava con le molle d'oro, come pecorelle smarrite, come figliuoli prodighi, più cari degli altri. Ranaldi che non si occupava mai delle persone ma delle idee, approvava il contenuto di quelle note; il suo imbarazzo era un altro, per la forma. L'on. di Francalanza, con la parola così facile e sino a un certo punto felice, non sapeva scrivere un periodo che si reggesse bene in gambe, usava una sintassi talmente imbrogliata e sconosceva talmente la punteggiatura, che il giovane non poteva lasciare passare quelle scritture senza ritoccarle e, alle volte, rifarle da cima a fondo. Da principio, non aveva saputo, se dovergliene chiedere licenza, oppure se correggere senz'altro; s'era appreso a quest'ultimo partito, perché, quantunque il principe gli dimostrasse molta confidenza, egli vergognavasi di fargli apertamente da maestro. L'amor proprio dell'autore se n'era punto. «Avete mutato qualche parola... avete fatto bene...» gli diceva; ma, dandogli altre note, lo pregava di restituirgli il manoscritto «se non vi piace...».

«Ma no!» protestava Ranaldi. «Nient'affatto! Soltanto qualche espressione... Questa frase, per esempio, potrebbe essere più chiara, basterà mutare una parola o due, mettere qualche virgola...»

«Fate, fate pure...»

Si sentiva tuttavia che le correzioni gli dispiacevano. Verso la fine di giugno, quando l'Opposizione, non trovando altro mezzo di combattere il ministero, riunì i suoi sforzi per contrastare la proposta chiusura dei lavori parlamentari, Montecitorio fu di nuovo invaso dalla folla curiosa d'assistere all'ultima battaglia. L'aula aveva la sua leggera e fresca veste estiva; buon numero di onorevoli portavano abiti chiari, due o tre erano tutti candidi come colombi; alcuni avevano smesso i panciotti; quasi tutti erano provvisti di ventagli o se ne foggiavano coi giornali, con le stampe ufficiali. Consalvo portava ancora una palandrana nera, di stoffa più tenue, ma severamente abbottonata, e non si faceva vento, quantunque sudasse. Intanto che un oratore di Destra vociferava, accusando la Svizzera di proteggere i contrabbandi, egli dava un'occhiata alla sua posta. Dal collegio gli scrivevano una quantità di persone e di uffici: egli guardava le buste e le metteva da parte; ne aprì e ne scorse due o tre soltanto. Poi sfogliò i giornali siciliani; dacché era a Roma, tanto lontano, tant'alto, le notizie della vita di laggiù lo facevano ridere di compassione per la loro piccineria, di compiacenza per la sua propria importanza. Poi stracciò le fascette dei ponderosi fogli romani e milanesi e lesse gli articoli politici: ferveva la battaglia nella stampa come a Montecitorio; i più miti giornali d'opposizione chiedevano la testa di Luzzi, del ministro della pubblica istruzione; gli altri denunziavano con parole di fuoco la doppiezza, l'immoralità di Milesio. Il Dibattimento, rispondendo alla Cronaca, diceva che l'opera dei suoi ispiratori era più immorale di tutte le altre, poiché legittimava le confusioni, le transazioni, i connubii indegni col pretesto d'una "coscienza nuova"; della quale avevano forse bisogno "i capitani di ventura, i servitori di tutti i padroni" oppure "gli imberbi ambiziosi nati appena ieri alla vita pubblica". Consalvo sorrise: l'imberbe ambizioso era lui! Sorrideva, non si sdegnava dei due aggettivi perché gioventù ed ambizione erano, pel momento, i suoi maggiori titoli. Messo da parte il Dibattimento e continuando lo spoglio, ei vide un giornale che non soleva ricevere: La Patria, di Torino. Apertolo lesse in prima pagina, al primo posto, sotto il titolo: Profili parlamentari, il suo nome: Consalvo Uzeda. Corse alla firma: era una semplice D, la sigla della Vanieri. Allora divorò l'articolo: cominciava ancor esso: "Giovane, giovanissimo, uno dei più giovani d'anni e di cuore, tra quegli abitanti di Montecitorio che sembrano nati vecchi tutti quanti"; seguiva la lode della nobiltà, di quell'alta stirpe degli Uzeda che avevano sparso il loro sangue "purpureo fiore aragonese" difendendo la croce cristiana sui campi iberici e sui lidi barbareschi, dall'Alcantara a Calatrava; e poi era venuta in Italia, in Sicilia, quando l'isola gemeva sotto gli Anjou. "Il cronista non sa la storia; ma se grande, troppo grande è l'ignoranza sua, gli rammenta che gli Aragonesi non si imposero con la forza bruta dell'armi ai fieri isolani..." ciò per dire che "se Massimo Taparelli D'Azeglio, dopo aver tanto gridato: Fuori lo straniero, fu preso dal dubbio d'esser egli straniero, il principe di Francalanza era esente da simile scrupolo". E questo principe, spagnolo d'origine, italiano di nascita, era inglese di costume: "se il cronista sapesse la psicologia - ma non la sa, come non sa la storia, come non sa tante, troppe altre cose - egli troverebbe nel giovane deputato il soggetto d'uno studio sul cosmopolitismo dell'anima contemporanea". Consalvo traeva più rapido il respiro, come avanzava nella lettura, come leggeva ch'egli era un self-made-man; giacché "questo gran signore che avrebbe potuto godersi le sue rendite, girando il mondo, senza far niente" aveva capito una cosa, "una cosa molto semplice, ma eziandio molto difficile; che egli aveva dei doveri...". Allora lo scrittore domandava: "Che è quest'odio da cui nobili e ricchi sono perseguitati?". E rispondeva: "È la ribellione contro la fortuna immeritata. La nobiltà e la ricchezza che uno acquista con l'opera propria nessuno le odia, perché tutti le sperano...". Perciò il dovere di chi si trova possessore di beni non guadagnati direttamente ma avuti dalla nascita, era quello di guadagnarseli indirettamente, di meritarseli. "Questo dovere Consalvo Uzeda ha capito, e dal momento che ha sentito qual è il dover suo s'è messo all'opera, con la perseverante serietà degli hidalghi di Castiglia. Io conosco pochi uomini che abbiano una coltura tanto seria e al tempo stesso tanto brillante: questa cultura il principe di Francalanza l'ha acquistata da solo, perché ha voluto acquistarla: c'è dell'Alfieri in questo giovane patrizio che lasciati i suoi cavalli nelle scuderie, gli amici nei circoli e le dame nei salotti, s'era messo un bel giorno a studiare il diritto pubblico, la storia politica e la scienza dell'amministrazione. In meno d'un anno di vita parlamentare egli si è rivelato. Diciamo la verità, il suo primo discorso alla Camera, dispiacque. Dispiacque non già per sé stesso, ma pel momento in cui fu pronunziato. Nuovo ancora a Montecitorio egli prese la parola in una quistione politica: bell'audacia di giovane che però urtò i nervi ai vecchi. Il Francalanza non si sgomentò: quell'esordiente fu visto resistere alla tempesta come un oratore che avesse vent'anni di tribuna. E subito dopo tornò alla carica; ma questa volta scelse l'argomento: il lavoro dei fanciulli nelle miniere sicule. Dice chi se ne intende che questo discorso, breve, conciso, succoso, è un vero modello d'eloquenza pratica: qualche altro avrebbe fatto della rettorica: il Francalanza ha esposto delle cifre, ha citato dei rapporti di medici, ha detto ciò che ha visto egli stesso: eloquenza di cose, non di parole. Il cronista che lo udiva sentiva stringersi il cuore; ma egli confessava che alla tristezza ed alla pietà per l'atroce destino delle infelici creature penanti nella zolfara nocque lo stupore e l'ammirazione per quel gran signore che parlava dinanzi a qualche centinaio d'oratori di professione, con una sicurezza, una tranquillità, una padronanza, un'efficacia veramente rare; per quel ricco patrizio che faceva schietta professione di democrazia e di socialismo, di vera democrazia e di socialismo santo. L'on. di Francalanza ha una gran forza: la volontà. A Montecitorio è venuto non per la vanità della medaglina come tanti altri. Se lassù facessero ogni giorno la chiama, egli non avrebbe neppure un giorno d'assenza, come dicevamo a scuola. Non ha neppure un giorno d'assenza nel suo ufficio. Quando la Camera è in vacanza, egli se ne va a studiare nella biblioteca, a discutere degli interessi del Paese coi pochi colleghi presenti a Roma. Un altro luogo dove lo troverete è l'ufficio della Cronaca, del nuovo grande giornale romano. E credo d'aver sentito dire che certi trafiletti politici, scritti in uno stile piano semplice e chiaro concordano in modo evidente con le opinioni espresse a voce dal giovane signore. Il quale lavorando come un impiegato, voglio dire con la pazienza, l'assiduità, la continuità d'un uomo che ha un orario da osservare, un cómpito da fornire, un avanzamento da guadagnarsi, non avrebbe tempomodo e forse neppur voglia di far vita di società, se dalla società non fosse desiderato e attirato con quella dolce violenza alla quale è tanto difficile resistere. Vi sono tre o quattro case, a Roma, tra quelle di più difficile accesso, che Consalvo Uzeda non può esimersi di frequentare. Perché un'altra gran forza, in verità, egli possiede, e la sua riuscita è immancabile per un'altra ragione, che parrà meno ragionevole, ma è forse, credete a me, più grande: la simpatia".

«Bene! Perdio! Bene!...» a lettura finita, egli quasi pronunziava quelle parole, quasi batteva le mani, quasi piangeva, di gioia, di felicità. Con gli occhi inumiditi dalla commozione, cose e persone tutt'intorno gli apparivano incerte, velate, tremanti: udiva le parole del ministro del commercio, levato dietro il banco del governo, senza comprendere. A un tratto, una voce, accanto a lui, disse, timidamente:

«Scusi, collega... se ha finito, permette un momento?...»

E un deputato, seduto alla sua sinistra, un uomo sulla cinquantina, forte, con larga faccia e la fronte spaziosa e incorniciata da barba e da capelli sale e pepe, additava la Patria. Consalvo porse il foglio, con premura cortese, rispondendo:

«Prego, anzi...»

Voleva darla a leggere a tutti, presentarla al Presidente perché comunicasse l'articolo alla Camera intera. Ma il suo vicino guardò appena il titolo del profilo parlamentare e passò alla seconda pagina.

Consalvo che aveva visto quel posto sempre vuoto, non rammentava più quale deputato l'occupasse; esaminava però curiosamente la figura del collega, cercava di sommare coll'occhio le medagline che gli pendevano dalla catenella. Erano molte, un mucchio, più di mezza dozzina certamente: il collega doveva essere uno dei più anziani, forse rammentava il Parlamento subalpino; e l'anzianità spiegava quel modo d'attaccar discorso con chi non conosceva. O non piuttosto la poca finezza della educazione? Dall'abito, semplice anzi grossolano, dalla camicia senza polsini visibili, e col solino rovesciato che lasciava nudo il collo rugoso e venoso, pareva un possidente di campagna, un uomo molto alla buona. Però il mucchio delle medaglie incuteva rispetto a Consalvo; forse il collega era uno di quei piemontesi all'antica, come Sella, che sotto l'apparenza modesta e bonacciona nascondevano le più sode qualità dell'ingegno.

«Guarda un po', Francalanza: la contessa ti saluta...» Baldo Guidobaldi, dal banco superiore, chiamava intanto l'Uzeda, additandogli le tribune della presidenza, di dove una dama con l'occhialino faceva cenni col capo: era la contessa, con la figliuola. Consalvo si levò, inchinandosi ripetutamente; poi, volto al conte, accennò con l'occhio il vicino dalle medaglie, come per domandargli chi era. Guidobaldi scosse una spalla per rispondere che non lo conosceva. Frattanto, finito di scorrere la Patria l'onorevole la ripiegava accuratamente:

«Mille grazie, collega... Pare dunque che sono arrivato un po' tardi... se si voterà la chiusura

«Un po' tardi, veramente

«Non è mia colpa. Tanti affari, privati e pubblici, che m'ero perfino dimesso. I colleghi, bontà loro, vollero accordarmi un congedo...»

Era veramente piemontese. Egli narrò gli affari suoi, quelli del suo collegio e del suo municipio, perché pareva che fosse anche sindaco; poi, toccando della situazione politica, disse che l'opposizione s'affannava invano, come già sapendo di parlare con un ministeriale. Dopo essere stato un poco a udirlo, per ingraziarselo, Consalvo si levò, dicendogli:

«Permetta collega: vado a salutare le signore...»

Allora l'altro fece un inchino, affrettato e confuso, come ne fanno dinanzi alle dame le persone non avvezze alla loro compagnia. Ma Consalvo sceso nell'aula, dove, nell'imminenza della votazione, gli onorevoli andavano e venivano, s'indugiava tra i crocchi delle conoscenze, con la Patria in mano, che alcuni gli toglievano confidenzialmente, e poi, scorto il titolo del primo articolo, scorrevano, sorridendo e scotendo il capo, per approvare, per rallegrarsi.

«Quella buona Vanieri... Troppo buona, troppo indulgente...»

«Giusta!... Giusta, soltanto!...»

Però, accorgendosi che i sorrisi dei lettori non erano tanto di rallegramento quanto di sottile canzonatura per quelle lodi che la loro invidia doveva giudicare esagerate, e compre, Consalvo insisté nello scusarsene: sotto il banco della presidenza, mentre l'on. Bandi leggeva l'articolo, egli commentava:

«Queste donne!... Destituite del senso della misura!... Eh? Par quasi che mi prenda in giro

Lo squillo del campanello presidenziale e la voce del Giuanin fecero rivoltare tutti quanti a un tratto:

«Vadano ai loro posti! Ha facoltà di parlare l'on. Aguglia

Ripreso il suo giornale, Consalvo salì alle tribune.

Remigia, mentre le dame erano tutte intente allo spettacolo, volse il capo quasi aspettasse qualcuno. E la contessa, avvertita da lei, esclamò:

«Francalanza, che bravo!... Sentite, venite un po' qui: Ci capite nulla? [*]che fanno? Che dicono?... Quando voterete

«Il più tardi possibile... Per non far andar via loro signore...»

«Oh, oh!... Ma noi vi piantiamo lo stesso, se non fate presto!...»

«Allora corro da Biancheri...»

«State fermo, siate serio...» Voltasi allora alla dama che stava alla sua destra, presentò: «Paola, il principe di Francalanza... Donna Paola Rodenengo...» La signora rivoltò il capo verso lui, abbassando graziosamente le ciglia, a modo di saluto; e Consalvo rimase. Come mezz'ora prima, quasi gli scappava di bocca un altro "perdio!" tale meraviglia era la faccia di quella donna. Egli non aveva mai visto nulla di simile. Una bellezza perfetta, assoluta, sovrana; una di quelle bellezze lampanti, abbaglianti come un principio di verità, meno discutibili d'un assioma, così grandi che non sembrano umane, tant'alte, miracolose e inarrivabili che il cuore degli uomini ne resta quasi piagato. Bionda di capelli, d'un biondo pastoso e dolce di miele; e pallida di viso, con occhi neri e nere ciglia che parevano un tocco di sfumino sopra un pastello; e pallida d'un pallore che non era malattia o difetto di vitalità, ma quasi una commozione assidua, incessante, quasi una pietà inguaribile. Consalvo ne era sbalordito a segno di perdere la padronanza di sé. Dacché stava a Roma, egli non aveva toccato una donna con un dito. Da molto tempo prima, dal giorno che s'era proposto di mutar vita, le donne, già sua principale occupazione e delizia, eran diventate l'ultimo dei suoi pensieri; ne aveva cercate alcune, antiche amiche o mercenarie, a certi giorni, per igiene; e dal tanto dominio abituato a esercitare sopra sé stesso, dal tanto fervore della sua nuova ambizione, la continenza gli era divenuta insolitamente agevole e abituale. Ma anche quando aveva molto amato, l'amor suo non era mai stato turbamento dell'anima e bisogno d'affetto; l'elegante perversione della compagnia tra la quale viveva, l'abitudine feudale di considerar tutto, a cominciar dall'amore, come merce che si compra e si vende, la facilità con la quale, principe, ricco, giovane, non brutto, egli era riuscito con le donne che non si davano per quattrini, la stessa mancanza d'educazione del senso estetico, laggiù in Sicilia, tra una gente imbruttita dalle continue mescolanze di razze, tutte queste cause avevano fatto dei suoi amori altrettanti esercizii muscolari, semplici spese di forza nervosa. Ora, dinanzi a quella donna, egli provava qualcosa di nuovo, di strano, quasi lo sgomento dei sogni, quando la coscienza si sente invasa, sbandita da un'altra coscienza, ignota, difforme. Un momento, dimenticò d'essere a Montecitorio, nella tribuna della presidenza; non seppe più dove fosse, non comprese ciò che gli dicevano; poi tornò in sé, rispose alla contessa che s'ostinava a voler comprendere ciò che accadeva nell'aula:

«Sì contessa; voteremo la chiusura... Non sente? Non sente?...»

L'Aguglia, riassumendo i lavori parlamentari di quella sessione che il ministero voleva chiudere "per sottrarsi ai suoi giudici" dimostrava come un tempo prezioso fosse stato sprecato in chiacchiere inutili, come nessuna delle grandi leggi pomposamente annunziate fosse arrivata alla discussione. «Per colpa vostra!...» interrompevano dai banchi dei ministeriali; e l'oratore si riscaldava, rimbeccava l'accusa, dichiaravasi pronto a restare al suo posto fino in agosto - «uh! uh!» i ministeriali vociferavano più forte, pur di non dover rispondere ai suoi elettori, quando gli avrebbero domandato: «Che cosa avete fatto?». «Abbiamo dato tre voti di fiducia ai vostri governanti!» Il baccano cresceva, il Presidente scoteva energicamente il campanello; ma Consalvo non badava più allo spettacolo, per udire donna Paola. La dama parlava con voce piana e dolce, senza accento notevole; e diceva:

«Tutti gli anni, in questa stagione, s'odono le stesse cose. L'opposizione assicura che non s'è fatto nulla; i ministeriali che hanno salvato la patria. La verità mi pare che sia nel mezzo...»

«Ah, come dice benerispose egli. «E perché non dev'esser permesso che la sua voce, la voce del buon senso, s'oda in ogni angolo di quest'aula, per ricondurre gli animi accecati dalla passione di parte al sentimento di giustizia, di equità, di prudenza

«Ve l'avevo detto, nehdisse a sua volta la contessa, torcendo il collo per guardare Consalvo. «Ve l'avevo detto, che la mia amica è forte nel diritto costituzionale?...»

Donna Paola si mise a ridere. Remigia stessa, che non aveva ancor proferito parola, esclamò con tono di indulgente rimprovero che non riesciva a nascondere il sorriso provocato dallo sproposito: «Oh, mamma!...» mentre Consalvo rideva rumorosamente: «Ah! Ah! Ah! Bellissimo, contessa!... Il diritto costituzionale!...». Una specie di sordo grugnito lo fece tacere: il signore cogli scopettoni che accompagnava le altre dame esprimeva con quel suono e con uno sguardo severo il suo malcontento, anzi il suo biasimo per un contegno sconveniente a un rappresentante della nazione, il cui posto, invece che nella tribuna dove disturbava le persone serie venute a udire i serii discorsi, era giù nell'aula. E l'aula era in quel momento silenziosa e raccolta, perché parlava Vitrelli; anche lui contro il governo, ma con più garbo, con maggiore accortezza: «Il governo, cui spettava la direzione dei lavori parlamentari, ha compito l'ufficio suo in modo tale da metter la Camera in questo bivio: o sciogliersi oggi, senza poter menar troppo vanto d'aver proficuamente lavorato; oppure di intraprendere la discussione di leggi ponderose quando l'inclemenza della stagione terrà lontano da Roma una buona metà, non dirò di tutti i deputati, ma di quelli ordinariamente più assidui...». Gli amici dell'oratore approvarono; ma poi sorse un ministeriale, l'on. Borio, il quale cominciò: «Io domando a me stesso quale nuova teoria attribuisce al governo la direzione dei lavori parlamentari; domando a me stesso se la Camera non è stata sempre lei stessa...». Allora la Camera si mise di buon umore; ma quando, dopo avere domandato a sé stesso tante cose, l'onorevole riprese: «E ricordo a me stesso...» risa e interiezioni fecero un concerto assordante.

«Ora» avvertì donna Paola «la discussione fuorvia.» Infatti, dopo gli ultimi due discorsi, gli oratori non s'occupavano più di ciò che bisognava fare, ma dissertavano intorno al quesito: È la Camera quella che dirige i proprii lavori, oppure è il ministero? Consalvo, che si faceva vento con la Patria, rumorosamente, sperando che gli chiedessero quel giornale, diceva tratto tratto a donna Paola, che anche ella, a brevi cenni del capo, richiamava l'attenzione di lui:

«Senta!... Senta!... dov'è più l'argomento?...» «Sempre così... Ma è del resto naturale... Una parola tira l'altra... Le idee s'incatenano...» Ella pronunziava quelle frasi, rapidamente, per non perdere una parola dei discorsi, e non rispose neppure, quando Consalvo le disse: «Come si vede che è assidua a Montecitorio!» Allora, poiché ella non gli dava molto retta; poiché la contessa, mortificata dalle risa che avevano accolto la sua sciocchezza, intontita dalla gravità delle cose che dicevano i deputati, se ne stava zitta, col viso rosso come un peperone, facendosi vento, egli s'appressò a Remigia. La contessina occupava il posto d'angolo, e col gomito appoggiato alla base della colonna, si reggeva la testa sulla mano guantata.

«E lei, si diverte

«Sì...»

«È molto lusinghiero per noi, tutte queste gentili spettatrici, così attente, così indulgenti...» Egli si sentiva in vena di galanteria. Dagli abiti, da tutte le persone di quelle dame sprigionavansi profumi eccitanti; il ricordo dell'articolo della Vanieri, delle lodi più eccitanti dei profumi, gli mettevano addosso una smania insolita, un bisogno di muoversi, di parlare. Il turbamento morale prodotto dalla vista di donna Paola era passato del tutto, ora che aveva parlato con lei; restava un'esuberanza di vitalità, un'energia stimolata che chiedeva d'operare. «E la cugina? A casa? I miei complimenti pel suo cappellino. Elegantissimo... di gran gusto... le sta d'incanto...»

Neppur ella rispose, aveva un viso più serio del consueto, quasi severo. E Consalvo, come se non l'avesse ancor vista, giudicava che, senza paragone meno bella di donna Paola, anzi neppur bella nel senso stretto della parola, la contessina poteva piacere molto; che gli piaceva veramente. La vedeva un po' dall'alto e di scorcio; vedeva un'orecchia piccola e accesa come vampa, una guancia morbida, saporosa che dava imagine d'un'albicocca polputa, come le albicocche tinta d'un giallo rosato e coperta di una specie di soave pruina; vedeva il seno modesto gonfiarsi ritmicamente, distendere il fresco tessuto della veste chiara; e a quella vista mani e labbra gli prudevano. Per distrarsi, riprese a soffiarsi con la Patria; ma, come Remigia lasciava il suo ventaglio chiuso sulla sponda della tribuna, egli disse:

«Contessina, permette

Ella stessa glielo porse. Allora, vide il giornale, vide il nome d'Uzeda stampato a grosse lettere, e disse:

«Parlano di lei?»

Egli esclamò, come stupito e confuso:

«Oh, niente... due parole... l'ho ricevuto or ora...»

«Mi faccia vedere

Un sussurro, uno zittio lungo correva in quel punto da un capo all'altro della Camera: sorgeva il Presidente del Consiglio. E alle prime parole di Sua Eccellenza, pronunziate con voce piana e bassa in mezzo a un silenzio profondo, scoppiò una specie di tumulto.

«Che è?... Come?... Che ha detto?... Che hanno?...»

«Il ministero non vuole nient'affatto chiudere la Camera: presenta il disegno di legge sulla riforma del Senato e chiede per esso l'urgenza

Così aveva detto Milesio, e Consalvo quasi credeva d'aver udito male, e donna Paola s'era rivolta a lui, come per chiedergli la spiegazione di quell'annunzio, che intanto continuava a provocare da ogni parte della Camera esclamazioni di protesta, apostrofi irose, un diavolio.

«C'è novità per aria...» disse Consalvo «l'avevo bene previsto...»

«E che?... E come?...» continuava a domandare la contessa, mentre il signore con gli scopettoni, smesso il cipiglio, tendeva l'orecchio dalla parte del deputato per scoprir qualcosa. Donna Paola, volta all'amica:

«Bice» disse «se l'onorevole resta qui per noi...»

«Per l'amor di Dio!...» protestò la contessa Bice «torni al suo posto... Vada a sentire che accade...»

Così egli stava per fare, appena scoppiata la bomba, senza aspettar l'invito; ma se la curiosità politica lo chiamava giù nell'aula, un'altra curiosità lo tratteneva nella tribuna. Remigia, spiegato il giornale sul velluto verde del davanzale, raccolte le mani in grembo, aveva cominciato a leggere l'articolo della Vanieri; e il ritmo del suo respiro acceleravasi, le guance s'infiammavano, le braccia stringevansi al petto, quasi a comprimerlo, a reprimere il turbamento; e con le labbra un po' dischiuse, sorda al frastuono dell'aula, a ciò che dicevano vicino a lei, non pareva che leggesse, pareva quasi che bevesse le lodi, che se ne inebriasse.

«Allora, con permesso... Vado e torno... torno subito... Con permesso...»

Egli non sorrideva, rideva apertamente, giù per le scale, sul muso delle persone: "!... !... La piccina!... E che diamine!... Innamorata!... S'è innamorata!...". Era chiaro: innamorata! Simpatico, le era riuscito simpatico: questo l'aveva capito; non ci voleva molto a capirlo; ma commuoversi, turbarsi così alla lettura della biografia, come se le lodi le andassero diritte al cuore, come se avessero parlato di lei!... "E che diamine!... Innamorata!... Lo vedrebbe un cieco!..." ripeteva fra sé, traversando i corridoi, silenziosi e spopolati; e a un tratto, scorto accanto all'uscio della sala di lettura Mazzarini parlare con Grimaldi, piano, a faccia a faccia, il corso delle sue idee deviò bruscamente: "Ho capito!". Grimaldi doveva avere accettato le offerte del governo, il rimpasto era stabilito, perciò il ministero dichiarava di non voler chiudere la Camera, d'esser pronto alle nuove battaglie.

Infatti, rientrato nell'aula, dove i colleghi lasciavano rumorosamente i loro posti, perché la discussione era stata sospesa, Consalvo s'avvicinò a Mazzarini per dirgli all'orecchio:

«Ci casca? È cascato

Mazzarini sorrideva, e il suo sorriso, di gioia e di trionfo, per sé ed i suoi, di scherno e di pietà per gli avversarii, stonava con le sue parole severe:

«No, principe; nessuno è cascato... S'è tolto di mezzo un malinteso, un equivoco... S'è visto che c'era accordo nelle idee, nel programma...»

Ma il baccano, ora che il Presidente aveva lasciato il suo posto, cresceva fuor di misura; gli onorevoli, raggruppati qua e , amici ed avversarii, gridavano; dalla tribuna della stampa i giornalisti li apostrofavano; oppure, volte le spalle all'aula, vociferavano tra loro, il pubblico rumoreggiava anch'esso, non comprendendo.

«Alla gogna!... In nome de principii!... Viva noi!... Le onorate fatiche!... Alla luce del sole!... Zitti voialtri!... Chi latra?... Andiamo via!... Ah! ah! ah! ah!».

Pareva che i più inferociti stessero per menar le mani, le intonazioni ironiche provocavano acri risposte, alcuni ridevano sgangheratamente, altri cercavano di metter pace; una dozzina, rimasti ai loro posti, soli, guardavano intorno, come sapendola più lunga degli altri, come filosofando. Consalvo vide che il suo vicino, il Piemontese con molte medagline, era fra questi; e quando, alla ripresa della tornata, egli risalì al suo posto, dimenticando le signore, il collega gli si fece d'appresso e gli disse, con aria di doloroso stupore:

«Mi dica dunque, collega... il ministero è battuto

«Che?... Come?...» fece Consalvo guardandolo bene in viso.

«Se cede, se si disdice...»

"Ma chi è lei?..." stava per rispondergli, quasi temendo d'esser canzonato.

Chi diamine era, come si chiamava quell'imbecille che non capiva, che capiva al rovescio, con otto legislature? Chi diamine l'aveva mandato alla Camera, che ci veniva a fare? Consalvo non si dava pace d'averlo preso per un pezzo grosso, per un esperto parlamentare; poi, vedendo l'aria attonita dell'onorevole, il riso lo disarmò:

«Ma no, ma no; al contrario: sfida l'opposizione, l'ha sgominata, capisce? C'è un accordo col gruppo degli agrarii, Grimaldi entra nel ministero...» «Ah, capisco... capisco... Bene, collega; bene...»

Frattanto, il Presidente leggeva le proposte di deliberazioni, le vagliava e ne metteva a partito una prima presentata dall'opposizione e così concepita: «La Camera, conscia dei suoi doveri, afferma il proposito di mantenere le assicurazioni date al paese». Gli oppositori emettevano i loro brevi, forti, recisi; alcuni con tono rabbioso, altri con accento di sfida, altri gridando in modo da far voltare e ridere tutta la Camera; e i no ministeriali sfilavano, più composti, più rigidi. Quando il segretario chiamò: «Colargedda», il vicino di Consalvo si levò, aggrottò un poco i sopraccigli pelosi, fece un breve gesto con la destra, come per accrescere forza e solennità alla sua dichiarazione, e proferì un chiaro e franco: «Sì».

«Collega!... Ma collega!... Che ha fatto?...»

«Come?...» rispose l'altro, rosso, confuso.

«Ma doveva dir no!...»

«Per approvare... io approvo...»

«Ma doveva dir no, respingere l'ordine del giorno... è di sfiducia, contrario al governo, non ha capito?...»

«Contrario?... Ma il Presidente... Io credevo... Ed ora come si fa?...»

L'idea d'aver votato contro il governo, mentre egli era tutto suo, lo contristava; lo sbaglio preso lo mortificava. Chiedeva consiglio al collega, pareva spaventato dall'idea di dover fare una dichiarazione, un discorso; ma come i "no" fioccavano e i "sì" divenivano più rari, e alcuni dei più accaniti oppositori lasciavano i loro posti, certi della sconfitta, e il sordo clamore del trionfo cominciava a levarsi, Consalvo, lieto della vittoria, esilarato dalla semplicità del vicino, gli disse:

«Stia di buon animo... il ministero ha vinto... Un voto di più, uno di meno!»

 

«Questa è una dichiarazione d'amore, non un profiloesclamava il Broggi rivolto alla Vanieri, nell'ufficio della Cronaca, quando, finita la seduta, Consalvo vi entrò. E i cronisti, gli amici dei redattori, tutte le persone che avevano presa l'abitudine di passare alla Cronaca un'ora, di andarvi a prendere le notizie del giorno, dicevano anch'essi la loro, attorniando, assediando la scrittrice, che vociferava più degli altri e teneva fronte a tutti:

«Sissignore! Mi l'ami; e poi?... Ch'el veda, che l'esamini se l'è ben fatt, come arte... Capiss na gott, liù!...» Aragonese o Castigliano? Bisognava decidersi!... La geografia!... La geografia!... E all'apparir di Consalvo, tutti si volsero a lui, quasi invocandone la testimonianza: «Castigliani e Aragonesi, principe?... I suoi vennero o d'Aragona o di Castiglia, è vero?» egli assentì, ridendo, con un gesto che voleva dire: "È naturale" e allora l'altra:

«Anca lu, neh? Ma indove che l'ha studiat', la geografia? L'aragones l'è castigliano, come un bavarese l'è tudesc! Il Castigliano l'è lo spagnuolo per eccellensa, per antonomasia, ghe semm?...»

E come gli altri non s'arrendevano, e Consalvo pareva sempre disposto a dar torto alla sua lodatrice, ella si volse a Ranaldi gridando: «Ranaldi, dite voi, con quella competensa scientifica che tanto vi distingue: ho ragione o no?»

«Ha ragione» rispose l'interrogato.

«Ranaldi, voi siete un giovane d'ingegno! Ranaldi, io vi amo!...»

«Uuuuh!... Che gran cuore!... Troppi in una volta!...» dissero tutt'intorno, mentre Consalvo, ridendo più degli altri, esclamava:

«E io, allora? Badi che sono geloso...»

La Vanieri lo guardò un poco negli occhi, muta, con studiato atteggiamento di passione; poi, portata una mano sul cuore e scrollando il capo:

«No, minga vera! No, l'è inutil; podi minga resister; lu l'è el me solo amor, la mia passione...» e quasi gli si buttò addosso.

Consalvo, ridendo ancora, la strinse alle braccia; ma allora ella si ritrasse; e quantunque egli continuasse a ridere, il breve contatto con quel corpo di donna, la morbidezza delle braccia, il profumo dei capelli, rinnovò ed accrebbe il suo turbamento, eccitò i suoi sensi più della compagnia delle signore.

Frattanto l'onorevole Sonnino, preso a parte Ranaldi, gli parlava del nuovo fatto politico, dell'entrata di Grimaldi nel ministero, delle nuove polemiche che la Cronaca stava per sostenere; e anche nel gruppo più numeroso e più clamoroso, sedate le risa, la conversazione s'avviò su quel tema. La Vanieri, di buon umore dopo le grida e i motteggi, spiegava la conversione della Sinistra giovane e specialmente del suo capo, la giudicava inevitabile, si stupiva anzi che non fosse avvenuta prima: «Grimaldi l'è un bon fioeu, incapace di voler male a nessuno...; non voleva altro che il portafoglio...»

Il Broggi, quasi non avesse udito la botta della quale pochi sorrisero, fece osservare a Consalvo:

«Se in aprile non si fosse lasciato andare tropp'oltre, a quest'ora la sua entrata nel ministero sarebbe più naturale, non provocherebbe troppi commenti...»

E Consalvo confermava, con un cenno del capo, mentre la Vanieri rammentava: «Ma l'an passà! l'an passà! l'an passà era tutta una cosa col Milesio!...»

Ma poiché il Broggi non riconosceva l'importanza di quell'argomento, ella insisteva ancora: nell'ottanta, sotto il gabinetto Luzio, quando Grimaldi era ministro e Milesio capitanava l'opposizione, forse che le cose non erano andate allo stesso modo? Forse che Milesio non aveva attaccato ferocemente quel Grimaldi che poi doveva tenere nel proprio ministero? Ella citava le parole degli antichi discorsi, le frasi dei giornali, le date, con una precisione di memoria alla quale i suoi compagni di redazione sapevano di potersi affidare; e a poco a poco tutti gli altri tacquero... ella sola restò a perorare. «Diciamo pure che l'è un sacrifissio sull'altar della Patria... che l'è 'l trionfo della coerenza... disomm quel che volemm... Hin tutt compagn; sono tutti gli stessi, infatti!...»

Ranaldi, dopo tre mesi che lavorava vicino a lei, l'udiva con lo stesso stupore della prima volta, quando gli s'era confidata un'ora dopo la presentazione. Morta sul nascere, la sua grande passione per la scrittrice. Egli aveva creduto che l'intimità sarebbe finita con la passione, e invece mai era stato lontano dal sospirato amore come vicino a lei. Quando ne cercava il perché, non sapeva bene quale, fra i molti possibili motivi, fosse il più potente. Non certamente il legame quasi maritale che univa da molto tempo la sua compagna di redazione a un pittore veneziano: l'ostacolo, anziché spegnere, avrebbe dovuto piuttosto attizzare le fiamme del desiderio. Forse la persuasione che quella donna non era come tutte le altre; che l'ingegno, le facoltà virili dell'ingegno, le stesse abitudini mascoline di vita, ne facevano una creatura a parte, senza esempio. Parlando e scrivendo dell'amore, ella diceva che era la cosa più importante della vita; ma se parlava o scriveva di politica, pareva che non vivesse se non di questa passione; salvo ad accendersi più tardi per l'arte o a dichiarare che fuor della fede nulla importava. Virile era l'ingegno; ma delle donne ella aveva i facili e pronti voltafaccia, l'isterica scontentezza, le sùbite accensioni seguite da freddezze dure; e se questa ambiguità del suo carattere, se l'imprevisto delle sue parole e dei suoi atti tenevano sempre desta la curiosità del giovane, egli era troppo stupito, soltanto stupito, come un naturalista dinanzi a una insolita forma della vita. La sera che ella lo aveva preso a confidente subito dopo averlo conosciuto, esprimendogli giudizii diametralmente opposti a quelli espressi dinanzi agli altri, egli non aveva saputo che cosa pensare di lei, se esserle grato dei suoi consigli o diffidare della sua sincerità. A poco a poco, frequentandola, aveva visto che era così con tutti, che si confidava a tutti, che diceva a chiunque ciò che pensava, che restava sincera nella contradizione perché i suoi pensieri mutavano ad un soffio di vento; ed allo stupore del giovane s'era unita l'ilarità, un sorriso contenuto, ma non sempre; tanto gli pareva comica quella schiettezza complicata, quella malizia ingenua, il mistero delle confidenze fatte al primo venuto, perfino l'ambiguità del linguaggio, la mescolanza del dialetto e della lingua, quell'abitudine di tradurre il vernacolo. Ora ella, lasciato Grimaldi e Milesio, ragionava degli oppositori più accaniti del governo, degli "inconciliabili" e mentre poco prima aveva denigrato gli amici, quasi lodava gli avversarii. «No, Cairoli 'l'è ona bella figura; l'è bel quel suo odio, l'è grand, l'è antico: neh, Ranaldi? Ghe saria de far un quaicoss de artistico, neh?...» E Ranaldi rammentava che un mese addietro ella aveva scritto contro di Cairoli uno di quei suoi articoli che scottavano, tanto ella sapeva cogliere il lato debole di ciascuno, svelarne le intime magagne, le piccolezze e le ridicolaggini; tanto riusciva a dar sapore all'ironia, a graffiar carezzando. E come l'on. di Francalanza anche lui riconosceva l'onestà, la sincerità del duumviro, ella gli metteva una mano sulla spalla, confidenzialmente, e gli soffiava qualcosa all'orecchio: il principe rideva, scrollava il capo, acceso in viso, poi trattenendo pel braccio la scrittrice, le diceva a sua volta, piano, nell'orecchio, qualch'altra cosa, a cui ella rispondeva esclamando, tra alte risa: «Mi credi! Bravo, poi, facendo con la mano il gesto del press'a poco: «O una robba insci!...».

A un tratto s'udì nella sala attigua un bisbiglio, un aprirsi e chiudersi d'usci, e il Broggi apparve sulla soglia...

«Principe, onorevole di Francalanza... C'è l'on. Grimaldi con l'on. Spirito, di ...»

Consalvo sorse in piedi e andò via, subitamente ricomposto. La Vanieri con la bocca ancora aperta, come nel momento dell'annunzio, guardò il poeta, guardò Ranaldi, poi disse:

«La visita di digestione

Vietri, finito di limarsi le unghie della destra, cominciava a lavorare l'altra mano; Ranaldi fece col capo un gesto d'assenso.

«Come si deve; non c'è che dire! La Cronaca trionfa! Vietri, scriviamo un inno a quattro mani

Il poeta rispose, senza guardarla, un «No» serio e grave, come se grave e seria fosse stata la proposta. Contemplandolo un momento con la stessa espressione d'irresistibile idolatria, che aveva rivolto poco prima all'Uzeda, ella esclamò:

«Amore, quanto l'è bel!...» Poi a Ranaldi: «Bene, mi vadi de . Vado a intervistare Sua Eccellensa, per l'articolo di domani.» E s'avviò; ma, prima d'infilare l'uscio, si voltò, tornò indietro: «Ranaldi, ch'el disa... ch'el senta...» E avvicinatasi al giovane, tratta di tasca una carta, gliela porse, dicendogli, con voce un poco abbassata: «L'è ona robba del noster principe... Vuole che riveda l'ortografia... Mi podi minga.»

«E la date a me?»

«Voi che ci avete la mano...Mi podi minga; c'è troppi strafalcioni...»

E Ranaldi ebbe un bel protestare: ripetendo «Fate voi, mi podi minga...» gli lasciò l'articolo sulla scrivania. "Visita di digestione" aveva detto la Vanieri; e - quantunque Grimaldi non fosse ancora ministro - il motto non era improprio, giacché alla incessante predicazione della Cronaca, all'influenza personale di Sonnino, all'azione concorde del gruppo quel risultato era dovuto. Lo riconosceva Grimaldi, venendo nell'ufficio del giornale; lo riconosceva con la sua presenza nel salotto della redazione, senza dirlo, senza neppur parlare di sé stesso. Il discorso, tra gli onorevoli e i giornalisti, dopo la tempestosa tornata, s'aggirava disinteressato, impersonale, intorno ai varii incidenti della discussione, alle disposizioni dei partiti. Grimaldi era particolarmente riservato; alle critiche di cui facevano segno l'opposizione, alle lodi prodigate al ministero, egli se ne stava zitto, con gli occhi modestamente abbassati, come una signorina dinanzi alla quale si parla di matrimonii e d'amori. Consalvo era il più loquace di tutti. Aveva provato tante impressioni piacevoli, quel giorno, che si sentiva insolitamente eccitato, disposto a ridere, a fare il chiasso, col solletico addosso. Parlava in piedi, aggirandosi pel salotto, volgendosi a Grimaldi di preferenza; per far la corte al nuovo astro sorgente, per conquistare la sua amicizia, per entrare nella sua intimità; ma si fermava anche vicino alla Vanieri, a respirare il profumo dei suoi capelli, a saziar l'occhio della vista della nuca bianca e dorata, con un prurito nelle mani e sulle labbra, con la tentazione di ricominciare a prenderla per le braccia, a parlarle nell'orecchio... Remigia di Pianori lo amava! L'amore di lei non gli serviva, perché era ben deciso di non prender moglie e con una ragazza non c'era da far nulla, a meno che ella non usasse flirtare, come le Americane... Ma se l'aveva innamorata, poteva innamorare anche altre, quella Paola la cui bellezza lo aveva tanto turbato qualche ora addietro, altre belle dame alle quali prima non aveva posto attenzione, col proposito di sopprimere le donne dalla sua vita. Ma poteva forse restare eternamente casto? Ora che col sangue riscaldato e coi nervi eccitati egli si sentiva formicolar la pelle e provava come un bisogno di rotolarsi per terra, al pari dei cani in caldo, la sola vista delle gonnelle della Vanieri gli faceva dimenticare l'impegno preso. Avere quella donna gli pareva particolarmente facile; credeva anzi che gli si offerisse, che dicesse un po' per chiasso un po' sul serio dicendogli che lo amava; e se fino a quel momento, egli non aveva pensato a trarre profitto della loro intimità, della specie di cameratismo che li univa, che li avvicinava tutti i giorni, ciò dipendeva molto dalla calma dei suoi nervi, ma anche un poco dall'idea che quella donna sopra tutte le altre fosse per lui da evitare. La loro familiarità era troppo grande, i loro rapporti troppo frequenti: mettersi con lei sarebbe stato pericoloso come, per un uomo che vive in famiglia, avere un intrigo sotto lo stesso tetto domestico. Poi, com'egli soleva occuparsi di giornalismo, ella s'occupava di politica, e per questa rivalità, per la disinvoltura che ella metteva nel giudicare gli amici e lui stesso, per l'acrimonia che l'animava contro gli avversarii, egli la considerava con una sorda diffidenza: le chiedeva consigli, le passava i suoi articoli, ma la temeva. Ora però dimenticava il timore, disarmato dal desiderio, persuaso di rendersela più amica, più devota, dicendole che l'amava, prendendola con l'amore, con l'affezione, coi baci; e già studiava il modo di restar solo con lei, quando dalla corte s'udì un fischio modulato come i tocchi di tromba dei comandi soldateschi: tata-tata-taratà. Era Zerella, il pittore, che la chiamava. Com'ella andò via, anche gli onorevoli s'alzarono.

«Beneesclamò Sonnino «andiamo a desinare

«Dove andatedomandò Consalvo, disponendosi a seguirli, a far la corte al ministro non potendo farla alla scrittrice.

«Al solito Cornelio

«Sapete che faccio? Vengo anch'io con voi.»

«O bravo

Uscirono tutti insieme, i quattro deputati col Broggi; ma questi e l'on. Ignoto si congedarono a Piazza Colonna. Grimaldi, tra Merzario e Consalvo Uzeda, entrò nel giardino del Caffè pieno a quell'ora della gente che ancora desinava e dei borghesi che, lasciato il desco familiare, venivano a prendere il gelato o il bicchierino. A una tavola appartata e vuota due seggiole inchinate coi piedi posteriori per aria e le spalliere sulla tovaglia, pareva facessero la riverenza; un cameriere biondo, domandato: «Sono in tre?» avanzò un'altra seggiola per Consalvo e cominciò ad apparecchiare per lui: gli onorevoli non s'erano ancora seduti, che un signore s'appressò a salutarli.

«Il commendatore Gorla» presentò Grimaldi. Consalvo che sperava di restar solo con l'amico Sonnino e col grand'uomo, s'aggrottò. Questo commendatore era intimo di Grimaldi: gli dava del tu, e non parlava della sua entrata nel ministero. Il discorso aggiravasi sulla roba da mangiare: egli raccomandava agli onorevoli un minestrone alla genovese; Grimaldi faceva l'elogio di quello di Milano; e Consalvo guardava una dopo l'altra le donne sedute ai tavolini tutt'intorno; sul verde scuro del giardino, le fresche vesti estive, i leggeri cappelli di paglia attiravano l'occhio: alla luce piovuta dalle lampadine del gas le carnagioni parevano tutte morbide e vellutate. Il commendatore s'era messo a sedere vicino ai deputati; una quinta seggiola fu avanzata per un giovanotto vestito elegantemente: calzoni grigi, panciotto bianco, giacchetta e cravatta nera, gardenia all'occhiello. Questo qui era Ferella, Tommaso Ferella, giornalista in voga, della nuova scuola, elegante, mondana, con pretese letterarie: al suo arrivo Consalvo, che dal principio del desinare non aveva parlato, sciolse lo scilinguagnolo. Come il giornalista era napoletano, egli lodò i vermicelli con le vongole e dichiarò di preferire lo strutto al burro.

«Ora che l'Italia è fatta, bisognerebbe unificare le cucine italiane

«Ardua impresa. Si potranno federare; se pure

E Grimaldi, messo di buon umore dal cibo, dal vino, propose di comporre una mensa nazionale, un pranzo italiano per eccellenza. Si cominciava naturalmente dai maccheroni, e su questo punto tutti erano d'accordo; poi Sonnino stava per le triglie alla livornese, mentre Grimaldi preferiva le sogliole fritte con calamaretti; e mentre gli onorevoli discutevano, masticando a due palmenti, bevendo, forbendosi la bocca con il tovagliolo, che Grimaldi teneva appeso al collo, come un gran bamboccione, altre persone appressavansi, stringevano la mano al nuovo ministro: «Il dado è tratto?... Milesio rinsavisce?... I miei rallegramenti!...». E in piedi, intorno alla tavola, aspettavano d'udire il verbo del grand'uomo.

«Stracotto con risotto... zampone di Modena con purée di spinaci...»

«Eh! Ah!... Ma che purée!... Italiano! Bisogna parlare italiano!...»

«O come si dice

E Sonnino, nella sua qualità di toscano, suggerì: «Con passato di spinaci».

«No; allora io sto per l'avvenire dei fagioli!...» Una gran risata fece rivoltar tutta la clientela del caffè dalla parte degli onorevoli. E allora la discussione s'aggirò intorno alla lingua. Grimaldi voleva si riconoscesse la necessità di accettare i neologismi e i barbarismi d'uso comune; Sonnino era purista intransigente e non lasciava parlare il collega, lo riprendeva quasi ad ogni frase; «Dal punto di vista... ho constatato... ciò mi sorprende...». Ferella, come scrittore, approvava la severità filologica dell'onorevole; ma Consalvo si mise con Grimaldi, fece una gran sfuriata contro i pedanti che volevano mummificare la lingua, rendere più grande il divario fra il vivo linguaggio del popolo e quello dei letterati. Egli diceva che, secondo Spencer, le parole sono come i gettoni: il valore di questi e il significato di quelle dipendono dalla generale convenzione; e come Sonnino scoteva il capo, egli gli dette del "mandarino" e del "bonzo". Grimaldi che trincava copiosamente, aveva gli occhi lucidi, e li fissava sul suo giovane difensore, con espressione di tenerezza grata; alle frutta, egli offerse del marsala a tutti, e ne vuotò per suo conto due bicchieri di fila. Forbendosi con la lingua i baffi, socchiudendo gli occhi beatamente, egli fece l'elogio dei vini italiani, assicurando che fra cinquantanni l'Italia sarebbe stata la prima nazione vinicola del mondo. E gli onorevoli passarono a rassegna la produzione nazionale, i tipi più accreditati, dal Piemonte alla Sicilia. Anche qui Consalvo disse la sua, approvando l'ottimismo del ministro per quel che riguardava la materia prima. L'industria, però, era timida e pigra; mancava, principalmente, lo spirito d'associazione; poi la réclame non era ancora ben conosciuta. In Sicilia, per esempio... ed egli parlò dei suoi vigneti, della difficoltà di persuadere i suoi mezzadri dell'utilità dei nuovi processi, dei nuovi meccanismi, del cumulo di ragioni per cui doveva rassegnarsi a vendere il suo vino immaturo, alle volte ancora mosto, invece di raffinarlo, di ridurlo un tipo costante.

«Il governo dovrebbe intervenire...» disse il Gorla. «Ma che cosa poteva fare il governo? Un monopolio enologico? Allora: Bacco, Tabacco e Venere, tanto per non lasciar da parte nessuno dei tre vizii - giacché fumo e prostituzione erano in mano sua...»

Con una risatina grassa Grimaldi si tolse il tovagliolo dal goletto e chiamò il conto. Quando i tre onorevoli ebbero pagato uscirono, seguiti dal commendatore, dal giornalista e da due o tre altri. Sul Corso, la comitiva andava lentamente, fermandosi ogni due passi, ingombrando il marciapiede, perché Ferella e Sonnino avevano intavolato una discussione sulla riforma della polizia dei costumi; e Ferella, che stava per la libertà delle mercenarie, si rivoltava ogni momento chiedendo l'approvazione di Grimaldi: «Avvocato!... Dite voi, avvocato... L'avvocato che ha fatto serii studii sull'argomento...». E gli altri a ridere, compreso l'interrogato, il quale all'uscita dal caffè, col piè malfermo, il viso acceso, s'era appoggiato familiarmente al braccio di Consalvo. Consalvo, superbo dell'onore, pensava adesso, udendo le interrogazioni e le risa, alla reputazione di donnaiuolo di cui godeva Grimaldi, alle satire dei giornali umoristici che lo rappresentavano sempre dietro a qualche gonnella; e l'onorevole, infatti, sbirciava le passanti, grugniva di soddisfazione sfiorando le belle donne, stringeva forte il braccio del collega per richiamare la sua attenzione sulle bellissime, esclamando, nel dialetto nativo: «Quant'è bbona chestaccà!...». Dinanzi ad Aragno altra gente salutò, s'avvicinò; ma Grimaldi pareva volesse restar solo, trascinava Consalvo e con lui i fedeli. Sonnino, che aveva da far visite, andò via a piazza Colonna, popolata d'una folla fitta, per la musica; da Ronsi e Singer Consalvo propose:

«Se prendessimo un gelato

Non c'eran posti disponibili, fuori; ma, scorto Grimaldi, alcune persone che occupavano il tavolino d'angolo, s'alzarono, offrendolo cerimoniosamente. E il grand'uomo si lasciò subito andare sopra una seggiola. Una fioraia, vestita di raso nero, senza niente in capo, con le braccia nude e grosse perle alle orecchie, venne a posare il suo cesto sul tavolino.

«Che sciccheria, staseraesclamò Grimaldi, guardandola da capo a piedi, con gli occhietti lubrici.

«E come!»

«Addò sta Ciccillo?»

Scegliendo tra i suoi fiori, ella scoteva il capo:

«Dalli con Ciccillo! Non ci sta più, né CiccilloCiuccillo...»

«Vatténne!... Statte zitta!... Addò sta? Che s'è fatto?...»

Ella gli passò un mazzolino all'occhiello, mentre l'onorevole, con le gambe allungate, la testa rovesciata, le narici aperte, la guardava dal basso in alto, cupidamente. Il commendatore rifiutò i fiori con un gesto del capo; Ferella mostrò la sua gardenia, dicendo: «Troppo tardi, cara»; Consalvo si lasciò anche lui infiorare l'occhiello, nuovamente acceso alla vista delle braccia della fioraia, che erano bianche, ben fatte, coperte d'una peluria bionda, nuovamente eccitato dal passaggio delle mercenarie, che altre volte egli non aveva neppur degnato di uno sguardo, ma che ora considerava attentamente, discutendo tra sé come finire la sua serata. Esse apparivano rapidamente dall'angolo del Corso; oppure s'avanzavano dalla piazza; e passavano a testa alta, senza guardar nessuno, battendo i tacchi, con un fruscio di gonne riscaldate. Ce n'erano di piccole e grasse, di magre ed alte, per tutti i gusti: alcune avevano le facce sciupate dalla cipria, altre infiammate dal rosso; tutte portavano vesti e cappellini ricchi e miserabili a un tempo, di fogge esagerate, sovraccarichi di svolazzi pendenti come stracci e di piume rotte e stinte. Dinanzi a quelle povere diavole, Consalvo rivedeva con gli occhi della memoria le donne che lo avevano turbato, quel giorno; la prestigiosa e quasi innaturale bellezza di donna Paola, la simpatia di Renata, la piacevolezza della Vanieri; e subitamente, senza ch'egli avesse coscienza del come fosse nata, egli accoglieva un'idea prima sempre vivamente respinta: l'idea di prender moglie, di sposare la marchesina che lo amava, o un'altra qualunque; di avere una donna sua, che lo avrebbe garentito contro i turbamenti simili a questo che ora provava, che avrebbe fatto della sua casa un centro d'attrazione, un mezzo di propaganda. E perduto in questo pensiero, non ascoltava più quel che dicevano intorno a lui, la storia della fioraia e di Ciccillo che Grimaldi narrava al commendatore, il quale la stava a udire come la rivelazione d'un segreto trattato diplomatico; la storia d'un'altra fioraia napoletana che Ferella narrava a Grimaldi, il quale lo stava a udire più distratto, guardando le nottambule che continuavano a sfilare. Finita la musica, cominciate a spopolarsi le piazze, Grimaldi dette un'altra volta il segnale della partenza, e i quattro risalirono il Corso. Ora la processione delle affamate era più lunga: se ne incontravano a ogni passo; dalla Posta, dal Babbuino, da tutte le vie traverse ne sbucavano sempre; e come l'ora avanzava, le più miserabili, quelle senza cappello, con l'aspetto di serve, venivano fuori, a due a due, a braccetto, rivolgendo inviti ai passanti. Grimaldi s'era appoggiato da capo al braccio di Consalvo, e facendolo parlare della Sicilia, andava a piccoli passi, risaliva il Corso, fino a San Carlo, fino a palazzo Sciarra, più su ancora, fin presso a piazza del Popolo, dove i passanti erano rari, il marciapiede quasi deserto.

"Dove andremo a finire?" pensava Consalvo, quando Grimaldi, chiamato il Ferella che veniva dietro col commendatore, domandò al giovanotto:

«Neh, Ferella...: che ci sta da donn'Agnese

«Roba nuova, dice; ma io ci manco da molti giorni

«Vulimm'i a vedé?»

«Dovedisse Consalvo, imbarazzato, stupito, irresoluto, poiché aveva sentito parlare, così in aria, di questa casa di donn'Agnese come d'un luogo discreto e sicuro dove la gente grave che non voleva dare spettacolo di sé in un luogo del tutto pubblico trovava quel che c'era di meglio a Roma in fatto di mercenarie o anche di donne non del tutto perdute che con la prostituzione secreta aiutavano le famiglie a sbarcare il lunario.

«E come?» esclamò Grimaldi. «Voi non siete ancora stato da donn'Agnese? Ma su, venite! Ferella, presentiamo il principe a donn'Agnese!...»

In cima alla scaletta coperta d'una striscia di stuoia, una serva che pareva una negra, tanto crespi aveva i capelli sul viso color cioccolata, introdusse la compagnia. Sugli usci, i quattro facevano complimenti, ciascuno volendo che gli altri passassero prima, e Ferella o Grimaldi rompevano le cerimonie avanzandosi risolutamente; il commendatore e Consalvo si tenevano indietro, con una specie di paura d'avventurarsi nei luoghi. Entrarono in un salotto che pareva la decorazione del quart'atto dell'Otello: una lampada veneziana poco luminosa pendeva dalla volta, e mobili tra veneziani e turcheschi, seggiole con le spalliere alte come inginocchiatoi, un divano-letto molto basso, tende di gusto orientale lo addobbavano. S'avanzò incontro ai signori una donna alta e forte sulla quarantina, che pareva vestita di carta: tutta di mussola bianca insaldata.

«To', che si vede: don Bernardino! E quant'onore, stasera

«L'onore è mio...»

«L'onore è nostro» aggiunse Ferella.

«Voi state zittoingiunse la matrona. «Abbiamo conti da fare insieme, noi due...» E frattanto guardava Consalvo, da capo a piedi.

«Donn'Agnese, voi mi permettete di presentarvi il mio amico e collega, il principe Consalvo, che ambisce l'onore di poter frequentare la vostra casa ospitale

«Fortunatissima» rispose donn'Agnese, abbozzando un sorriso e stendendo la mano. E Consalvo, messo di buon umore dalla serietà della presentazione, prese quella mano, che cedette sotto la sua stretta come se fosse di gomma elastica.

«Ma perché restano in piedi?... Prego, signori, s'accomodino... Posso offrire qualche cosa? Gradiscono un bicchiere di qualche cosa?»

«Donn'Agnesepregò Grimaldi. «Se avete ancora di quella birra...»

«Birra? Birra, per tutti?...»

E la serva che pareva una mora portò un vassoio con quattro bicchieri, grandi come boccali, pieni della bionda e spumosa bevanda. Allora, seduto, anzi sdraiato sopra un seggiolone, col boccale della birra in mano, al quale sorseggiava tratto tratto, Grimaldi sospirò di soddisfazione. La padrona di casa sorrideva amabilmente a Consalvo, gli domandava da quanto tempo era a Roma, gli offeriva di fargli visitare l'"appartamento".

«Andiamo, donn'Agnese!...» disse Ferella.

Come i tre scomparvero dietro una tenda, il commendatore finalmente potè rivolgersi al grand'uomo:

«Senti un po', ho parlato oggi con Palberti. Sapeva ogni cosa. Promette di votare per voialtri, con un patto, però.»

«Che patto

E quando gli altri tornarono, con la padrona di casa, e una pigionale di lei, una giovane dall'aspetto dolce, dagli occhi dolci e stupidi di capra sopra un viso bianco e delicato, vestita d'azzurro, con le gonne corte, il corpetto accollato, trovarono Grimaldi e l'altro che discutevano dei patti di Palberti, della difficoltà di farli accettare a Milesio...

«Milesio, personalmente, sarà favorevole» diceva Grimaldi; «m'impegno io a persuaderlo, ma Nicotera? Nicotera ci darà da fare. Ci sono troppi precedenti...» Consalvo e Ferella erano tutt'orecchi, il giornalista, anzi, cavato di tasca un taccuino, vi prendeva appunti; le donne guardavano stupidamente or l'uno or l'altro.

«E che ne dice questa nennellaconcluse Grimaldi, rivolgendosi alla ragazza.

Ella sorrise, abbassando il capo, per modestia.

Il grand'uomo s'alzò, le si appressò, le carezzò il mento, poi trasse in disparte donn'Agnese.

«Un uomo soltanto può persuadere Nicotera» disse Ferella.

«Biancheririspose Consalvo.

«Precisamente

Essi continuarono a discutere dell'affare, gravemente, mentre Grimaldi continuava a discutere non meno gravemente con la matrona. Pareva che egli chiedesse qualcosa, con molta insistenza, e che l'altra rifiutasse, a malincuore ma decisamente; a un punto s'udì che gli diceva, smesso il voi: «Vedi se ci riesci...». Ma l'altro scrollava il capo, tornava a insistere; finché, decidendosi, come rassegnato:

«Allora, andiamo...» disse.

La padrona rivolse un amabile sorriso ai suoi ospiti, quasi a chieder scusa di lasciarli soli, un momento, ma in buona compagnia; ma, come Ferella e il commendatore erano più che mai infervorati nella discussione, il grand'uomo, dall'uscio, si rivolse a Consalvo, incitandolo con gli occhi lucenti sulla faccia accesa, dandogli del tu: «Iammo, principe! Anima il mercato...»

 

 

 


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