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Alle due il teatro era quasi pieno. I giovani del Circolo Nazionale avevano mantenuto la promessa, occupando e facendo occupare da persone amiche tutta la platea prima che le porte fossero dischiuse; i palchi, dove non si entrava senza biglietti, erano stati distribuiti alle famiglie dei socii, di uomini politici, di pubblici ufficiali, di magistrati, di giornalisti, talché non rimaneva ai profani altro che il loggione. Dalla scena, già occupata dai cronisti suoi colleghi e dall'ufficio di presidenza del Circolo, Federico guardava curiosamente nella sala. Se egli non avesse conosciuto la manovra dei promotori per assicurare al conferenziere un uditorio amico, l'avrebbe ora scoperta, vedendo quel pubblico di aderenti, di partigiani, di gente sodisfatta del proprio stato, di signore eleganti venute col ventaglio e l'occhialetto come alla commedia. Non sarebbe stata veramente una commedia l'imminente concione, quella predica contro il socialismo tenuta ai suoi naturali avversarii? Dov'erano i lavoratori che bisognava convertire, il popolo che doveva essere illuminato, la "massa" che conveniva distogliere dalle idee pericolose? Appena, levando gli sguardi verso la galleria estrema ed oscura, Federico poteva scorgere una fila di operai, intenti a guardare silenziosamente giù nella platea e sulla scena. Li riconosceva all'abito, all'aspetto: quasi tutti portavano corpetti scuri, senza camicia; la mancanza di biancheria ai polsi ed ai colli, rivelava particolarmente la loro condizione. Avevano aspettato, in gruppo, sulla via, che aprissero; ma, trovata piena la platea, respinti dai palchi, si erano ridotti lassù, occupando l'ultimo posto anche questa volta che non si pagava niente e che lo spettacolo era dato a loro beneficio. Due o tre coppie di guardie facevano capolino alle loro spalle. Il mormorio, nella sala, cresceva di momento in momento; massimamente nei palchi, dove le dame ricevevano visite come nelle serate di recita; tutte s'informavano dell'oratore, di quel principe siciliano, di quel gran signore che invece di godersi allegramente i milioni, si era dato agli studii sociali. Bell'esempio per l'aristocrazia scioperata. Dov'era? Mancavano pochi minuti alle tre; si sarebbe fatto aspettare? Era già in teatro, dietro le quinte, col presidente del Circolo che lo avrebbe presentato al pubblico. Perché avevano soppresso la musica? Sarebbe stato di grande effetto accoglierlo al suono della marcia reale.
Subitamente un movimento delle persone che stavano sulla scena, richiamò l'attenzione universale. Tutti gli occhi si volsero al palco, dove Consalvo di Francalanza, dando la destra al senatore Armani, già toccava la tavola centrale. Nel primo momento di stupore, prodotto dall'apparizione muta ed improvvisa, le voci tacquero; poi qualcuno tra i più zelanti cominciò a batter le mani; ma già altri, dal palco, coi segni e con gli zittii, chiedevano silenzio, perché il presidente parlava. Le prime parole furono udite soltanto dai più vicini, a poco a poco la voce risuonò chiara per tutta la sala.
«Il sodalizio che mi onoro di presiedere» diceva il senatore, «impensierito dal rapido dilagare d'idee che minacciano non solamente la compagine dello Stato, ma anche la vita della società e gli stessi vincoli della famiglia, ha pensato di opporre alla propaganda di funeste utopie, i dettati della scienza, i consigli della ragione e gli insegnamenti dell'esperienza. Mentre pubblicamente s'insegna a odiare e vilipendere gli istituti che sono vanto della nostra civiltà, noi abbiamo voluto che pubblicamente sorgesse una voce a difenderli. Non basta cullarsi nella fiducia che il secolare buon senso del popolo faccia giustizia dei sofismi di chi lavora a traviarlo: i sovvertitori potrebbero riuscire per un momento a illuderlo e a preparargli giorni terribili. Presento quindi l'oratore scelto dal nostro consiglio per questa prima conferenza: l'onorevole Consalvo Uzeda di Francalanza. Se i concetti che egli svolgerà trovassero nel pubblico qualche contraddittore, l'onorevole oratore desidera non essere interrotto, riserbandosi naturalmente di rispondere in fine a tutte le osservazioni che potranno essergli fatte.»
La presentazione era passata in perfetto silenzio: quantunque amico, il pubblico era freddo, ancora sorpreso dall'ingresso inaspettato, un poco malcontento anche per la mancanza di bande e di bandiere. Soltanto quando il senatore finì, si udirono molti: «Bene!... Benissimo!...» e qualche battimano.
Consalvo era molto pallido. Mai un pubblico discorso gli aveva incusso tanta soggezione e tanto timore. Quantunque rassicurato dalle informazioni degli amici e dalla stessa vista di quella sala elegante, intorno alla composizione dell'uditorio, nondimeno pensava che si sarebbe fuori risaputo parola per parola tutto quanto egli avrebbe detto, e che perciò l'approvazione dei presenti non lo avrebbe salvato dall'odio dei socialisti. Però egli sapeva ancora precisamente che cosa avrebbe detto. Aveva composto una specie di sommario di tutti gli argomenti da addurre: storici, filosofici, economici, umoristici; e alla fine della presentazione cavò di tasca e mise sulla tavola il foglio dove lo aveva trascritto; ma la sola cosa di cui fosse sicuro era l'esordio.
La freddezza del pubblico non era fatta per incorarlo; alzati gli occhi alla galleria e scoperti gli operai che la popolavano e che lo guardavano intenti, sentì crescere il suo turbamento. Nondimeno nessuno potè sospettarlo quando, appoggiate le mani alla tavola e piegatosi un poco, egli cominciò:
«Signore e signori, c'era una volta un critico il quale, affermando con straordinario calore la superiorità della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso sull'Orlando furioso di Lodovico Ariosto, attaccò molte liti con le persone che non la pensavano come lui, e sostenne perciò uno dopo l'altro non meno di quattordici fortunati duelli; ma al quindicesimo, cadde finalmente col petto trapassato dalla lama nemica. Allora i padrini che afflittissimi lo sorreggevano e aspettavano di raccogliere le sue ultime volontà, lo udirono uscire in questa confessione suprema: "E dire che io non ho ancora letto né l'Orlando furioso né la Gerusalemme liberata!...".»
Una risata argentina, da un palco, diffuse per la sala il contagio della ilarità: l'allegro fragore fu tale che il conferenziere dovette arrestarsi un momento. Federico volse lo sguardo agli spettatori, e un sorriso spuntò sulle sue labbra vedendo tutta quella gente messa a un tratto di buon umore dal vecchio apologhetto, prevedendo l'uso che il deputato ne avrebbe fatto.
«Ciò che si narra del critico letterario avviene, possiamo dire, ogni giorno ai politici; e, se dobbiamo essere sinceri, forse nessuno di noi ha il diritto di scagliare la prima pietra contro chi difende od attacca questo o quel sistema di governo senza conoscere le necessarie cagioni e le ragioni estrinseche ed intrinseche, perché nessuno di noi è senza peccato. Il signor di Voltaire, a un parrucchiere che gli dava consigli sull'arte di poetare, rispose: "Mastro Andrea, fate parrucche..."» Un nuovo scroscio di risa echeggiò per la sala; lo stenografo annotò: Ilarità generale. «Chiedo a me stesso se il grande scrittore francese non sarebbe stato più accorto consigliando a mastro Andrea di studiare la prosodia! (Risa generali, applausi.) Anche un parrucchiere può parlare di versi, se conosce la metrica; ciascuno di noi non solo può, ma deve parlare dell'ordinamento sociale, a patto di averne studiato le leggi. Ora, mentre l'attuale costituzione della società umana è giudicata da un numeroso partito iniqua e peritura, mentre questo partito ne esalta un'altra, tutta diversa, e ne predica e ne chiede l'avvento, il nostro primo dovere è di studiare la nuova costituzione invocata ed esaltata; senza di che tanto l'anteporla quanto il posporla alla presente ci potrebbe un bel giorno costringere all'umiliante confessione del bellicoso critico di cui vi ho narrato la storia. Signore e signori, il partito che combatte la società presente, vuole e prepara il trionfo del socialismo. In che cosa consiste il socialismo? Io ho letto diecine e diecine di volumi, centinaia e centinaia di opuscoli, migliaia e migliaia di articoli per mettermi in grado di spiegare, a me stesso prima che a voi, come sarà governata l'umanità futura; ma debbo subito dirvi... che non lo so ancora. (Ilarità.) Ho dubitato un momento che fosse per difetto d'intelligenza da parte mia... (voci: No! No!) ma veramente non credo ora di essere immodesto affermando che sarei stato capace di comprendere un sistema di reggimento sociale... se me lo avessero descritto. I socialisti serii sconfessano quei romanzieri di fervida fantasia che hanno rappresentato a modo loro la vita avvenire, ma se i pensatori non ci dicono essi quale sarà, qual è la realtà che vogliono attuare, bisogna pure, per averne un'idea, accettare l'immagine che ne dànno i romanzieri. Nel regime socialista, ciascun cittadino lavorerà non per conto suo proprio, ma per conto di tutto il consorzio, e riceverà in cambio del suo lavoro un assegno tanto largo, che non si potrà spendere tutto. Se questa sarà la sola difficoltà nello Stato futuro, potremo dire senz'altro che tutto andrà d'incanto: la somma da spendere, il modo di spenderla sarà un problema insolubile. (Risa.) Dicono i romanzieri che ciascun cittadino spenderà i suoi buoni sulla ricchezza comune nel modo che più gli farà piacere: uno preferirà i bei cavalli, un altro i bei vestiti, un terzo la buona tavola, e via discorrendo. Resta soltanto da sapere chi vorrà essere tanto discreto da scegliere i cibi peggiori, i vestiti più brutti e i cavalli sfiancati. (Ilarità.) E non potrebbe anche darsi che ciascuno vorrà insieme i bei cavalli, i bei vestiti, la buona tavola, e tutte le cose buone, in una volta, nessuna eccettuata? Uno dei romanzieri dei quali vi parlo, spiega che i prezzi alti, ai nostri giorni, vogliono dire che certi articoli sono riservati solamente alla gente ricca; ma che in avvenire solo chi avrà un gusto speciale per tali articoli li acquisterà. Ora, il gusto per questi articoli sarà benissimo speciale, ma è certo che tutti gli uomini lo condividono; e la questione sociale esiste appunto per ciò, che ognuno vorrebbe soddisfare i suoi specialissimi gusti! Sapete voi qual è uno degli inconvenienti dell'attuale ordine di cose? Che i mercanti e i commessi, calcolando sulla vendita delle loro merci per vivere, ci fanno comprare con le loro arti ciò di cui non abbiamo bisogno. Vedete: quando noi ci fermiamo dinanzi a una mostra sfolgoreggiante, e ci struggiamo di possedere le belle cose che vi sono esposte, non è già il nostro appetito, il nostro istinto, il nostro bisogno che ci fa tanto cupidi; ma l'arte tenebrosa e la magnetica suggestione del mercante e dei suoi commessi. In avvenire, tutte le merci saranno della nazione, e i commessi non avranno interesse a vendere i brillanti piuttosto che gli strofinacci: allora nessuno vorrà più i brillanti e tutti si contenteranno degli strofinacci. Ancora un altro vantaggio: vi saranno magazzini o depositi centrali dove si troverà tutto il necessario, non già le botteghe speciali di oggigiorno. Il sistema moderno è tanto incomodo, che alcuni riformatori non capiscono come le nostre signore si decidano a fare le loro compere. È veramente una cosa incomprensibile; se le signore non ci sveleranno il loro segreto, noi dobbiamo rassegnarci a non capirne nulla.»
Un'altra fragorosa risata echeggiò per la vasta sala, e Federico rise anch'egli; ma il riso suo freddo e contenuto, non che dalle cose che l'oratore diceva, era anzi eccitato dal vedere e dal sentire come quelle cose puerili piacessero tanto all'uditorio. Forse non era da stupire che la moltitudine si mettesse di buon umore a quelle barzellette, che gongolasse credendo con quei burleschi argomenti disperso il pericolo del cataclisma sociale; ma come mai l'oratore poteva insistere su quel tono, come mai credeva possibile combattere il formidabile avversario con armi di quella natura? Ma già l'onorevole Uzeda cambiava metro.
«Signori, se noi non possiamo prendere sul serio le visioni descritte dai romanzieri del socialismo, dobbiamo riconoscere che neppure i socialisti serii ne fanno gran conto. Ma a questi ultimi noi chiediamo invano come sarebbe precisamente il mondo quando il loro ideale fosse attuato. Non lo sanno essi medesimi, e tutta la loro scienza, tutti i loro sforzi, sono diretti non già alla creazione, sempre difficile, ma alla facilissima critica. Seguiamoli in questa loro opera; vediamo quali addebiti fanno alla società presente, per giudicare il fondamento delle loro ragioni. Al presente ordine sociale essi muovono questa accusa suprema: che è fondato sul privilegio. Ora, o signori, che cosa vuol dire questa parola? Essa ha due significati: uno che direi storico, l'altro naturale. Storicamente i privilegi furono; oggi non esistono più. Le prerogative di classi chiuse in sé stesse, i vantaggi e le esenzioni di caste inaccessibili furono dispersi dal soffio purificatore della Rivoluzione francese. Oggi ogni cittadino è uguale ad un altro. Questa eguaglianza non è, certo, totale; ma potrebbe mai esserlo? Qual è, non dico il fantasioso romanziere, ma l'utopista più delirante, il quale sogni l'eguaglianza assoluta? Chi potrà ridurre gli uomini alla stessa statura, alla stessa forza, agli stessi sentimenti? Vi sono, da uomo a uomo, differenze che possono sembrare e saranno anche piccole se noi guardiamo l'umanità nel suo complesso, da lontano, astrattamente; ma che sono grandissime se consideriamo gli uomini ad uno ad uno, nei loro rapporti; queste differenze native, fatali, insuperabili, spiegano il vario aspetto e l'instabile assetto della società nostra, danno ragione dei privilegi intesi nel senso naturale e inalienabile della parola. La bellezza ha i suoi privilegi; ha i suoi privilegi l'intelligenza; hanno i loro la forza e la gioventù, ai quali corrispondono quelli della debolezza e della vecchiaia; come a quelli della scienza e della ricchezza corrispondono quelli dell'ignoranza e della povertà; perché, o signori, noi saremo barbari a paragone della civiltà nuova che certi apostoli vanno predicando e preparando; ma nella nostra barbarie cerchiamo pure di temperare la crudeltà di quella lotta per l'esistenza che è e sarà sempre la stessa legge della vita nella natura universa!»
Voci impetuose gridarono da più parti: «Bene! Bravo!» e Federico si guardò intorno. Chi erano quegli zelanti? Come potevano sinceramente approvare? Che cosa volevano dire quelle parole? Che significavano quei luoghi comuni?
«Perché tutti i privilegi, i più naturali, i più legittimi sparissero, bisognerebbe che tutti gli uomini fossero eguali. È questo il pensiero dei socialisti? Occorre intendersi intorno al significato della parola eguaglianza. Gli uomini sono eguali: come negarlo? Se non fossero eguali, non porterebbero il comune nome uomini. Tizio è uomo, Caio è uomo come Tizio e come Sempronio. Ma Tizio è Tizio, e Caio è Caio; e ciascuno di costoro, pur avendo comune con gli altri la qualità d'uomo, ha in proprio una particolare individualità, diversa da quella degli altri; ora questa diversità importa diseguaglianza. Ammettono i socialisti che l'eguaglianza è accompagnata da diseguaglianza, o credono che sia totale ed assoluta? Io infatti ho letto nel Marx, nell'Engels, ed in molti altri, che bisogna abolire ogni distinzione di classi sociali, che tutti debbono essere lavoratori, e che l'eguaglianza consiste nel partecipare al godimento dei prodotti in proporzione del lavoro fornito; perché l'uomo di braccio o di mente più forte, può fornire, nella stessa unità di tempo, maggior lavoro che un debole, o uno stesso lavoro in più breve tempo; e perciò che le doti individuali, e la maggiore o minore capacità che ne è la conseguenza, sono privilegi naturali, e che l'ineguaglianza naturale è un vero diritto, e che ogni altra eguaglianza, oltre quella derivata dall'abolizione delle classi, cade per necessità nell'assurdo. Ora, se così è - e par difficile che non sia - come è mai possibile che i medesimi socialisti vogliano abolite tutte le disparità sociali e politiche, ed affermata la perfetta eguaglianza dei diritti, dei doveri e delle condizioni d'esistenza per tutti? Questa eguaglianza, in questi termini espressa e reclamata, sarebbe l'eguaglianza assoluta, quella che i maestri del socialismo e l'universale buonsenso hanno dichiarato impossibile? Bisognerebbe, mi pare, decidersi. Se io avrò fornito per debolezza di fibra, per ottusità o disattenzione, un lavoro inferiore a quello d'un mio vicino, avrò diritto a un compenso inferiore od eguale a quello di costui? Se il mio compenso sarà inferiore, dove se ne va l'eguaglianza? Se sarà eguale dove se ne va la giustizia? Da questo dilemma è difficile uscire. Ora fermiamoci un momento a considerare una dopo l'altra le formidabili punte. Se l'unico inconveniente dell'eguale ripartizione dei beni tra coloro che disegualmente hanno concorso a produrli fosse l'offesa al senso della giustizia, noi potremmo anche passarvi sopra, perché, mutatis mutandis, sarebbe lo stesso inconveniente che oggi i socialisti lamentano nella società nostra ma compensato da un vantaggio. Oggi, dicono i socialisti, chi lavora da mattina a sera stenta la vita, mentre chi non fa niente nuota nell'abbondanza; domani nuoteranno nell'abbondanza tanto chi produce poco, quanto chi produce molto: ingiustizia per ingiustizia, chi non preferirà la seconda alla prima? La quistione, però, è un altra; la quistione è questa: come, e da chi saranno prodotti tanti beni da potervi nuotare dentro tutto il genere umano? Io ho supposto poc'anzi che, per fiacchezza di muscoli o per ottusità di mente, il mio lavoro sia inferiore a quello del mio vicino; ma ho anche sottinteso che io compia la mia parte di lavoro con tutta coscienza. Non riesco ad eguagliare il vicino perché non ho le qualità sue, ma faccio ogni mio sforzo per eguagliarlo. Questo sforzo, naturalmente, è penoso; il braccio si stanca, la fronte è in sudore, la mente si confonde. E, intanto che io soffro, un pensiero entra nella mia mente: "O perché mi affanno così, se, qualunque sia la mia parte al lavoro, la mia parte al beneficio sarà eguale a quella del vicino? Vale la pena di affannarmi? Non è meglio procedere agiatamente?" E il mio zelo si rallenta, e la mia produzione, già scarsa, scema ancor più; e mentre scema la mia, il mio vicino gagliardo pensa a sua volta: "O perché debbo lavorare con zelo a produrre molto, se chi produce meno di me, per incapacità reale o per pigrizia, partecipa esattamente come me al godimento dei beni? Non è meglio prender le cose con più calma, riposarsi spesso ed a lungo?..." E questo ragionamento, ripetuto da tutti i deboli e inabili come me, da tutti gli abili e gagliardi come il mio vicino, importerà un continuo decrescimento della produzione dei beni comuni, della comune ricchezza, il che vuol dire un continuo assottigliamento delle eguali razioni di ognuno. Ricorreremo ai sorveglianti perché lo zelo dei lavoratori sia mantenuto? Ma, prima di tutto, se distingueremo tra sorveglianti e lavoratori, non sarà più vero che tutti saremo lavoratori; in secondo luogo, se i sorveglianti avranno poco da fare, tutti vorranno essere sorveglianti, mentre se il loro ufficio sarà troppo penoso, nessuno vorrà sostenerlo; in terzo luogo chi dovrà scegliere i preposti alla vigilanza? Non un capo, perché non vi saranno capi. Si procederà allora per elezione: avremo quindi candidati, coi relativi programmi. Uno prometterà di chiudere un occhio, ma io voterò per quello che mi assicurerà di chiuderli tutti e due... (Ilarità.) Ecco che i sorveglianti saranno impegnati dinanzi ai loro elettori e costretti a mantenere le loro promesse, sotto pena di non essere rieletti alla prossima votazione, come noi deputati (ilarità fragorosa) il che vuol dire che bisognerà ricorrere ad altri sorveglianti che sorveglino i sorveglianti, il che vuol dire semplicemente che si cade in quell'assurdo che uno dei socialisti più serii, Federico Engels, riconosce essere la conseguenza della pretesa d'una eguaglianza assoluta. Noi dobbiamo quindi escludere che i beni, alla cui produzione gli uomini diversamente concorrono, siano egualmente ripartiti; e dobbiamo ammettere invece che la repartizione sia fatta proporzionatamente alla produzione. Allora avremo tutti i vantaggi e nessun inconveniente; avremo cioè soddisfatto il senso della giustizia, perché chi avrà fornito più lavoro sarà premiato con una razione maggiore, e viceversa; e avremo mantenuto, col premio, lo stimolo ad accrescere la produzione. Ecco in verità, risolto il problema. Se non che, o signori, dire: tutti debbono lavorare ed a ciascuno sarà dato secondo il suo lavoro, è una formola, seducente come tutte le formole; ma, se noi cerchiamo di farci un'idea di ciò che accadrà nel mondo quando sarà attuata, vedremo che la seduzione sparisce. Infatti: dire che la partecipazione ai beni sarà in proporzione del lavoro fornito, significa che quanti hanno lavorato più e meglio saranno privilegiati, avranno diritto ad un maggiore e migliore compenso, a cibi più abbondanti e squisiti, a godimenti più rari e raffinati.
«Gli utopisti vogliono che tutti gli uomini siano ricchi o agiati egualmente, questa eguaglianza nella ricchezza o nell'agiatezza, è la promessa con la quale allettano gli operai; perché se gli operai sapessero che il risultato dell'agitazione, sarà, come abbiamo visto, l'indigenza e la mediocrità universale, non darebbero loro ascolto. Ciò che muove il lavoratore a dichiararsi malcontento è la speranza del meglio; egli spera di lavorare sempre meno e di godere sempre più: è questa la formula della profezia socialista: il massimo dei beni col minimo dello sforzo; formula contro la quale protestano la ragione, la logica, le leggi del mondo organico e fisico dove gli effetti sono sempre rigorosamente proporzionati alle cause. (Applausi.)
«Tornando, quindi, ai rapporti del capitale e del lavoro, noi vediamo che il salario del lavoro non deve assorbire la rendita del capitale. Capitale e lavoro sono due termini che non si possono dissociare; l'uno crea l'altro e l'altro crea l'uno, con alterna vicenda. Gli stessi socialisti riconoscono che il capitale non è altro che lavoro umano concretato, sostanziato e cristallizzato: ora se il lavoro di due braccia è fruttuoso, non vogliamo che dia frutto il lavoro racchiuso dentro una sostanza? Ma i socialisti dicono che questa sostanza è formata col lavoro non di chi la possiede, sibbene degli altri, e che è perciò una usurpazione ed un furto. Tutti hanno lavorato, essi dicono, ma non tutti posseggono. Ma noi torniamo, o signori, al punto donde partimmo. Tutti hanno lavorato, sì; ma non tutti egualmente. Andiamo in un luogo dove si lavora, in una manifattura, e facciamo per un momento astrazione dal proprietario o dagli azionisti. In questa manifattura avranno lavoro, poniamo, mille persone; ma il loro lavoro è molto diverso. C'è un direttore tecnico, c'è un direttore amministrativo, c'è un cassiere, vi sono mezza dozzina di computisti e di scritturali, vi sono un buon numero di ispettori, di periti, di magazzinieri, di capi officina, di custodi: tutte persone che avranno una diversa, remunerazione. Fra gli stessi operai, a secondo dell'età, della forza, della perizia, della natura del lavoro, le paghe saranno molto diverse. Tutte queste diversità di trattamento sono legittime, e resterebbero inalterate se anche non ci fossero i capitalisti che prelevassero un profitto: tutti gli stipendii e i salarii crescerebbero, ma proporzionatamente. Ora, o signori, che accade? Accade una cosa naturalissima: chi ha i più forti stipendii, vuol dire chi ha più studii, più capacità, più destrezza, può accumularne una parte e diventare capitalista, piccolo o grande. Certo, non tutti coloro che potrebbero accumulare accumulano realmente, e vi sono direttori ai quali parecchie migliaia di lire al mese non bastano e cassieri i quali finiscono col fare una scappata in Isvizzera (Ilarità) ma, regolarmente, queste persone riescono a formare un patrimonio. Diremo che questa ricchezza così formata, per una parte con l'ingegno e lo studio, per l'altra col risparmio e la previdenza, sia iniqua? Ma se questa è iniquità, io non so più qual cosa al mondo meriti d'essere stimata giusta! (Applausi) Saranno soltanto i grossi impiegati, quelli che riesciranno a formare una sostanza? Non una sostanza, ma un gruzzolo, non potrà essere messo insieme da quelli operai che avendo, grazie alla intelligenza e alla perizia, un forte salario, hanno anche la virtù di risparmiarne una parte? E gli operai esperti e intelligenti non possono salire a quei gradi dove il risparmio è più facile e copioso? La storia non è piena di esempii simili? Non ne vediamo noi tutti i giorni? E additeremo all'odio pubblico questi borghesi, divenuti borghesi, e grassi per giunta, grazie a qualità che il mondo ha sempre onorato? Vi fu un tempo, è vero, nel quale il mondo onorava non già l'intelligenza e la previdenza, ma la forza e la brutalità. Allora l'umana attività si esplicava con la guerra e non con l'industria; allora la ricchezza, la proprietà, il feudo, si acquistava in un modo veramente barbaro, con la prepotenza della conquista violenta; ma anche allora avveniva una scelta, per effetto della quale i guerrieri più animosi e gagliardi, più esperti e avveduti, partecipavano alla spartizione della conquista. Anche allora c'erano quelli ai quali non toccava nulla o ben poco, che dovevano contentarsi della paga o del minuto bottino, e costoro dovevano naturalmente invidiare la sorte degli altri; e siccome erano i più, se avessero voluto, avrebbero potuto impedire che i capitani si appropriassero le terre conquistate. Perché, dunque, non lo facevano? Perché, nonostante l'invidia, un istinto li avvertiva che la miglior sorte degli altri era meritata; e perché speravano di potersi rifare in un'altra occasione. Il valore degli uomini è perfettibile e, come quello di tutte le cose, è relativo. Un bicchier d'acqua che da noi non costa nulla, in un deserto è impagabile; un guerriero che non ha potuto farsi valere in mezzo a una moltitudine di combattenti, si distingue quando pugna da solo o con pochi; e se non è riuscito a distinguersi in compagnia di più valenti di lui, emerge se l'occasione lo mette insieme con pusillanimi o malaccorti. La complessità dei casi, grandissima nella guerra, e infinita nelle attività pacifiche, nelle arti campestri, nelle speculazioni industriali, nelle occupazioni intellettuali, dove la qualità della mente, l'esperienza e la scienza valgono, per definizione, molto più che non nella battaglia. La presente ricchezza, nel mondo, è dovuta per la massima parte a queste qualità; i vestigi della conquista e della prepotenza vanno sparendo; vi saranno ancora feudi che risalgono ai tempi delle Crociate, come i loro possessori; ma questi, generalmente parlando, non pare che abbiano altra cura fuorché quella di venderli... (Ilarità) mentre alcuni riescono a sbarazzarsi dei pregiudizii di casta, e si affratellano agli operai del pensiero e scendono fra i lavoratori del braccio, per studiarne la vita e i bisogni... (Ovazione)
«Se, dunque, il capitale formato con mezzi leciti e probi, è impiegato a creare nuovo lavoro, e se chi lo impiega contribuisce a nuovo lavoro, diremo che sia iniquo il frutto del capitale? Due difficoltà opporranno i socialisti. La prima è che non sempre queste condizioni si avverano; che vi sono capitali formati in modo veramente iniquo, con la frode, col furto; che i possessori di questi capitali ne fanno un impiego stupido o indegno, che ne traggono un interesse usuraio. E nessuno, sciaguratamente, potrà negarlo; ma, a togliere questi danni non basta il sistema escogitato dai socialisti. Vi saranno, anche nello stato socialista, falsarii o ladri che falsificheranno i buoni o le tessere; vi saranno oltre che i parsimoniosi, anche gli avari che li accumuleranno cupidamente, vi saranno gli usurai che li cederanno agli infingardi, agli sciuponi. Vogliamo creder possibile che questi e gli altri simili inconvenienti siano evitati? Concediamolo pure; concediamo che le leggi dello stato socialista vietino e puniscano tutte le umane passioni; ma perché queste leggi siano rispettate bisognerà, prima di tutto, creare un esercito infinito di vigili, di informatori, di censori, di giudici, e di agenti della comunità, e per ogni semplice cittadino si avranno almeno un paio di angeli custodi. (Ilarità) Per conseguenza la costrizione delle passioni, il perfetto adempimento del dovere da parte di tutti, l'impossibilità delle minime infrazioni da parte di ognuno, saranno ottenuti a costo di quella libertà così cara, così preziosa, come sa chi per lei vita ricusa, e lo stato socialista, che manterrà questa ferrea disciplina, che costringerà tutti a lavorare, misurerà a tutti egualmente le ore di lavoro e di riposo, e che darà a tutti una razione press'a poco eguale di svaghi e di piaceri, rassomiglierà troppo a una colonia penitenziaria, dove i condannati non stanno chiusi a chiave, ma vivono apparentemente liberi e possono anche sposarsi, possedere, dar feste o rappresentazioni teatrali, ma sempre sotto la vigilanza degli aguzzini che hanno l'occhio all'orologio e ai regolamenti, e le manette e i fucili a portata di mano. (Ilarità, applausi)
«Ma, o signori, io vi dissi che i socialisti possono opporre due difficoltà, quando odono sostenere la legittimità per la ricchezza onestamente formata. Abbiamo visto che cosa si deve loro rispondere quando dicono che non tutte le ricchezze sono formate onestamente; più semplice è la nostra risposta quando essi ci fanno osservare che non tutti i buoni, i meritevoli riescono a formarla. È vero, anche questo è sciaguratamente vero. La ricchezza è solo in parte il premio dell'operosità, dell'intelligenza, della dottrina e in una parola del valore; un'altra parte è dovuta al caso, alla fortuna. Gli uomini, sotto questo aspetto, sono altrettanti giuocatori i quali imparano dapprima le regole della partita, aguzzano poi l'ingegno per formar piani, di attacchi o di difesa, pongono tutta la loro attenzione ai compagni e agli avversarii, pensano le combinazioni possibili, calcolano le probabilità e vincono grazie a questo studio e a questo zelo; ma grazie anche al caso che dà loro buone carte; senza delle quali lo studio e lo zelo poco o niente profittano. Ora, o signori, press'a poco così vanno le cose nella vita; e tutti gli sforzi degli uomini sono in gran parte frustrati quando la fortuna non li sorregge; ma la fortuna è tal benefica dea che consente a ciascuno di sperare, sempre, fino all'ultimo respiro. La ricchezza, assoluta o relativa, non può esser di tutti; è impossibile che quanti prendono parte al giuoco della vita vincano tutti, e che le vincite siano eguali; i giuocatori lo sanno, ma prima che le carte siano date, prima che il dado sia tratto, essi sono tutti in egual grado animati e confortati dalla speranza, e chi perde, se prova un umano senso di dispetto, accetta nondimeno la necessità della sorte, e aspetta la rivincita. O perché, se le cose vanno tanto male nel mondo, se pochissimi vincono e godono, e quasi tutti perdono e soffrono, noi non troviamo che mai, nei corsi e nei ricorsi della storia, il giuoco è stato abolito? Qual è la forza che ha mantenuto quelle istituzioni contro le quali i socialisti si scagliano? Dicono che sia stata e sia la forza bruta delle armi e quella che dipende dall'ignoranza e dalla incoscienza: il giorno che il popolo sarà istruito, che avrà aperto gli occhi, esso si muoverà come un sol uomo e non troverà più soldati contro di sé, perché i soldati avranno anch'essi buttato via i moschetti. Ma occorre veramente un corso speciale di studii perché i contadini, gli operai, i soldati s'accorgano e imparino che la condizione dei proprietarii, degli industriali e dei comandanti è più fortunata? (Ilarità) Se lo sanno e lo sentono, se l'hanno sempre saputo e sentito, perché non hanno distrutto e non distruggono subito, con la semplice forza del numero, queste situazioni e questi gradi eminenti? Perché ciascuno ne spera uno, legittimamente; perché, se non lo ottiene eminentissimo, si contenta di quello che gli capita guardando a chi è ancora meno fortunato di lui; perché spera ancora di migliorarlo per conto suo o dei suoi; perché quelli stessi che sono vinti del tutto, sopraffatti e travolti riconoscono che questa è una delle conseguenze fatali del giuoco, uno degli esiti inevitabili della vita!
Il consorzio sociale ridotto a una bisca, l'attività umana abbandonata alla cieca fortuna, il benessere e la felicità dipendenti da una combinazione di carte e di numeri: tale era dunque, pensava Federico, l'ideale dell'oratore e di coloro che gli battevano le mani? Tutti gli sforzi degli uomini, creature coscienti, non dovevano tendere invece a ridurre, a circoscrivere la parte del caso, a impedire le sue ingiustizie? Non era preferibile e doveroso distruggere in tutti le supreme speranze delle fortune insolenti ed assicurare invece ad ognuno una parte, piccola, ma sicura? Era più degno degli uomini cullarsi nell'aspettazione regolarmente delusa, di esser sollevati sopra una vetta sublime dalle bassure mefitiche, o non piuttosto procurare di attendarsi tutti sulle soleggiate pendici?
L'ordine che regna attualmente nel mondo sarà disordinatissimo come sostengono i socialisti; ma è il prodotto necessario e fatale delle forze che hanno agito ed agiscono nella natura e nella vita. Essi vorrebbero sostituirlo con un altro, con un ordine vero e non soltanto apparente, perfetto e non soltanto relativo; e ciò che promettono è così bello e seducente, che in verità è da stupire come tutti non abbraccino la nuova fede. Perché noi tutti non siamo socialisti? Chi non metterebbe tutte le sue forze a servizio di questo partito per assicurare la felicità del genere umano? Dal primo giorno che questo ideale balenò alla mente di un uomo - e il giorno è passato da un pezzo, perché il socialismo non è nato ieri - come mai non ha affratellato tutte le coscienze e tutte le volontà? Tredici secoli prima di Cristo si tenta di tradurlo in atto nell'isola di Creta; Platone lo condivide e lo enunzia in Grecia, altri altrove: come mai l'umanità è così tarda ad accettarlo? Ogni volta che un socialista si trova con un avversario, è inclinato a sospettare che costui sia interessato. Diremo che fosse interessato Aristotile quando dimostrò che in politica, come del resto in amore, il divino Platone era... platonico?... Lasciamo stare le accuse di interesse, perché noi potremmo da parte nostra rispondere che sono interessati anche i socialisti. E, certo, nel nostro campo, vi può essere chi combatte la nuova dottrina perché teme di dover perdere i vantaggi che attualmente usufruisce; come tra coloro che la sostengono, qualcuno è guidato dall'utilità che ne ricava; ma, posti da parte gl'interessati, che non mancano in nessun partito, e considerando gli spiriti nobili, che abbondano in tutti, che cosa impedisce che si uniscano per trasformare la faccia della società e conseguir l'ideale? La forma della società resiste per la semplicissima ragione che la maggior parte degli uomini, se concepiscono l'ideale, obbediscono ai dettami della ragione. L'ideale si chiama così perché non attuato e non attuabile; il giorno che fosse attuato, non sarebbe più l'ideale, ma il reale. Questa non è metafisica: è filosofia pratica, perché c'insegna a guardarci dai voli d'Icaro. Per volare al cielo, quell'infelice si ruppe l'osso del collo (Ilarità); noi che combattiamo il socialismo non vogliamo che, affidata ad ali di cera, sperando di raggiungere il paradiso superno, l'umanità si prepari una caduta tremenda. Diranno che non siamo ragionevoli, ma ciechi; risponderemo che non siamo noi i ciechi, ma essi gli illusi.»
Pronunziate con forza, accompagnate da un energico gesto, queste parole sollevarono nuovi applausi. Il pubblico era stato messo di buon umore dalle facezie, ammirava ora la facile loquela dell'onorevole, si sentiva rassicurato dalle sue dimostrazioni. Tutte quelle signore eleganti, tutti quegli uomini amanti del quieto vivere, quegli impiegati cupidi dello stipendio, quei giovani infervorati dell'ideale aristocratico, erano grati all'oratore che disperdeva così, tra la colazione e il pranzo, con un bel discorso garbatamente pronunziato, l'incubo della rivoluzione sociale. Quegli argomenti erano semplici, chiari, inoppugnabili; bastava enunziarli perché tutte le minacce del socialismo apparissero vane e quasi ridicole. E dovunque si applaudiva, in platea, in tutti gli ordini dei palchi, fuorché sul loggione. Gli operai riusciti a trovar lassù un posto disagiato, dal quale si udiva male, stavano sempre immobili, attentissimi, cercando di non perdere una sola parola, senza che né una voce né un gesto rivelasse il loro pensiero. E l'onorevole di Francalanza, tutte le volte che spingeva gli occhi in alto, durante le sapienti pause provocatrici di applausi, si sentiva disturbato da quegli sguardi fissi di spettatori silenziosi. L'impassibile loro atteggiamento gli incuteva una soggezione tanto grande, quanto forse non sarebbe stata la contrarietà se lo avessero interrotto e disapprovato. Che pensavano, come giudicavano? Si ridevano dei suoi argomenti? Ne riconoscevano il peso? O non piuttosto covavano un sentimento d'odio implacabile contro chi combatteva la loro fede e la loro speranza? Senza di loro, egli sarebbe stato più ardito, più intransigente; le attenuazioni, le concessioni erano fatte per quella parte del pubblico.
«Io che sto dinanzi a voi ho passato e passo buona parte della mia vita a studiare il problema sociale. Non credo di essere un'aquila, ma non sono neanche una talpa; sono un uomo preso a caso in mezzo alla famiglia umana, con le medie facoltà degli uomini medii. Perché non ho potuto aver fiducia nell'efficacia dei mutamenti proposti dai socialisti? Perché sono qui a combatterli piuttosto che a sostenerli? Quanti, come me, assistono alla predicazione della lotta di classe e deplorano i sentimenti di invidia, di gelosia, di rancore, di odio, che dividono gli uomini, non si darebbero tutti al socialismo, se potessero credere che il suo trionfo segnerebbe la concordia finale, totale e indistruttibile? Ma chi non si metterebbe, animo e corpo, tra i riformatori, chi non darebbe la sua attività, i suoi beni, la sua stessa vita alla causa della riforma, pur di assicurare a tutto il genere umano la pace suprema?...»
Federico lo udiva e lo guardava con un senso di stupore: quel prepotente, quel cupido si commoveva, si inteneriva, pareva veramente sul punto di fare il sacrifizio di tutto sé stesso sull'altare dell'umanità; pareva già spoglio di ambizioni, umile, solo zelante al bene degli altri.
«Se anche dubitassimo che la pace sia conseguibile per questa via, noi, potremmo e vorremmo prestarci all'esperimento, purché almeno durante la prova fossimo tutti concordi; ma che rispondere all'intima voce, la quale ci avverte che questa concordia non è possibile neanche durante la prova, e come chiudere gli occhi a quella luce che irraggia da tutte le pagine della storia e dimostra la fatalità della lotta? Noi vediamo che gli stessi socialisti, gli stessi annunziatori e preparatori della pace universale, sono anch'essi divisi in diverse scuole che si combattono e non sempre ad armi cortesi. Tra i seguaci di Ferdinando Lassalle e i devoti di Carlo Marx, tra i giovani socialisti e i Vollmariani, tra i centralisti e i federalisti, tra i possibilisti e gli intransigenti, tra i collettivisti e gli anarchici, vi sono state e vi sono aspre e violente contese. Quel conservatore che fosse disposto a convertirsi, sarebbe incerto a quale di tante scuole diverse portare la sua adesione. Non sarebbe legittimo che costui dicesse: "Mettetevi prima d'accordo, e poi sarò con voi"? (Ilarità) Ma questo non è difetto particolare al socialismo; che anzi ogni partito, quello che sembra più compatto, è diviso da opposte tendenze; in ogni scuola si rivelano metodi diversi, ogni sistema comporta qualche varietà. Dovunque sono uomini sono diversità di opinioni, disparità di sentimenti, differenza di umori, tali e tante variazioni temporanee o permanenti, che il consenso perfetto è impossibile, non dico fra tutti o fra molti, ma fra pochi, fra due. Frenare le opposte tendenze, ridurre tutti a un animo è vana speranza. I socialisti si lusingano di ottenere questo risultato perché, dicono, quando il loro programma sarà attuato, l'eccellenza dei risultati forzerà tutti a convenire con loro. Ma, posto che questa eccellenza si raggiunga, chi assicura che gli uomini se ne contenteranno? Che cosa appaga il cuore umano? Quando la ragione e gli stessi fatti gli dicono che non ha motivo di lamentarsi, non prova egli ancora un intimo, secreto, indefinibile disagio, e non sorgono in lui velleità nuove, che si mutano in nuove volontà, desiderii nuovi, che si mutano in nuovi bisogni e che lo spingono a mutare il suo stato? Chi dice che i beni promessi dai socialisti, saranno, se ottenuti, tanto apprezzati da non esser posti a rischio mai più? La tradizione religiosa dice che l'uomo fu creato nel paradiso terrestre; poteva goderselo tranquillamente, ma tanto fece che lo perdette. Il paradiso che ci promettono sarà perduto un'altra volta, tranne che i socialisti posseggano il segreto di levarci il gusto del pomo. (Ilarità prolungata) Ma l'eccellenza appunto, si deve negare che sia conseguibile, per tutte le ragioni che vi ho dimostrate; per altre moltissime che ho tralasciate; per altre, sempre nuove, che si potrebbero trovare in tutti i campi dello scibile: nella storia, nell'economia, nella fisiologia, dovunque. I socialisti sono uomini come noi; e tutte le opere nostre riescono imperfette, e nessuna rivoluzione mantiene ciò che promette. Fu abolita la schiavitù della gleba, e parve un vantaggio inestimabile, fu abolito il servaggio feudale, e parve un bene impareggiabile; ma non udite voi oggi i socialisti gridare, che il salario è una schiavitù e un servaggio come prima, peggio che prima? Aboliamo il salario, troviamo un'altra cosa, o un altro nome: si batteranno le mani, si urlerà di gioia, si metteranno fuori i lumi (Ilarità), ma un bel giorno, quelli stessi che avranno instaurato il nuovo sistema vi cominceranno a trovare difetti, si accorgeranno d'essersi ingannati, inventeranno una nuova novità alla quale correre dietro.
«Con questo io non voglio dire che le condizioni della vita umana debbano restare immutabilmente quelle che sono oggi. Dovrei negare la possibilità del progresso; meriterei che mi si chiudesse la bocca. Il progresso è la sintesi di tutta la storia umana; chi ne ha sfogliato i libri immortali, ha letto questa parola in ogni pagina. (Bene, bravo!>/i>) Ma sono proprio i socialisti quelli ai quali si potrebbe, dico si potrebbe, rimproverare la negazione del progresso. Quando essi, infatti, ci vengono a dire che l'ingiustizia regna oggi nel mondo come una volta, che la condizione degli operai è intollerabile come in altri tempi, non vengono essi a negare i miglioramenti ai quali noi crediamo? E allora, se dovessimo seguirli in questo modo di vedere, noi potremmo anche rimproverarli di essere illogici; perché, negando il progresso del passato, diventa logicamente impossibile affermarlo ed aspettarlo nell'avvenire. Ma i socialisti sono logici, credono al progresso futuro e non negano il passato se non per questa ragione: che esso sembra loro troppo lento e troppo magro, e per eccitare le moltitudini a conseguirne uno grandissimo e rapidissimo, dicono che niente si è ottenuto, che di tutto bisogna far tabula rasa. E questo, o signori, è ciò che ci divide da loro. Ammesso il progresso, come lo ammettiamo tutti, e riconosciuto che esso non è stato tanto rapido e grande quanto gli uomini avrebbero voluto; come dobbiamo considerare i presenti ordini sociali? Dobbiamo considerarli, quantunque siano zeppi di difetti, come una preziosa conquista ottenuta dopo sforzi secolari sulla barbarie primitiva, con l'opera assidua dei pensatori e dei martiri.
«E che dobbiamo insegnare ai giovani, ai semplici, a tutti coloro che non sono capaci d'un loro proprio pensiero, e che hanno bisogno di consiglio e di guida? Dobbiamo forse insegnar loro che bisogna distruggere questi ordini, immediatamente, improvvisamente, come si abbatte una casa inabitabile, come si disperde una fonte inquinata, come si abbrucia una suppellettile infetta? Dobbiamo insegnar loro che, mentre il moto verso il meglio è stato lentissimo nei secoli e nei millennii, oggi ad un tratto potrà essere rapidissimo, grazie a quest'opera di distruzione? Questo, o signori, insegnano i socialisti, e quando dico socialisti non intendo quelli temperati, oculati, prudenti, che per fortuna non mancano in questo partito; ma i socialisti tipici, quelli che parlano e scrivono per comunicare il loro fanatismo alle turbe. Che vogliamo fare noi invece? Noi vogliamo dire alle moltitudini: Questi ordini che segnano il progresso, piccolo o lento quanto si voglia, debbono essere rispettati; non è una buona ragione distruggerli oggi, perché domani ne avremo di migliori, sarebbe lo stesso come se prima d'avere un abito nuovo, perché il vecchio è vecchio, volessimo andar nudi; come se, prima d'avere una casa nuova, perché l'antica è difettosa volessimo dormire all'aperto. E la pazzia d'andar nudo o di dormire sotto le stelle è ancora possibile; ma gli ordini sociali non si possono smettere come un abito o abbandonare come una casa: si possono e si debbono modificare, e quando i vecchi sono modificati, non sono più vecchi, bensì nuovi, o rinnovati. Ma la rinnovazione non è definitiva; che anzi bisogna assiduamente tornar sopra il già fatto, per correggere, per adattare, migliorare sempre e sempre più. A quest'opera bisogna attendere, e se essa procederà troppo lentamente a paragone dei nostri desiderii e delle nostre speranze, non dobbiamo perciò né scoraggiarci né ribellarci. Lo scoraggiamento è da pessimisti, da fatalisti, da pusillanimi. Si accascia chi non ha fibra, chi non ha fede, chi non vede oltre sé stesso, chi non pensa che se il frutto dell'opera sua maturerà troppo tardi perché egli possa gustarlo, lo gusteranno i suoi figli, le generazioni future. Chi si ribella è mosso bensì da una generosa impazienza; ma se costui pensasse che vi sono fatalità ineluttabili, modererebbe la sua impazienza e insegnerebbe che seguirne gli scatti è stoltezza. Facciamo dunque oggi ciò che oggi si può; uniamo i nostri studii, le nostre braccia, le nostre volontà, i nostri cuori, fraternamente. Questo noi diciamo alle moltitudini. Ed ai socialisti diciamo: riconoscete ciò che l'antica sapienza degli uomini ha sempre riconosciuto; ammettete le necessità che hanno fondamento nella natura, negli istinti, nelle leggi della vita e del mondo, rinunziate all'impossibile, e otterrete, ed otterremo il possibile. Noi vi chiediamo d'esser con noi nella prudenza, nella ponderazione, nella misura; perché noi siamo con voi nella fede che l'umano consorzio possa e debba trovare un assetto sempre migliore, e nella buona volontà di mettere in opera tutti i mezzi coi quali raggiungere uno stato sempre più alto, più concorde e più giusto.»
Un subisso d'applausi, una ovazione formidabile accolse le ultime parole dell'oratore. Tranne che sul loggione dove gli operai si alzavano silenziosi come erano rimasti durante l'intera conferenza, in tutto il teatro, dal palcoscenico alla platea ed ai palchi, non si vedevano altro che braccia distese, mani plaudenti, bocche acclamanti; sorti in piedi, mettendosi i cappelli, disponendosi ad uscire, gli spettatori lanciavano ancora nuovi bene! bravo! si fermavano ancora ad applaudire. Le stesse signore partecipavano alla dimostrazione: non gridavano, non facevano molto rumore con le mani guantate, ma la vivacità del gesto e l'animazione delle fisionomie rivelavano la soddisfazione, il piacere, l'ammirazione. La marchesa Castiglione era fra le più infervorate; in piedi, rivolta all'oratore, protendeva le braccia magre, picchiava forte una contro l'altra le manine, si volgeva alla giovinetta amica visibilmente esortandola a fare altrettanto; ma la contessina era rimasta seduta tutta raccolta nella persona, ancora intenta, quasi aspettasse una nuova ripresa dell'orazione. E Federico andava con lo sguardo da lei all'oratore, il quale riceveva ora i complimenti dei circostanti, delle persone salite apposta sul palcoscenico. «Bravo, onorevole!... Ma bravo di cuore!... Era quello che ci voleva!... Discorso veramente magistrale!... Bisogna stamparlo subito subito!...» L'ironia e il ragionamento, dicevano, erano stati sapientemente contemperati; alla forza di quelle dimostrazioni, di quegli esempi nulla si poteva opporre; e la chiusa, particolarmente la chiusa: uno squarcio d'eloquenza magnifica, una fervida esortazione a tutti gli uomini di buona volontà; l'eccitamento alla universale concordia. E Federico, udendoli, pensava con un intimo sorriso come quella gente e lo stesso oratore, avessero dimenticato tutte le precedenti dimostrazioni della discordia inevitabile. Adesso i socialisti avrebbero immediatamente annacquato il loro vino perché i conservatori come il conferenziere e i suoi accoliti si dichiaravano socialisti ragionevoli e temperati dalla paura della rivoluzione! Salvo a giudicare rivoluzionario ogni tentativo di riforma, ogni disegno di novità!
«Addio, Ranaldi,» gli disse il conte Borromeo, venendogli innanzi. «V'è piaciuta la conferenza?»
«Ed a lei?»
«Bella, bella; ma ci sarebbe da parlarne, ed io vado a prendere mia figlia, e poi corro alla stazione.»
«Parte?»
Già il teatro era mezzo vuoto. Federico scambiò ancora qualche parola con alcuni conoscenti, poi uscì. La folla che si disperdeva per le vie adiacenti al teatro non parlava d'altro che del discorso e del suo tema. Il giovane udiva lembi di frasi pronunziate con voce grossa: «Ma è tempo di finirla con le utopie!... Roba da manicomio!... L'eguaglianza!... L'abolizione della proprietà!...». Qualcuno giudicava fin anche che l'oratore era stato troppo blando, che aveva assunto un tono troppo concessivo; s'era servito, sì, dell'ironia, e stava bene; ma sarebbe stato anche necessario bollare con parole di fuoco l'opera dei perturbatori.
«Gli operai sono brava gente, rassegnata al loro destino: infami sono coloro che li seducono, che li pervertono...» Udendo quei giudizii, Federico sentiva crescere lo sdegno e la ribellione nati in lui durante la concione, e un bisogno di gettare in faccia a quella gente l'angustia delle loro menti, l'egoismo dei loro cuori. Solo i ciechi e i sordi potevano attribuire ai perturbatori quello che era movimento fatale delle idee; solo un feroce egoismo poteva lodare la rassegnazione degli sciagurati, solo una maledetta paura poteva giudicare funesto che le coscienze si illuminassero. I paurosi dovevano piuttosto essi medesimi aver coscienza della loro paura, e vergognarsene; e vedere e sentire che il bene, il meglio non si poteva raggiungere senza quest'intima luce. Accostarsi, unirsi, procedere concordi, sì; ma spettava ai socialisti dar l'esempio della moderazione, o non piuttosto ai conservatori dar quello dell'ardimento?
Toccava ai disagiati, ai morti di fame, persuadersi che bisognava avere pazienza e tollerare ancora i disagi e la fame; o non piuttosto agli opulenti arrossire della loro abbondanza e dar mano ad un'opera di giustizia? La giustizia ideale, l'eguaglianza assoluta, il paradiso in terra non si potevano raggiungere? E perciò bisognava tollerare l'intollerabile? E non si doveva fare il possibile né tentare nessuna via per ottenere un miglioramento, anche piccolo? Se anche il peggio era da temere, il timore del peggio poteva impedire che si affrontasse una crisi? Vi sono certe sostanze che i dottori somministrano e gli infermi si procurano, quantunque sappiano che possono fare tanto male quanto bene; ma se c'è già un male insopportabile, la paura d'un male maggiore nulla vale contro la speranza di qualche sollievo. Si provocano a bella posta crisi che possono essere mortali, si tentano operazioni che possono avere un esito funesto: una crisi e un taglio, una estirpazione non si dovevano tentare nel corpo sociale, se era infermo, mostruosamente rigonfio in alcune parti, esangue in tutto il rimanente? Tutto il giorno Federico rimuginò queste idee; a casa non fece nulla, non scrisse, non lesse, osservando il mutamento che avveniva dentro di lui, sentendo sorgere dalle latebre della memoria, dall'intimo della coscienza pensieri e sentimenti concepiti altra volta, quando s'era fermato qualche istante a considerare il problema sociale, quando aveva visto qualche spettacolo di miseria oscura o di lusso insolente. Aveva ricacciato dentro di sé quei sentimenti, aveva combattuto quei pensieri, persuaso della fatalità delle differenze sociali, accecato dai pregiudizii; ora il velo gli cadeva dagli occhi. Come mai? Ad un tratto? Un altro velo, il velo della passione, non si sostituiva al primo? Non pensava egli queste cose, non aveva cominciato a pensarle per la gelosia dalla quale s'era sentito mordere acquistando la tristezza che Renata amava il Francalanza? Che importava! Da quella conferenza contro il socialismo egli sentiva d'essere uscito socialista. Restò in casa fino a tardi. L'idea che andando al giornale, vi avrebbe probabilmente incontrato il deputato, lo trattenne dal recarvisi, quando finalmente uscì. Scese dal Pincio, attraversò piazza del Popolo, s'avviò per i prati di Castello, arrivò sotto le mura del Vaticano col bisogno di restar solo, pieno dei nuovi pensieri. Non si sentì neppure di andare al solito caffè, con i soliti amici. Entrò in una trattoria di piazza Rusticucci, dinanzi alla piazza di San Pietro luminosa e deserta. Mangiò poco e di malavoglia. Non aveva ancora finito quando udì il grido del giornalaio che vendeva la Cronaca. Era un grido più forte del solito, quello col quale si annunciano le grandi e gravi notizie; ma, per la distanza, non si distinguevano bene le parole: «L'ato... dato... l'accordato... l'attentato...». Poi la frase cominciò a compiersi: «L'attentato d'oggi contro...» ma il nome si udì soltanto quando il venditore fu vicinissimo: «L'attentato contro il deputato Francalanza!... Il tentato assassinio del deputato Francalanza!...».
Federico comprò il giornale e lesse avidamente: "Stasera, dopo aver tenuta la conferenza sul socialismo della quale parliamo a lungo in altra parte del giornale, l'onorevole Uzeda di Francalanza rincasava, quando fu affrontato da uno sconosciuto, il quale gli esplose contro due colpi di revolver. Uno di questi andò a vuoto; l'altro, disgraziatamente, ferì non lievemente alla spalla l'onorevole deputato. L'aggressore fu subito disarmato ed arrestato. Aveva assistito alla conferenza del teatro Valle, ed ha voluto sfogare con un delitto la rabbia provata nell'udire la lucida e serena discussione dell'egregio sociologo; al quale mandiamo commossi l'espressione della nostra più viva simpatia e i più caldi auguri di pronta guarigione".