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Consalvo Uzeda s'era sentito alleggerito d'un gran peso nel pronunziare le ultime parole della sua conferenza. Ne aveva patito l'incubo per più di un mese; oramai era cosa passata. I calorosi applausi degli aderenti gli facevano piacere, ma non lo illudevano molto; il domani sarebbero venute senza meno le risposte vivaci e le critiche acerbe. Comunque, per il momento, pensava che meglio di così non sarebbe potuta andare. Uscendo dal teatro, una quantità di persone gli s'erano messe alle costole, e non l'avevano più lasciato, rinnovando i complimenti, tornando sugli argomenti da lui svolti, suggerendogliene altri per il libro che aspettavano da lui. A poco a poco, sul Corso, il codazzo delle persone che lo seguivano si era con sua soddisfazione, diramato; una mezza dozzina lo seguivano ancora. Avendo sete entrò da Aragno: gli ammiratori sedettero intorno, ed egli offerse a tutti da bere. Fu accostato da altre persone, da giornalisti, da conterranei, che si rallegravano con lui; poi andò al giornale. Anche lì gli parlarono della conferenza; le cartelle dell'articolo nel quale se ne rendeva conto erano già in tipografia, e Balzan gli disse che fra poco ne avrebbe avute le bozze. Egli le aspettò, le lesse e ne fu malcontento. La relazione era troppo sommaria e strozzata; ma data l'angustia dello spazio, non s'era potuto fare di più. Ottenne nondimeno che si accennasse ad alcuni punti essenziali, ed aspettò ancora di rivedere le nuove prove. Uscì alle sette insieme col Banzatti che aveva fretta di andare a casa e salì in una botte a piazza Colonna, offrendogli un posto fino a piazza del Tritone: egli fu un momento titubante, ma proprio in quel momento s'avviava per la salita l'onorevole Gionata, ed egli si accompagnò al collega. Parlarono della situazione parlamentare, della condizione del Ministero; giunti sulla piazza il Gionata voltò a sinistra, ed egli a destra. S'avviò lentamente, pensando a ciò che gli aveva detto il collega, alla probabile crisi, e alla lentezza della sua fortuna politica. Nulla ancora aveva ottenuto di quanto sperava e credeva di meritare; a niente erano giovate le prime impazienze, i lunghi lavori, il giornale, le amicizie. Si erano serviti di lui, anche ora lo avevano esposto al rischio di quella conferenza, e tutto era e sarebbe stato invano, chissà per quanto tempo ancora. La piccola rinomanza concepita in una breve cerchia non gli bastava, quasi l'offendeva, quasi gli faceva considerare preferibile la totale oscurità. Ignorato da tutti, avrebbe potuto credersi negletto ingiustamente; la mediocrità alla quale era giunto lo crucciava perché poteva segnare il grado del suo valore, agli occhi di chi non lo conosceva come egli stesso si conosceva. Non dubitava di sé; aveva sempre un altissimo concetto del suo ingegno, delle sue attitudini, della sua forza; il difficile era diffondere questo concetto, fare che un numero sempre maggiore di persone, intorno a lui, lo condividesse!
Giunse con questi pensieri quasi sul portone di casa. I primi lumi splendevano d'una luce d'oro nell'ultimo chiarore del crepuscolo; dinanzi a lui la strada era deserta; dietro di lui il rumore d'un passo. Si voltò: un uomo di umile stato, piccolo, con la barba ispida e un cappelluccio a cencio gli si accostò.
«È lei il deputato Francalanza?»
«Sono io.»
«È lei quello che ha tenuto oggi il discorso al teatro Valle?»
«Sì, io. Che volete?»
Quelle domande e il tono di voce escludevano che lo sconosciuto chiedesse qualche soccorso, come l'Uzeda aveva dapprima supposto.
«Allora...» riprese il suo interlocutore, portando una mano alla tasca «allora, ecco... prenda... questo è per lei...»
Egli vide luccicare la lama d'un pugnale, e non ebbe tempo di gettare un grido, di buttarsi indietro, che un urto violento alla spalla lo scosse. L'aggressore stava per dare un secondo colpo; ma già una voce, dietro di lui, gridava: «Ferma!... Ferma!...». E dalle portinerie e dalle finestre spalancate altre voci rispondevano: «Ferma!... Ferma!... Dalli!... Assassino!...».
L'omicida non fece un passo per tentare di fuggire, non oppose un moto di resistenza alle persone che gli furono sopra e lo disarmarono. Il portinaio di Villa Spada, riconosciuto il suo padrone pallido e barcollante, corse a lui:
«Eccellenza!... Signorino!... Chi è stato?... È ferito?...»
«Qui... Non è nulla... Portatemi su....»
Ma l'abito si rigava di sangue e l'Uzeda impallidiva sempre più.
«Una sedia!»
«Adagiatelo sopra una sedia!»
«Subito..., ecco...» Mentre il portinaio e uno degli astanti lo sorreggevano, la portinaia accorreva con una sedia; su quella il ferito si abbandonò e fu trasportato sotto il vestibolo, su per le scale. Persone di servizio e padroni si affacciavano agli usci, chiedevano che cosa era accaduto, significavano con gli atti e le parole la loro pietà vedendo quel viso esangue, quegli abiti insanguinati, dai quali il sangue stillava sui candidi gradini di marmo.
«È morto?... È ferito?... Chi è stato?... Com'è stato?... Dinanzi al portone?... Hanno arrestato l'assassino?... Un dottore?... Dove sono le guardie? Dove sono i carabinieri... Non si trovano mai?... Povero signore!... È solo in casa?... Meglio portarlo all'ospedale... Ma era un ladro?... A quest'ora?... In una strada come questa?... Chi era?... Che voleva?... Il cameriere è in casa?... È in casa, bisognerebbe avvertirlo...»
La sora Rosa, infatti, passò innanzi, salendo a due a due le scale, mentre la sedia col ferito procedeva lentamente, seguita da una mezza dozzina di persone, ciascuna delle quali diceva la sua. Giunta sull'ultimo pianerottolo, la portinaia vide schiudersi l'uscio del senatore. La Clelia, con aria di curiosità, chiese:
«Che succede? Che è questo rumore?...» «Hanno ammazzato il deputato!...» le gridò la sora Rosa, con le mani nei capelli.
«Gesù! Come?... Perché?...»
Ma l'altra non le rispose, soffiando forte e attaccandosi al campanello elettrico. Antonio, aperto l'uscio, viste quelle due facce sconvolte, udite le loro parole affannose, non comprese sulle prime, a bocca aperta dallo sbalordimento.
«Il vostro padrone!... Lo portano su!... L'hanno sparato!...»
«Il padrone?...»
E si precipitò per le scale. Già i portatori, quantunque si fossero dato il cambio più volte, erano giunti sull'ultimo ripiano. Tra le parole costernate, i consigli, i suggerimenti, la sedia col ferito entrò per l'uscio spalancato.
La Clelia, rimasta ancora un momento sull'uscio suo, tornò dentro e andò difilato nel salotto dove la padroncina leggeva, aspettando l'ora del pranzo.
«Signorina... Signorina... Non sa?... Non ha sentito?...»
«Che c'è?»
«Hanno ammazzato il deputato Francalanza... lo portano su in questo momento...»
Renata sorse in piedi tutta smorta in viso; il libro le cadde dalla mano distesa a cercare istintivamente un appoggio.
«Par morto, o muore: non so... Signorina, che ha?... Gesù mio, signorina!...»
«Dio!...»
La breve parola le uscì sibilando dalle labbra pallide e frementi; gli occhi si dilatarono, rotearono, vuoti di sguardo; le mani si congiunsero al seno, comprimendolo forte.
«Dio!...»
E ad un tratto ricadde, irrigidita.
«Signorina mia!... Signorina mia!... Non mi faccia paura anche lei!... Si faccia coraggio!... Gli vuol bene: è vero?... Me n'ero accorta!... Sono stata una stupida!...»
«Morto, hai detto?... Morto?...»
«Ma no, non sarà morto... è ferito, è svenuto, guarirà, stia sicura... Non sente?... Una carrozza... Il dottore!...»
Allora la fanciulla si risollevò. Disse, brevemente: «Vieni, andiamo...»
«Che vuoi fare?»
«È solo, andiamo ad assisterlo.»
Parlava con un accento così risoluto, che la donna non tentò di opporre una sola parola, seguendola. E appena entrò in casa del ferito, appena fu dinanzi alla gente assiepata intorno al letto, il viso le si ricompose così, che nessuno poté sospettare l'angoscia che le attanagliava il cuore. Con voce dolce e ferma pregò gli astanti che si scostassero, che non togliessero l'aria al giacente; e, scorto il viso cereo, gli occhi vitrei, il corpo sanguinoso e abbandonato, non un moto la tradì.
«Preparate dell'acqua, una brocca, una catinella...»
«Clelia vai a prendere il cotone fenicato, nell'armadio della mamma... Una spugna, una forbice, qualche tovaglia...»
Il dottore, arrivando con l'ispettore di polizia, trovò tutto pronto. Gl'intrusi furono allontanati: ella restò, con la Clelia ed Antonio, vicino al letto. L'abito fu tagliato addosso al ferito, fu tagliata la camicia e il corpetto intorno alla spalla; egli trasalì, le labbra sibilarono ad uno strappo. Apparve la carne bianca dell'omero, apparve lo squarcio della ferita. Ella chiuse un istante gli occhi, poi li riaperse.
«La spugna... Accosti la catinella... Mi passi l'asciugamano...»
Il dottore si rivolgeva a lei; ella lo assisteva, come se avesse passato la vita in una clinica chirurgica. Chiuse ancora gli occhi, strinse forte le mascelle quando col ferro il sanitario frugò nella ferita, strappando un gemito al paziente. Tornata padrona di sé, domandò a bassa voce:
«È grave?...»
«Non credo.»
Allora respirò più liberamente.
«L'emorragia è arrestata. Bisognerebbe spogliarlo del tutto; occorre qualche striscia di tela...»
Ella corse a casa, fece a lembi un lenzuolo; quando tornò di là, il ferito era sotto la coltre, col busto eretto, appoggiato a un monte di guanciali e di cuscini: dalla camicia da notte aperta e squarciata sulla spalla destra, appariva il petto nudo, bianco e grasso quasi quello d'una donna, appena ricoperto sullo sterno da una lanuggine bionda. Quella nudità era fatta casta dalla ferita, dal sangue, dal pericolo di morte. La fanciulla dette ancora opera alla medicazione, come una suora, silenziosa ed agile, pronta ad ogni cenno del sanitario. Il ferito tornava in sé, girava gli occhi, moveva il capo. Ella si chinò su lui, gli disse, con un tenue sorriso:
«Francalanza, mi riconosce?... Siamo qui noi!... Il dottore assicura che non è nulla... Come si sente?...»
«Grazie...» rispose egli, guardandola. «Bene... meglio...»
«Ha bisogno di qualche cosa?... Ha sete?...»
«Sì...»
Ella stessa gli sorresse la testa e gli accostò il bicchiere alle labbra.
Squillò il campanello del telefono; la notizia dell'attentato si era diffusa; dalla Cronaca, dagli altri giornali, da Aragno, dai ministeri cominciarono a chiedere informazioni e particolari. Poco dopo, sopravvenendo le prime visite, Renata si ritirò, dando ordine alla Clelia di restare a disposizione del dottore e di chiamarla quando la gente se ne fosse andata. Ma, fino dalle prime parole rivolte al ferito da giornalisti, da colleghi, da amici, il dottore espresse il timore che la commozione potesse riuscire dannosa, e pregò gli astanti di ritirarsi. Il salotto, lo studio e l'anticamera rimasero pieni fino a tardi di gente; ma quando lo stesso Durante lasciò la camera del paziente, assicurando che tutto procedeva bene, le persone cominciarono ad andarsene. A mezzanotte lo stesso chirurgo, visto che il ferito riposava tranquillamente, diede le ultime raccomandazioni alla Clelia e ad Antonio, e andò via. La Clelia passò ad avvertire la signorina. La cuoca, venuta a schiuderle l'uscio, le disse che la signorina non aveva quasi assaggiato il desinare tenutole in caldo, e che si era ritirata in camera sua.
«Povera signorina!... È un gran colpo per lei!... Adesso bisognerebbe avvertirla...»
«Di che?»
«Che non c'è più nessuno, di là...
«Vuol tornarci ancora?»
«Non so, m'ha detto di chiamarla...»
«Ma riposerà?...»
Ella apparve sull'uscio dell'anticamera, lieve come un'ombra.
«Signorina sì, anche il dottore.»
«Solo lui.»
«Andiamo.»
Le due donne tentarono di dire qualche parola per consigliarla a restare in casa e ad andarsene in letto; ella rispose, con voce dolce e ferma:
«Non possiamo lasciarlo solo, tutta la notte. Vieni.» Non trovò l'infermo così calmo come aveva sperato. Respirava con affanno, scuoteva il capo nel sonno grave; brividi nervosi gli passavano per le braccia e le mani.
«Che ha, signorina?» le domandò con voce bassa ed inquieta Antonio, additandolo «Da qualche momento, da che è andato via il dottore, si agita, pare che soffra...»
«Soffre...» rispose ella, chinandosi a guardare l'infermo. «Che ha detto il dottore?»
«Di dargli qualche cucchiaio di quella pozione che è sul canterano, se si desta...»
«Bene. Se volete andare a riposare, resto qua io.»
«Riposare? Non ci mancherebbe altro!»
«Tu, Clelia, torna a casa, o buttati qui sopra un divano. Io resto.»
«Resto con lei.»
«Fa come vuoi.»
Si pose a sedere sopra una poltrona, accanto al letto, con le spalle alla lampada, gli occhi rivolti all'infermo. Poco andò che udì il respiro forte dei due servi addormentati, Antonio nella stanza attigua, la Clelia in un angolo della stessa camera. Dalla via non saliva un rumore; solo di tanto in tanto, di lontano, veniva il fragor sordo d'una carrozza. Ella restava come assorta, con le mani congiunte, nella contemplazione di quel viso bianco e biondo. "Bisogna salvarlo! Bisogna che viva!" Passato lo stordimento e l'ambascia del primo istante, dispersa la prima paura che egli fosse già morto, questo era il pensiero che l'aveva sostenuta e dominata. Perché egli vivesse, perché fosse salvo era accorsa, aveva represso la commozione violenta, aveva data e dava l'opera sua. Era entrata nella casa d'un giovane, lo vegliava seduta al suo capezzale: nulla le importava ciò che ne avrebbero osservato i suoi o gli estranei. Se anche quel ferito fosse stato uno sconosciuto, gli avrebbe prestato le sue cure egualmente; ma una tenerezza gelosa la teneva a quel posto; vigile, inquieta e trepidante dinanzi all'uomo che era il suo pensiero, soave e tormentoso da anni. Forse egli non s'era neppure accorto del suo sentimento: che importava? Egli non aveva bisogno di lei; ma ella viveva di lui. Ne ammirava la vivacità dell'ingegno, il calore della parola, le piaceva il suo nome antico e sonoro; prediligeva con la fantasia, senza ancora conoscerla, la terra infocata e odorosa nella quale era nato e dalla quale veniva. Lo dicevano ambizioso: ella giudicava legittima e nobile l'ambizione di un uomo che aveva la sua posizione sociale, la sua cultura, la sua attitudine alla vita pubblica. Non tutto le piaceva in lui: certe professioni di scetticismo che aveva udito uscire dalle sue labbra, certe ironie, certi sarcasmi le erano stati cagione di contrarietà e di dolore. Anche quel giorno, al teatro Valle, durante la conferenza, non aveva condiviso tutti gli entusiasmi della sua anima: pure ammirando l'abilità delle argomentazioni, qualche cosa l'aveva scontentata: le note umoristiche troppo ripetute, il rigore dell'attacco contro le speranze d'un migliore assetto della famiglia umana, la mancanza d'un caldo soffio di simpatia animatrice. Ma gli stessi suoi difetti la stringevano a lui, eccitando il desiderio, il bisogno, la fede, di correggerli, se un giorno avesse potuto metterglisi a fianco e illuminarlo e ispirarlo. Ora egli giaceva sopra un letto d'agonia, col petto squarciato per aver professato pubblicamente quell'idee da lei non condivise interamente; e dinanzi all'effetto malefico ella non si sentiva più sicura nel giudizio di poco prima. Aver significato apertamente e solennemente un pensiero che stava quasi per costargli la vita, era stato un atto di stupendo coraggio civile! Doveva egli forse temperare l'espressione del proprio pensiero e cercare qualche ipocrita accomodamento per evitare il pericolo? Andargli incontro era stato degno d'un uomo forte e cosciente. Nel mondo anch'ella vedeva ora una lotta necessaria, fatale, se la semplice espressione d'un concetto sociale e politico si pagava col sangue; se il fanatismo armava la mano d'un uomo contro un altro colpevole solo di non pensar come lui. Ella poteva dolersi che il fanatismo esistesse, che le opinioni non fossero uniformi e concordi, che l'amore non governasse il mondo; ma l'uomo che aveva esercitato il diritto di enunziare le proprie idee, aveva anche compito un nobile, un alto, un santo dovere, ed era degno di tutta l'ammirazione e di tutta la pietà ora che giaceva sopra un letto di dolore. Ella stringeva forte le mani una contro l'altra udendo l'affannoso respiro del ferito, le torceva nell'impotenza di far nulla per alleviarne la pena. Vedendolo dare un sussulto più grave degli altri, sorse in piedi, si chinò su lui, gli prese una mano. Era calda di febbre.
«Consalvo... Consalvo...» gli disse, sottovoce, ma quasi all'orecchio, chiamandolo la prima volta col suo bel nome, tante volte ripetuto mentalmente e sussurrato; ma egli non udiva, immerso in un egro sopore, e un'eco le restava dentro: "Salvo... salvo..." come una speranza, come un augurio.
Lasciò la sua mano, tornò a sedere, a contemplare il viso febbricitante, con gli occhi aridi e fissi. Bisognava salvarlo: era troppo crudele che quella giovane vita perisse così, sia pure sopra un campo di battaglia, per un'idea. E quell'idea, se era legittima, se rispondeva alla realtà delle cose, non era, no, generosa! Una voce, dentro di lei, nonostante tutti i tentativi di persuasione contraria, le diceva che dimostrare inevitabili i mali sociali e impossibile ogni rimedio, poteva esser cosa che la ragione approvava, ma non il cuore. Morire per tentar di redimere gli uomini era divino; per togliere loro ogni speranza, inumano. Ed ella non voleva che l'uomo da lei amato lasciasse la vita in quella avventura: voleva vederlo salvato a un più degno destino; e poi, e prima, a sé stessa, all'amor suo!...
La notte scorreva così, tacita e lenta. La Clelia, destatasi, venne un momento in punta di piedi vicino al letto, per chiederle se avesse bisogno di nulla.
«Nulla; va! va a buttarti sopra un divano...»
Con gli occhi grevi di sonno, la donna obbedì. Nell'anticamera, al rumore del suo passo, Antonio si destò: Renata udì i due servi parlare un poco piano fra loro; poi le voci si spensero. L'infermo era adesso più tranquillo, e il respiro più facile. Ella gli toccò ancora la mano: le parve che fosse meno calda. Non la lasciò così presto come la prima volta. La presenza della donna, quantunque addormentata, l'aveva trattenuta; sola, si sentiva ora più ardita. Ma, ad un tratto, la testimonianza della propria coscienza le fece salire una fiamma alla fronte. "Che faccio!..." disse tra sé. Era stata sul punto di chinarsi su quel viso, di baciarlo. Restò un poco in piedi appoggiata alla sponda del letto, guardando con tutto l'ardore della sua passione il viso bello e maschio; poi tornò a sedere, a immergersi nei suoi pensieri. A poco a poco, le ciglia cominciarono a calarle sugli occhi stanchi dalla lunga veglia; ma ella reagì, con una tensione della volontà, dell'immaginazione, di tutta l'anima. Se si fosse destato, nessuno ormai gli era vicino. Che vita, quella d'un uomo solo senza un affetto sul quale poter fare sicuro assegnamento! Egli, e tutti i giovani suoi pari, la conducevano per amore della libertà, senza pensare ai giorni della solitudine triste; e quante volte ella si era sentita stringere il cuore all'idea delle altre donne, delle molte donne che avevano tenuto e continuamente tenevano qualche posto nella sua vita! Non erano venute anch'esse, assiduamente o per una notte, in quella casa, in quella camera? Non vi avevano lasciato qualche cosa dell'esser loro, un'eco della loro voce, una traccia del loro profumo, una forcella dei loro capelli? Non sarebbero tornate, alcune, le preferite, le meno volgari, udendo che egli giaceva in letto, ferito? E le pareva che esse entrassero realmente in quella camera, silenziose e guardinghe; che si avvicinassero a lui, che lo baciassero, senza i suoi scrupoli. Una, particolarmente, l'amante del cuore, significava, con la sicurezza dell'incesso, con la risolutezza degli atti, il dominio esercitato sul giovane; e nello scorgere lei, le rivolgeva uno sguardo di superbo disprezzo. Si impadroniva della casa e dell'infermo, giudicava mal fatta ogni cosa; la medicazione, la disposizione dei guanciali, il grado della luce. Abbassava la lampada, e nella penombra saettava contro di lei sguardi pungenti di scherno. "Che fa, qui costei?... Chi è questa intrusa?... Ti ama?... Ma tu non l'ami, tu; non le hai detto mai che l'ami; tu ami me, sei mio, e non sai che farti dell'amor suo!..." Lo teneva per mano, lo baciava sulla bocca, e col nuovo giorno al sopravvenire del dottore, della gente, riceveva tutti, dava spiegazioni ai visitatori ed ordini ai servi. La Clelia, venuta accosto alla sua padrona, le diceva: "Venga via; qui non è il suo posto; non vede che tutti la guardano?...". Ma ella non riusciva ad alzarsi, appesantita su quella poltrona, con le gambe divenute come di sasso. E tutta la sua persona si veniva pietrificando, a poco a poco, dalle gambe al cuore, che batteva con la rigidità d'un martello, e che poi si induriva anch'esso, si rapprendeva, orribilmente; finché, nel punto del massimo spasimo ella si destò. Aveva sognato, aveva dormito, non sapeva quanto tempo: la notte era sempre alta, nessuna voce, nessun rumore tutt'intorno. Guardò l'infermo: aveva gli occhi aperti, la guardava tacitamente. Ella sorse e gli si fece dappresso.
«Siete desto?... Come vi sentite?...»
Consalvo chinò un poco il capo, con un ambiguo segno d'assenso.
«Meglio, è vero?... Vi sentite meglio?... Vi siete destato da un pezzo?»
«Non potete parlare?»
«Sì...» rispose, pianissimo. Poi soggiunse: «Ma voi, qui...»
«Non pensate a me. Eravate solo, son qui ad assistervi. Avete bisogno di nulla? Volete che chiami Antonio?»
«Ho sete.»
«Subito... Ma prima bisogna che prendiate qualche cucchiaiata di questa pozione, ha detto il dottore... Aspettate... appoggiatevi... così...»
Ancora una volta gli resse il capo e gli diede la mistura.
«È sgrata?»
«No...»
«Volete ancora dell'acqua?»
«Sì...»
«Non so.»
«No, fortunatamente non ce n'è più. Vedrete che guarirete rapidamente.»
«Vi ringrazio dell'augurio... Come siete buona...» Gli rispose solo con un tenue sorriso.
«Manca molto a far giorno?» domandò egli ancora.
Fattasi alla finestra, ella scorse il primissimo chiarore dell'alba in fondo al cielo.
«Comincia appena ad albeggiare.»
«Avete passata tutta la notte sopra una poltrona! Come ne sono dolente...»
Poiché parlava con qualche stento, ella protestò:
«Vi prego di non affannarvi per me; ho passata la notte benissimo.»
«Ne sono dolentissimo... ora andate a riposare, vi prego...»
«Sì, ora andrò. Vi manderò Antonio: va bene?»
«Sì, grazie... Era venuta molta gente?»
«Molta gente, iersera. Amici vostri, colleghi, giornalisti. Non li avete uditi?»
«Poco, soffrivo. Che dicevano?»
«Erano tutti inorriditi, dicevano che solo un pazzo poteva aver commesso quell'atto.»
Egli fece ripetutamente segno di no col capo.
«Lo conoscete?»
«Vi parlò?»
«Sì... come uno che sa bene quello che fa!...»
«E non concepiste nessun sospetto? Non aveste tempo di salvarvi?»
«In qual modo?»
Egli disse in atto e con voce di filosofica rassegnazione:
«Sono gli incerti del mestiere!... Ora andate, andate, ve ne prego...»
Le stese la mano. Ella gli diede la sua.
«Buona, buona!... Voi siete tanto buona...»
E la guardò negli occhi. Ella non sostenne quello sguardo lucente di gratitudine e di tenerezza. Sentì che egli attirava la sua mano, che l'accostava al proprio viso; e non seppe, o non volle o non potè ritirarla: il giovane vi impresse le labbra tepide e frementi.
«No» disse ella, finalmente ritraendola. «Addio... arrivederci...»
E tutta Roma fu piena della notizia, gridata dai giornalai, diffusa per i caffè, per gli uffici pubblici, telefonata e ripetuta da tutte le parti: Federico, uscendo di casa, non udì parlare d'altro. Le espressioni di rammarico erano universali; ma lo sdegno dei moderati prorompeva acre e violento contro i partiti estremi, alla propaganda dei quali era direttamente addebitato il tentato omicidio. I giornali nemici del ministero, particolarmente, s'impadronivano del ferito, mostravano la sua piaga a tutta l'Italia, facevano ricadere il suo sangue sul capo di coloro che avevano coscientemente eccitato l'istinto feroce d'un incosciente, predicando l'odio e la vendetta sociale. Interrogato l'assassino, verificate le sue affermazioni, si seppe che costui, un certo Lorani, umbro, non era ascritto al partito socialista, che non aveva neppure assistita alla conferenza dell'onorevole Francalanza; che era uno sciagurato senza arte né parte mandato via per mala voglia di lavorare e stravaganza di idee da tutti i padroni presso i quali era stato impiegato in luoghi diversi; che era arrivato a Roma da qualche settimana e non mangiava da due giorni, che era passato per caso dinanzi al teatro Valle quando la folla ne usciva, ed aveva saputo da un passante perché tanta gente si era adunata e che cosa il deputato aveva detto; che s'era messo a seguire il gruppo di persone tra le quali gli avevano additato l'oratore e che lì per lì aveva concepito l'idea di sfogar su di lui la rabbia della fame. Invano, sulla fede di queste notizie, i socialisti, i repubblicani, i radicali ricusavano ogni responsabilità nell'accaduto, tentavano di assegnare all'avvenimento il suo giusto carattere contro ogni esagerazione ed ogni preconcetto: tutti gli altri lavoravano a gonfiarlo, a farne il sintomo d'una condizione di cose intollerabile. Telegrafata a giornali di provincia, poco esattamente, la notizia era commentata dai monarchici piemontesi, dai moderati lombardi, dai conservatori meridionali con giudizii roventi che telegrafati a loro volta a Roma, mettevano nuova esca al fuoco. L'onorevole di Francalanza era un'insigne vittima dell'abuso della libertà, della licenza imperversante: egli cresceva da un momento all'altro sino alla statura d'un eroe. Solo fra tanti pusillanimi che gridavano a quattr'occhi contro le aberrazioni democratiche, ma non ardivano metter fuori la punta del naso, opporre propaganda a propaganda, egli aveva dato prova di ammirabile e raro coraggio scendendo in mezzo al popolo per fare udire apertamente, nitidamente, serenamente la voce della ragione; e la prima volta che in Roma, nella capitale di un libero Stato, un libero cittadino tentava di esprimersi liberamente, uno di coloro ai quali le sue opinioni non garbavano, gli rispondeva con una stilettata. Il pugnale del Lorani aveva colpito, sì, il petto d'un ragguardevole cittadino, di un rappresentante della Nazione; ma, oltre quella vita umana, aveva ferito qualche cosa di più sacro ancora; di più necessario e prezioso a tutti: la libertà. Il suo simulacro era battuto dalla mano del Terrore. La demagogia, invitata a ragionare, non trovando argomenti da opporre, ricorreva alle armi corte. Questa volta era toccata all'onorevole di Francalanza; la prossima a chi? Nessuno avrebbe potuto più significare un'idea sgradita ai tiranni imberrettati di frigio, senza correre il rischio di finire accoppato. Ma era tutta e soltanto loro la colpa? No, no; non era giusto asserirlo. Essi avevano fatto e facevano il loro mestiere; la colpa era di chi aveva il dovere di opporsi alle loro insane teorie; alle loro folli pretese, alla loro velenosa propaganda, e che invece di compiere questo dovere aveva trescato con loro, fedifrago alla Patria e al Re.
Dopo il tocco, Federico si recò a far visita al deputato. Trovò il letto circondato da una folla di gente: lo stato del ferito era tanto soddisfacente, che il dottor Durante gli aveva consentito di ricevere, di parlare. Egli narrava e rinarrava la storia dell'aggressione, tutto ciò che aveva fatto all'uscita del teatro fino all'arrivo dinanzi al portone di casa e all'incontro con l'aggressore; e a quanti lo interrompevano per osservare che naturalmente era stato colto alla sprovveduta, rispondeva al contrario che fin dal primo momento aveva capito le intenzioni ostili del malfattore. Era stato avvertito del pericolo, soggiungeva, fin dall'annunzio della conferenza; una lettera anonima lo aveva sconsigliato dal pronunziarla perché poteva costargli qualche grosso dispiacere.
«E non vi siete armato?... E non ti sei fatto seguire da qualche guardia?...»
Egli scrollava il capo, dicendo con accento di grande semplicità:
«A che pro?... Né le armi né le guardie giovano, in simili casi.»
«Ma allora perché ti sei lasciato accostare?... Come non vi siete messo sulla difesa?...»
«Dovevo fuggire?... dovevo gridare occorruomo?»
E tutti riconoscevano, che, realmente, non c'era nulla da fare; ma il suo coraggio rifulgeva e costringeva tutti all'ammirazione, rasentando per taluni la stessa temerarietà. E quanto sangue freddo, nel dire al portinaio che "credeva" soltanto di esser ferito, nell'ordinargli di trasportarlo su e di chiamare il dottore!... Egli si schermiva dalle lodi; diceva che non c'era niente di straordinario in quel che aveva fatto. Il pugnale, spiegava, era prodigiosamente passato fra il polmone ed il cuore; ma la ferita era abbastanza profonda.
«Ho sentito però con molto piacere,» osservò Federico «che la guarigione è questione di giorni.»
«Forse di qualche settimana» corresse egli; «ma, insomma non c'è nulla di grave.»
«Questa è una circostanza fortunata,» osservò l'onorevole Marazzi «della quale noi tutti ci rallegriamo; ma non menoma per nulla la gravità del fatto, che è enorme.»
Voci concordi esclamavano tutt'intorno:
«Enorme, mostruoso, intollerabile...»
«Milesio dovrà oggi renderne conto, non ne potrà uscire con le solite barzellette...»
«Sperate che si ravveda? Fiato sprecato!...»
«Preparatevi al peggio!»
«Guardiamoci tutti che non facciano la pelle anche a noi!»
L'onorevole Finocchiaro, uomo di sinistra, ministeriale, osservò:
«La disgrazia toccata al nostro collega...»
«La chiamate disgrazia?» interruppero gli altri con voce grossa.
«Dite delitto! Dite assassinio!... Altro che disgrazia!... Qui si assassina la gente!...»
«Sì, è un delitto...»
«Al quale siamo arrivati per merito dei vostri amici, del vostro governo...»
«Scusate, scusate, non esageriamo...»
«Ah, parlate già di esagerazione? Avete il coraggio di parlare di esagerazione, qui, dinanzi a un uomo accoltellato?... E non siete stati voi, con le vostre teorie liberali, con la vostra politica democratica, che avete permesso il dilagare dei principii sovversivi, l'ordinarsi delle forze rivoluzionarie?...»
«Nessuno più di me deplora... Nessuno più di me deplora...» tentava di dire il Finocchiaro; ma gli altri lo investivano, ad una voce, con gli occhi fuori della testa, con gesti violenti:
«Deplorate, piangete le lagrime del coccodrillo, a quest'ora!... Dopo che il male è fatto!... Dopo che è quasi irrimediabile!... Bisognava deplorarlo prima, bisognava; non mettervi coi fautori dei settarii e degli assassini...»
«Creda, collega... fece allora l'altro, rivolgendosi direttamente al ferito; e Consalvo, fra le voci iraconde dei suoi amici, gli rispondeva:
«Ma certo, ma certo... le sono tanto grato... non dia retta...»
Allora il Marazzi si rivolse contro di lui:
«Che cos'è?... Gli dai ragione anche tu, adesso?... Giudichi che abbiano ben fatto a pugnalarti? Ti dispiace che non t'abbiano sgozzato addirittura?»
«Andiamo!... La mia persona non c'entra...»
«Non c'entrerà per te; tu sei padrone di buttarti nel Tevere quando ti piace... Ma qui la nostra libertà, la nostra vita sono in giuoco, se non pensiamo a difenderle, come in un bosco, in mezzo ai briganti!...»
E tutti gli altri facevano eco, mentre Consalvo taceva, con gli occhi socchiusi, come se quel frastuono cominciasse a stancarlo: "Bisognava dare una stretta ai freni!... Far macchina indietro!... Mandare via i traditori del Paese!... Affidare il governo a gente capace di opporre un argine alla marea progrediente, che minacciava di travolgere ogni cosa!...".
«Alla Camera!... Alla Camera!... Sono le due!... Alla Camera!...»
Federico profittò dell'uscita dei deputati per andar via anche lui, per seguirli a Montecitorio.
L'aula era più affollata del consueto; nella tribuna della stampa i giornalisti commentavano vivacemente l'attentato; si rinnovava la disputa avvenuta in casa Francalanza; tranne che non c'era più un solo ministeriale in mezzo a una muta di oppositori, ma due partiti press'a poco uguali, quindi alle accuse dei conservatori i liberali rispondevano per le rime: L'Uzeda era stato ferito? La cosa era dispiacevole; ma pezzi più grossi di lui erano stati aggrediti, colpiti ed uccisi! Che si poteva farci? Ah, sì: buttar giù il ministero!... Così i matti e i fanatici sarebbero scomparsi dalla faccia della terra! Perché non s'era guardato? Perché non aveva portato con sé uno stocco o un revolver? Insomma, che cos'era questa ferita? Era moribondo, sarebbe rimasto storpiato o deturpato?... Ma gli altri rincaravano la dose delle accuse e delle ironie. Ma sì! ma sì!... Un semplice salasso!... Una precauzione igienica, nell'imminenza dell'estate!... Ciascuno si munisse di stocchi e di revolver, di cotte e di elmi: si battagliasse per le strade, come ai felici tempi di mezzo!... Il ministero doveva essere rovesciato fin dai suoi primi atti di follia demagogica; ormai il male era fatto, e forse irreparabile. Cieco chi non lo vedeva! Ma domani te ne avvedrai, come diceva il piovano Arlotto!...
La scampanellata presidenziale ridusse tutti al silenzio. Il Biancheri, dall'alto del suo seggio, cominciò a parlare, dicendosi dolente di dovere annunziare alla Camera che un collega, l'onorevole Consalvo di Francalanza, era stato la sera precedente, vittima d'un odioso attentato.
«Io compio il dovere di portare all'infermo le espressioni della condoglianza non soltanto mia, ma di tutta la Camera (Bene) e sono certo d'interpretare il sentimento unanime dell'assemblea rinnovando qui, oggi, l'augurio che il nostro onorevole collega ci sia al più presto restituito perfettamente risanato, affinché egli possa tornare alle lotte nobili e pacifiche del pensiero, le sole feconde...»
Il Presidente si diffuse ancora un poco sull'iniquità inutile delle brutali e proditorie aggressioni, indi comunicò l'interrogazione presentata dall'onorevole Marinuzzi. Il capo del Gabinetto sorse in piedi per dichiarare che, prima d'ogni cosa, si univa alla Camera, in nome del Governo, nello stigmatizzare il tentato assassinio e nel far voti per la pronta guarigione dell'egregio collega. "Sono lieto di annunziare che il colpevole è stato assicurato alla giustizia, la quale fa il suo corso e pronunzierà il suo verdetto; ma già vi sono tutte le ragioni per credere che l'omicida non sia nel pieno possesso delle facoltà mentali..."
«Bel conforto!... La solita scusa!... È vero!... Silenzio!...»
Il Presidente fu costretto a scampanellare per far tacere gli interruttori:
«L'onorevole di Francalanza» continuò il Milesio «aveva tenuto al teatro Valle una conferenza d'argomento sociale, applaudita dagli aderenti e ascoltata con deferenza dagli avversarii...»
«Alla grazia della deferenza!... E i disturbatori messi alla porta?... C'era un accordo!... C'era un complotto!...»
«Qualche contrasto avvenuto in principio fu senza importanza e potè esser sedato con meno fatica che non debba talvolta sostenere l'onorevole nostro Presidente quando parla qui dentro qualcuno di noi...»
Molti deputati risero, dissero bravo; mentre all'opposizione, voci acri gridarono: «Anche la barzelletta!... Questo è cinismo!... Ma non si vergogna?...».
«Ripeto che la giustizia segue il suo corso; e che bisogna aspettare le conclusioni; ma da ciò che finora risulta, non pare che l'omicida avesse complici, che premeditasse il delitto. Il Governo prese tutte le precauzioni necessarie ad assicurare la libertà di parola al conferenziere.»
«E di azione all'assassino!» gridò una voce. Altre si levarono qua e là concitate; nella tribuna della stampa esclamazioni di plauso e di biasimo scoppiarono e s'incrociarono; il Presidente dovette scampanellare ancora, più volte: «Onorevoli colleghi!... Ma onorevoli colleghi, lascino parlare il ministro...».
«... L'ordine fu assicurato dentro e fuori il teatro; il nostro egregio collega attese a molte cose dopo che ne fu uscito; l'autorità di pubblica sicurezza non credette che egli corresse più pericolo e giudicò finito il proprio dovere...»
«Ebbe torto!...»
«Il delitto del quale l'onorevole di Francalanza è stato vittima è di quelli che riesce impossibile, con tutta l'oculatezza, prevedere e impedire. Noi lo deploriamo vivamente, in nome della civiltà, della libertà del pensiero, del rispetto al quale ha diritto la vita umana.»
Le ultime parole dell'oratore furono accolte da caldi applausi e il Presidente passò all'ordine del giorno. Ma, se la Camera passò ad altro argomento, non mutarono metro i fogli d'opposizione. L'attentato contro l'onorevole di Francalanza, colpevole solo di essersi opposto ai nemici dell'ordine, della proprietà e della famiglia, continuò a fare le spese dei loro articoli di fondo. E in cronaca, nelle ultime notizie, il bollettino medico, firmato dall'onorevole senatore Durante, annunziava lo stato dell'infermo: "Lieve reazione febbrile... Il processo di cicatrizzazione si compie regolarmente...". Consalvo, infatti, guariva rapidamente, troppo rapidamente, secondo il suo desiderio. Dal fondo del letto, per mezzo dei giornali, dei discorsi degli amici, egli vedeva e misurava l'effetto prodotto dall'accidente occorsogli, la simpatia e il credito procuratigli dall'attentato, la reputazione di coraggio, l'aureola di martirio che cominciavano a circondare il suo nome. E quasi gli dispiaceva che la sua vita non fosse stata realmente in pericolo, che la guarigione non avesse tardato un poco; ma perché la sollecitudine e la commozione dell'opinione pubblica si sarebbero proporzionate alla gravità della ferita, alla durata dell'infermità.
Ed ai visitatori che gli chiedevano come stesse, egli rispondeva, con voce fioca, che non si sentiva bene, che la piaga gli doleva, che la perdita di sangue gli aveva prodotto una grave reazione nervosa per la quale tutte le funzioni sensorie e vitali si erano indebolite. Una sera, Federico, il quale aveva già cominciato a sospettare che il deputato recitasse la commedia, ne fu certo: il Durante annunziò che il domani non sarebbe venuto e che il ferito poteva levarsi.
«No, dottore!...» rispose egli; «non mi sento ancora in forze.»
«Ma se non ha più niente?»
«Credete!»
«Ne sono certo. Levatevi, nutritevi bene, bevete molto latte, mangiate larghe fette d'arrosto: vedrete che tutto passerà...»
Nonostante, egli restò un altro giorno a letto, e cominciatosi ad alzare, ne passò parecchi altri ancora sopra una poltrona, con un bastone a fianco, al quale s'appoggiava penosamente quando aveva da muovere qualche passo in presenza della gente, col petto curvo, come un vecchio che uscisse da una lunghissima infermità. Intorno a lui era sempre un cerchio di persone, di deputati, di senatori, di giornalisti i quali parlavano del tema eterno: la politica liberalesca del Milesio, la necessità di mutare indirizzo di governo; e quando egli interveniva nella conversazione per esprimere il proprio parere, tutti stavano a udirlo con nuova deferenza, come un oracolo. Egli diceva, a voce bassa ma chiara, che la fede nella libertà non era in lui scossa per l'accidente toccatogli; che con la libertà e per la libertà bisognava governare e combattere; ma che, naturalmente, gli eccessi erano da evitare, e che bisognava avvertire il governo dei pericoli ai quali andava incontro: il Milesio era ancora in tempo a ravvedersi.
I più arrabbiati non approvavano queste opinioni, non volevano che all'"uomo nefasto" si desse quartiere; ma egli rispondeva a costoro che era espediente di buona politica lasciare allo stesso "retore liberale" l'ufficio di correggere gli errori della sua retorica; e a voce più bassa, agli intimi, spiegava che questo era anche il modo di perdere quell'uomo: se fosse caduto sostenendo le sue idee, si sarebbe potuto un giorno o l'altro rialzare più forte; appoggiato dagli antichi avversarii, staccato dai suoi amici si sarebbe liquidato. In verità, Consalvo non sapeva bene che cosa sarebbe accaduto, e quindi non era deciso intorno alla condotta da seguire. Per un momento, si era illuso che il pugnale del suo aggressore avesse ferito a morte anche il Ministero: la commozione del pubblico, l'eccitazione della stampa moderata, la sollevazione dei deputati conservatori gli erano parsi tali da travolgere il Milesio; ma, dopo l'esito dell'interrogazione, quando ebbe visto che non una foglia era caduta, si persuase che l'avvenimento, se lo metteva in prima linea, se lo additava all'attenzione universale, non era tale che egli potesse sperarne maggiori immediati vantaggi. Cominciando ad uscire, andando alla Cronaca, alla Camera, nei pubblici ritrovi, misurò dalle calde accoglienze, dalle deferenti e reverenti espressioni, dalle mute ma eloquenti strette di mano, l'improvviso aumento del suo credito; ma la segreta sfiducia tornava a tormentarlo: anche la pugnalata sarebbe stata invano: già la commozione era sedata; col tempo, nessuno avrebbe più pensato al suo caso. La prima volta che era uscito di casa, aveva fatto una visita ai Corradi, per rendere le dovute grazie alla contessina. Non l'aveva più vista dalla notte, che, destandosi, se l'era trovata vegliante al capezzale e che aveva baciato la sua mano. Aveva pensato a lei, durante la convalescenza, con un senso d'intimo compiacimento, certo ormai che la fanciulla lo amava e persuaso che quell'amore gli era dovuto; ma senza esserne turbato se non perché l'amore di una fanciulla per un uomo come lui deciso a non incappare nei vincoli matrimoniali, poteva essere un poco imbarazzante. "Se crede che la sposi!..." diceva tra sé; ma, col fermo proponimento di restar libero, non credeva necessario significarlo, né fare il crudele respingendo senz'altro i muti omaggi, la discreta adorazione della giovane; anzi, non gli pareva mal fatto di mettere qualche esca al fuoco, solleticato nella vanità, ricordandosi i tempi della prima gioventù, i trionfi galanti riportati in Sicilia con signore, con donne di umile stato e con le stesse creature perdute. La contessa era in Roma; e come tutti i pomeriggi, aveva una quantità di visite. L'entrata di Consalvo nel salotto provocò una dimostrazione di vivace simpatia: quasi tutte le signore giovani si alzarono, tutte le mani inguantate si tesero verso di lui, mentre il coro delle vocette femminili, acute e squillanti, intonò il saluto.
«Oh, Francalanza!... Francalanza, che bravo!... Perfettamente guarito?... Complimenti, principe!... Rallegramenti, onorevole!»
La contessa, fumando un grosso sigaro toscano, con gli occhi lagrimosi dal fumo, gli prese la destra con tutte e due le mani, gliela strinse come se non volesse più lasciarla.
«Bravo, Francalanza!... Bravo!... Sentite che coro?... Tutte queste signore sono entusiasmate... Voi siete l'eroe del giorno!... Non avete che da buttare il fazzoletto...» Renata lo guardò muta, con occhi di passione: egli le si accostò, le strinse la mano senza dirle una sola parola, ma forte, come se tra loro corresse una tacita intesa. Ella non godeva dell'accoglienza fatta dalle astanti, era anzi sordamente irritata dalle loro espressioni ammirative, particolarmente dalle parole, dagli atti della piccola Errera, la quale esclamava, con gli occhi rovesciati, con voce flebile, quasi sul punto di svenire:
«Come cadeste bene Francalanza!... Colpito al petto!... Da eroe!...»
«Per difendere la causa della società, della famiglia!...» rincaravano tutt'intorno; e donna Elisa, con nuovo sdilinquimento:
«Io mi rallegro con voi della guarigione: ma, se anche non foste guarito, se anche il colpo fosse stato mortale» e la manina faceva il gesto di vibrarlo «il vostro destino mi sarebbe parso invidiabile...»
«Questo poi!» esclamò la contessa.
«Invidiabile e mille volte preferibile alla piccola oscura vita dei mediocri, dei pusillanimi, degli imbelli.»
Egli si godeva il trionfo, modesto in tanta gloria, parco di parole, largo d'inchini, di sorrisi, di gesti che volevano significare: "Voi siete troppo buone!... Non ho fatto niente di straordinario!... Non merito tanto".
Mentre Renata serviva il the, la contessa lo richiamò al suo fianco per chiedergli, sotto voce:
«Come spiegate il rialzo della rendita?»
«Non so, contessa; non ho visto neppure i corsi.»
«Anche le azioni della Banca d'Italia sono in aumento. Durerà?»
«Che volete che vi dica! Vado attorno da così poco tempo!...»
«È vero. Ma v'informerete? Io riparto per Torino quest'altra settimana: fatemi sapere qualche cosa prima che vada via...»
«Non mancherò.»
Egli andò incontro a Renata che veniva ad offrirgli una tazza fumante.
«Ho sentito da vostra madre che riparte fra giorni?»
«Sì,» rispose ella brevemente.
«Ma partirete presto anche voi?»
«Anche a me hanno consigliato i bagni di mare. Probabilmente verrò a Livorno anch'io.»
Ella non rispose.
«Non vi ho detto ancora quanto vi sono grato del soccorso che mi prestaste...»
«Senza di voi, in quei primi momenti...»
Nelle parole della giovane, nel tono della voce, c'era qualcosa di freddo, di duro, quasi di ostile.
Egli pensò che fosse pentita del passo fatto entrando in casa di lui, vegliando al suo capezzale, per paura d'essersi esposta alla critica. Non sapeva che Renata di nulla era pentita, che aveva anzi narrato alla madre, al padre, semplicemente, ciò che aveva fatto per assistere il vicino. La irritavano ora le leziosaggini delle signore, la contrariava quell'accenno alla nuova partenza della madre; né, in quello stato d'animo, la promessa che egli sarebbe venuto a Livorno, fatta a quel modo, con una specie di sottinteso, le faceva piacere. In momenti simili a quelli, ella chiedeva a sé stessa se non fosse meglio dimenticare quell'uomo, studiare di strapparselo dal cuore, tanto la sua condizione le pareva sciagurata, tanto le pareva impossibile che egli l'amasse. Ma simili propositi erano di breve durata; e il pensiero di lui tornava tosto a signoreggiarla, e il suo nome udito pronunziare in mezzo a un discorso, letto in mezzo ad un articolo, le faceva salire le fiamme della passione alla fronte.
E il nome di Consalvo Uzeda tornava in quei giorni continuamente sui fogli. Dopo la conferenza sul socialismo e l'attentato, egli cominciava ad essere considerato come una delle forze del partito conservatore, in tutta Italia; esauriti gl'indirizzi gratulatori, gli piovevano ora inviti per ripetere la sua conferenza, in Piemonte, in Lombardia, nel Veneto; per tenere a battesimo bandiere e gonfaloni di società monarchiche in Romagna e in Liguria, per commemorare le glorie della Destra nel Mezzogiorno e nelle Isole. A poco a poco si sentiva trascinato a prendere un posto di combattimento che non aveva desiderato, al quale non si sentiva adatto. E mentre la gente ammirava il suo coraggio, lo esaltava come degno d'un eroe di altri tempi, lo giudicava più unico che raro nella codardia universale; la paura, l'antica secreta paura dei repubblicani, dei socialisti, degli anarchici, di tutti i rivoluzionari, tornava a stringergli il cuore. Egli si vedeva, direttamente additato al loro odio, alla loro esecrazione, da quegli inviti, da quelle lodi, da quelle esaltazioni. Finché si trattava di ringraziare, il rischio era poco; ma accettare gli inviti, fare il commesso viaggiatore della reazione, esporsi al fuoco della battaglia dopo avere ricevuta una prima stilettata, poco gli andava. Non aveva paura, no, di un altro attentato, di un'altra ferita, e neppure di morire in mezzo alle cure, al compianto universale: lo sgomentava l'idea della rivoluzione, lo atterriva la visione sinistra delle prigioni, della forca, della ghigliottina, delle teste livide sulle picche insanguinate; gli tremava il cuore pensando ai tribunali rivoluzionarii, ai comitati di salute pubblica, alle folle impazzate e avide di sangue. Ne aveva, certe notti, l'incubo; allora domandava a sé stesso come mai, con quel sentimento, s'era buttato nella politica; quale stolto consiglio, quale cieca ambizione lo avevano spinto a lasciare la vita del signore scioperato e ignorato, per quella dell'uomo di parte.
Ai troppo zelanti ammiratori, in quei primi giorni, ai troppo pericolosi inviti, rispondeva dicendo grazie e adducendo per esimersi, l'ancora malferma salute; ma non avrebbe potuto a lungo servirsi di quel pretesto; e, d'altra parte, se voleva farsi avanti, visto che per le altre vie non era arrivato, bisognava pure che accettasse quella nella quale si trovava posto dagli avvenimenti.
Ai primi di giugno, pregato dai colleghi romagnoli, di commemorare in Forlì il conte di Cavour, egli si vide costretto a dir di sì ed a partire. Si fermò un giorno a Bologna, invitato dal senatore Ricci; e mentre andava a pranzo da lui, udì gridare per le strade: «Supplemento alla Provincia! Supplemento alla Provincia! La caduta del Ministero!...». Non capì. Aveva lasciato a Montecitorio un'acqua morta, nell'imminenza delle vacanze, col caldo precoce di quell'anno: la Camera discuteva fiaccamente il bilancio dell'agricoltura...
Ebbe per un momento la tentazione di tornare subito a Roma, piantando Cavour e i suoi seguaci; ma comprese che non era possibile, dopo gli impegni presi. Aveva con sé il cifrario della Cronaca: telegrafò a Federico per sapere come andavano le cose. E leggendo che la sollevazione improvvisa si aggravava, che ai caduti non davano quartiere, egli fu sicuro che questa volta qualche cosa avrebbe ottenuto.
Federico, a Roma, assisteva al dietroscena della crisi, della quale, sulla Cronaca e sugli altri fogli, il pubblico aveva notizie laconiche e false. Mentre si annunziava che Milesio faceva portar via le sue carte dal ministero, si sapeva invece che egli metteva in moto tutte le sue influenze per restar al Governo, per ottenere l'incarico di ricomporre il Gabinetto. Il Presidente della Camera e del Senato lo avevano additato alla Corona; ma contro di lui era tutto un partito, a corte. Il giovane non credeva che questo partito esistesse, né che, esistendo, esercitasse una vera forza; ma, udendo le notizie che tutti ripetevano, nelle redazioni, nei ritrovi politici, era costretto ad arrendersi. Il Re, personalmente, nutriva simpatia per il vecchio Piemontese, ne apprezzava le antiche benemerenze, aveva resistito al lungo e paziente lavorio di coloro che glielo dipingevano come traditore della monarchia, come un Liborio Romano redivivo, e la sua resistenza era stata, dicevano, agevolata dall'indifferenza della "marchesa di Maintenon"; ma, dopo che l'ammiraglio Morin era uscito dal primo gabinetto Milesio, ed aveva preso posizione di combattimento contro l'antico collega, la marchesa aveva lavorato per il suo amico. In quei primi momenti della crisi, nessuno parlava ancora del Morin che neppure era in Roma; i parlamentari ostili ad una nuova "incarnazione" del Milesio consigliavano un accordo tra il suo avversario di Sinistra, il Baccarini, e il Bonghi, capo della Destra.
Consalvo tornò a casa raggiante. Quando giunse sul portone scendeva la sera, accendevano i primi lumi, come il giorno dell'attentato. Egli si guardò intorno con un sorriso interiore: da quel giorno era cominciata propriamente la sua fortuna. Senza l'attentato, senza la ferita, quanti anni ancora avrebbe vegetato, prima di ottenere un posto di sottosegretario in qualche Ministero di terz'ordine? In meno di due mesi la stilettata di un pazzo lo sbalzava a ministro dell'Interno, a vice Presidente del Consiglio, quasi Viceré come i suoi maggiori! Egli ringraziava in cuor suo il pazzo, ma poi reagiva contro la propria esagerazione. Senza i meriti reali, la stilettata non gli avrebbe giovato a nulla: nei lunghi anni d'attesa, coi discorsi, con le relazioni, con gli articoli, con le conferenze, le sue rare qualità erano state apprezzate, a poco a poco, tra i colleghi, in mezzo ai giornalisti, in una cerchia sempre più larga: egli aveva disperato, perché non si era reso ben conto di questo lento diffondersi della sua fama; ma un giorno o l'altro ne avrebbe avuta la prova e la misura, anche senza il rumore dell'attentato... La strada era deserta, come quel giorno; ed egli si avvicinava leggiero e sorridente al punto dove era stato colpito. Il rumore d'una carrozza scendente da S. Nicolò da Tolentino distrasse la sua attenzione: un legno signorile si avanzava, gli veniva incontro, si fermava sull'uscio di casa sua. Era la marchesa che riaccompagnava in casa Renata. La giovanetta balzò giù mentre Consalvo si avvicinava a salutare, col cappello in mano.
«Oh, Francalanza!... Non vi si vede più!... Siete stato fuori di Roma?»
«Sì, marchesa, sono stato un poco in Romagna.»
«Abbiamo sentito, abbiamo sentito...»
Egli aspettava che gli domandassero della crisi, per dare la grande notizia della sua entrata nel nuovo Gabinetto, ma Renata non diceva nulla e la marchesa gli stese la mano:
«Fatevi vedere, parleremo di tante cose. Addio, Renata: rammentati della mia commissione.»
La carrozza si mosse, i due giovani si trovarono insieme nel vestibolo, si avviarono insieme per le scale. Renata procedeva a capo chino, come contrariata dall'incontro, dalla inaspettata compagnia. Portava un abito color di malva tenera, una veletta della stessa tinta, che dava uno straordinario risalto alla carnagione rosea del viso, ai capelli d'oro della nuca dove era annodata.
«La contessa è ancora a Torino?» domandò Consalvo, per dire qualche cosa.
«Sì.»
«E il senatore?»
«Anche il babbo.»
La certezza che il turbamento della fanciulla procedente al suo fianco proveniva da lui, mentre già egli si sentiva il cuore gonfio d'orgoglio appagato, moltiplicava la sua soddisfazione interiore, la mutava in un sentimento di trionfante superbia.
«Fra giorni.»
«Beati voi. Io dovrò rinunziare ai miei disegni.»
Si struggeva di dirle che era stato chiamato da Morin, che era ministro dell'interno; ma, nel considerare il bel corpo agile della giovane, nel mirare le ciocche d'oro della nuca bianca, nel respirare l'odore un po' acre della veste muliebre, un altro turbamento si impadroniva di lui e metteva come un lievito di scontento nel suo trionfo. Egli era rimasto fino a quel giorno frigido dinanzi a Renata; non lo aveva infiammato la prova d'amore datagli dalla fanciulla accorrendo al suo capezzale dopo l'attentato; non il ricordo del bacio impresso, quella notte, sulla sua bianca mano: ora, la prima volta, nella cupidigia della improvvisa fortuna, nella voluttà dell'ambizione soddisfatta, egli sentiva un'altra cupidigia e il bisogno di un'altra voluttà, tutta fisica, tutta sensuale: come aveva contentata la sua lunga brama del potere e della gloria, così voleva ora poter saziare un'improvvisa sete di baci su quella nuca, sottoporre e possedere quel corpo, sbramare ad un tratto tutti gli istinti, ottenere in una volta tutte le prove della propria potenza.
«Avete rinunziato a Livorno?» gli domandò ella, dopo un breve silenzio.
«Rinunziato?... Per forza!»
«Che cosa vi trattiene?»
«La crisi!»
«Infatti...»
«Non se ne sentiva propriamente il bisogno, in questa stagione, quando d'ordinario i lavori parlamentari finiscono... È scoppiata per scombussolare tutti i miei piani...»
Parlava disinvolto, con tono ilare, salendo adagio le scale, soffermandosi tratto tratto, come stanco, per trattenere quanto più era possibile la bella creatura, per prolungare l'eccitazione alla quale era in preda. Renata si fermava con lui, porgendogli ascolto, appoggiandosi all'ombrellino, serena in apparenza.
«Mi facevo una festa di passare un mese a Livorno, in compagnia di persone amiche... Invece sarò probabilmente costretto a non muovermi da Roma...»
Non sapeva come dire la notizia della sua nomina, temeva di riuscir goffo annunziandola alla giovane come l'avrebbe annunziata ad un giornalista. Ella stessa lo trasse d'impaccio:
«Entrate nel nuovo Ministero?»
«Chi ve l'ha detto?»
«Nessuno... Lo immagino, dalle vostre parole...»
Ella si era improvvisamente accesa in viso, guardandolo, ferma, in mezzo all'ultimo ripiano delle scale. Improvvisamente, leggendole in faccia la commozione che provava all'idea della sua fortuna, il bisogno di trattenere quella donna, di vedersela vicina, di sentirla parlare, gli suggerì un artifizio del quale non si sarebbe creduto capace.
«Mi hanno offerto, sì, un portafoglio; ma sono incerto ancora se mi convenga accettarlo...»
«Che Ministero?»
Egli rispose modestamente, quasi scusandosi:
«L'Interno.»
«Bene» diss'ella, ma con voce fredda. «Perché non accettereste?»
«Perché non sono sicuro della vitalità del nuovo gabinetto...»
«Che importa la durata? Se l'ufficio è onorevole, se le vostre idee sono accettate...»
«Ecco: questo è il punto. Morin le conosce, e se non le accettasse non mi avrebbe chiamato...»
«Naturalmente...»
«Ma non so fino a che segno la composizione del suo Gabinetto sia omogenea... Non le sole mie idee debbono concordare con quelle di Morin, ma tutti i suoi collaboratori dovrebbero essere unanimi... Ora la concordia mi sembra più apparente che reale. Vi sono alcuni che intendono spingersi troppo nella reazione contro la politica di Depretis, altri che, viceversa, vorrebbero frenar troppo questi zelanti. Una via di mezzo dovrebbe essere la risultante di queste due tendenze; ma non so se, invece di contemperarsi, si urteranno... E poi... Non so veramente, vi sono altre ragioni...»
«Consigliatevi coi vostri amici.»
«Mi sono consigliato. Ma credete che un uomo politico abbia amici sinceri?...»
«Perché?...»
«Perché l'amico d'oggi sarà il nemico di domani, quando non è stato il nemico di ieri. Perché l'invidia, la gelosia, il dispetto, il sospetto sono continui ed invincibili, s'insinuano anche nelle anime più alte e le intorbidano. Nella società umana il disinteresse, l'altruismo, la sincerità non sono purtroppo frequenti; nel nostro mondo, credete, mancano affatto.»
La sua parola s'accendeva nel dire quelle cose, nel significare l'amarezza del rammarico, la tristezza della solitudine morale, perché egli sentiva d'esser ora sulla via buona, d'eccitare finalmente interesse e commozione nell'animo della fanciulla.
«Vi saranno pure le eccezioni!...»
«Non dico di no; ma io non ho la fortuna d'averne una accanto a me. Vi saranno, vi sono spiriti nobili, acuti e sereni; ma come volete ch'io vada da loro a pregarli di mettersi nei miei panni? È un ufficio che si può chiedere a una persona familiare ed amica, che ci conosce, che conosciamo...»
E la guardò. Erano giunti sul pianerottolo dei loro due quartieri.
Ella s'era tolto il guanto della mano destra. Consalvo sentì che stava per isfuggirgli, che fra un istante la bianca mano si sarebbe accostata al campanello.
Anch'ella lo guardò. Attraverso la veletta egli vide il viso di lei imporporarsi, poi sbiancarsi ad un tratto.
«Io?...» rispose, con lieve tremito nella voce. «Che posso dirvi io?... Come volete che giudichi?...»
«Voi, sì;» soggiunse egli con voce più calda. «Non c'è bisogno d'esser stati alla Camera per intendere il mio imbarazzo. Voi avete un'anima così luminosa, da discernere subito, da farmi discernere la via che mi conviene seguire. Se anche non vi sentite sicura del vostro giudizio, che v'importa? Io lo antepongo a tanti altri, a tutti gli altri... Guardate: è forse uno scrupolo il mio; ma nessuno come voi è capace d'intenderlo e valutarlo...»
Egli parlava con l'accento della sincerità, dimenticando il sì risposto a Morin, il moto d'orgoglio provato nel veder finalmente appagata la sua ambizione, come se realmente quel fantastico scrupolo che sottoponeva alla giovane per sedurla, per attirarla, fosse sorto nell'animo suo, vi avesse esercitato un'azione gagliarda.
«Io temo che si siano rivolti a me non per altro se non perché oggi, dopo il caso toccatomi, il mio nome è stato ripetuto con qualche insistenza come quello d'una presunta vittima dei rivoluzionarii, quindi d'un presunto vendicatore dell'ordine. Senza la stilettata di Lorani, non si sarebbero accorti di me.»
«Non dite così, non siete giusto...»
«Lasciatemi dire. Siete tanto buona, ascoltatemi... Quanto poco io valga, lo so io stesso meglio che altri; e so pure che vi sono di quelli che valgono ancora meno. Ma appunto questo mi pare che accada: il mio valore reale, qualunque possa essere, non è oggi quello che determina l'invito di Morin, bensì il rumore sollevato intorno a me dalla pazzia d'uno sciagurato. Con questa condizione, che valore ha l'invito? Mi è stato rivolto liberamente, coscientemente, o non piuttosto per suggestione, per l'opportunità del momento? Non sono designato per un caso fortuito, che poteva accadere a me come ad altri, capitatomi senza né colpa né merito?...»
Ella era rimasta a udire tenendo il braccio appoggiato alla ringhiera, con gli occhi bassi. Egli la guardava, e quella figurina deliziosa, agile ed elegante, quel viso ombreggiato dalla grande ala del cappello, quella gola stretta nel colletto alto, quel seno un poco ansante, quella vita arcuata, quelle braccia sottili, quelle pallide mani, tutto il mistero di quel corpo chiuso nella veste come in una guaina, lo tentavano sempre più acutamente.
«È uno scrupolo che vi fa onore» rispose ella, dopo un breve silenzio; «ma fuori di luogo.»
«Credete?»
«Ne sono certa. Se il vostro caso fosse occorso al primo venuto tra i vostri colleghi, nessuno avrebbe pensato a farne un ministro.»
«Ma se non mi fosse capitato quel caso, non avrebbero fatto ministro me.»
«Il vostro valore non è creato dal caso. Se dite che questo vi ha messo in evidenza, potete avere ragione; ma le cose del mondo dipendono quasi tutte così, dagli avvenimenti, da occasioni impreviste, da circostanze fortuite.»
«I miei avversarii diranno che mi ha fatto ministro il Lorani.»
«Diranno una cosa non vera. E poi, v'importa degli avversarii? Degli amici vi deve premere. L'invito vi è venuto direttamente da Morin?»
«Sì.»
«Vi ha parlato, o vi ha scritto?»
«Mi ha scritto. Volete leggere la sua lettera?»
Ella non rispose altrimenti che con un moto di esitazione, guardando l'uscio di casa sua; ma Consalvo non le diede tempo:
«Aspettate, vado a prenderla in un istante...»
Non aspettò la risposta, aveva già cavato di tasca le chiavi, dischiuse l'uscio, entrò rapidamente, corse alla scrivania, vi frugò convulsamente, con la paura che ella gli sfuggisse, col bisogno imperioso di vedersela ancora accanto, con una febbrile speranza, con la folle aspettazione di poterla prendere, di stringerla fra le braccia, di spegnere sulle sue labbra l'improvvisa sete di baci. Quando tornò sul pianerottolo, ella s'accostò improvvisamente a lui.
«Sale gente,» disse con voce bassa ma concitata; «non voglio farmi trovare per le scale.»
«Chi sale?...»
«Non so; parleremo un'altra volta...»
«No, sentite...»
I passi e le voci dei sopravvenienti si accostarono.
«Renata... Renata... Sentite un momento... Siete venuta una volta... Renata...»
La prese, la trasse, la spinse dietro l'uscio, lo chiuse mentre le parole animate delle persone che salivano, echeggiavano sotto le volte dello scalone: «È impossibile; non ci pensare... Ma se ti dico... Ripetigli che è tempo perduto...»
«Renata... Renata...» le soffiava egli all'orecchio stringendosi a lei che si stringeva all'uscio, che schiudeva ancora la bocca per gridare, come nel primo momento, senza che alcun suono le uscisse dalla bocca, e che ancora, come nel primo momento, tendeva le braccia per respingerlo, senza riuscire ad opporglisi. «Renata... Renata... Renata... Siete qui!... Un'altra volta!... Vi rammentate quando ci veniste?... A salvarmi la vita!... Credete che me ne sia scordato?... Nulla vi ho detto, perché non ho saputo dire... Ma ora... Ma ora...»
Con le mani febbrili brancicava il bel corpo, le premeva sul seno, annodava le dita intorno alla nuca, e nella nuca era la maggior resistenza di lei, perché egli non riuscisse ad accostare la bocca alla bocca.
«Renata!... Renata!...» continuava a soffiarle all'orecchio, con voce tanto più bassa quanto più si appressavano dietro l'uscio quelle dei sopravvenienti. «Renata, vi amo!... Non lo sapete?... Non ve l'ho detto?... Renata, ti amo!... E tu pure mi ami!... Bella!... Bella!... Sei mia!»
Non sapeva quel che diceva, come ebbro, come pazzo, nella tensione spasmodica di tutti i nervi, nella impetuosa pulsazione di tutte le arterie, nella furiosa prepotenza dell'istinto virile. Gli sconosciuti, per le scale, si erano precisamente fermati, dietro l'uscio, parlavano con voce più acre: «Erano i patti stabiliti... Niente affatto: l'avvocato è testimonio... Il contratto precedente non lo diceva».
«Bella... Anima!... Vita!... Nelle tue mani la mia vita!... Perché t'ho chiesto consiglio?... Ora e sempre dirai tu ciò che ho da fare... Mia!... Creatura mia!..»
La sua voce era proprio un soffio, tanto erano vicini gl'invisibili sconosciuti; ed il suo corpo era tutto stretto al corpo di lei che pareva schiacciato fra lo stipite e l'uscio, aderente al legno, rigido come il legno. E a un tratto egli riuscì a premere con le labbra sulle labbra. Erano fredde fredde, agghiacciate; ma egli le tentò, ne cercò l'interno umidore; e allora vide gli occhi di lei stravolgersi, udì il sibilo del fiato farsi rantolo, sentì il corpo accasciarsi. La sorresse per le ascelle: invano. Ella cadeva, lentamente, ma pesantemente, tramortita dal bacio. Le voci non s'allontanavano. Egli la distese per terra, fredda sulla fredda soglia marmorea, e le si buttò addosso con un bramito selvaggio.