Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
L'Imperio

IX

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IX

 

Nei primi giorni lo stupore ingombrò talmente l'anima sua, che gli altri sentimenti ne restarono attutiti e come soffocati. Rivedendosi a Salerno, nell'antica casa dei suoi, tra i vecchi genitori e i vecchi servi, per le vie della città rimasta press'a poco la stessa, egli provò come l'impressione d'un sogno che lo riportasse d'un tratto agli anni remoti della prima gioventù, a consuetudini di vita dimenticate, ma subitamente riprese come se mai non le avesse lasciate. Roma, il giornale, la politica, la guerra, la rivoluzione, l'amore, il dolore, tutto era offuscato, quasi dimenticato nell'evocazione della prima vita vissuta tra quelle mura, nella risurrezione di memorie, di impressioni, di affetti tanto lungamente e così profondamente nascosti, che egli aveva potuto crederli finiti e dispersi. Più grato e insieme più triste, tenero e amaro, per il rimorso della lunga dimenticanza passata e la paura della morte vicina, era il sentimento dal quale si sentiva invaso dinanzi al padre e alla madre. Vecchi, erano vecchi entrambi; la madre scarna e bianca, il padre curvo e calvo, gravi e taciturni entrambi, entrambi premurosi ma come frenati da un senso di soggezione dinanzi al figlio celebre, vissuto alla metropoli. Negli atti, nelle parole, negli sguardi era evidente il loro timore che la vita della piccola città e della famiglia semplice non gli piacesse, che non gli piacesse la qualità dei cibi, i modi della gente, l'arredo della casa, l'accento del dialetto. Lo avevano accolto a braccia aperte, col sorriso negli occhi e sulle labbra, ma senza molestarlo di soverchie domande sui casi suoi, sulle sue intenzioni. Egli aveva detto che si sarebbe fermato un pezzo, ed essi ne erano rimasti più confusi che lieti. Vedendosi fatto segno alle cure più intelligenti, allo zelo più discreto, all'affetto quasi rispettoso di quei vecchi, egli si sentiva premere e stringere il cuore da un rimorso intollerabile. Era stato l'amore, l'orgoglio, lo struggimento di entrambi, e così aveva corrisposto alla loro idolatria; abbandonandoli, dimenticandoli, lasciandoli invecchiare soli e dolorosi. Le due sorelle avevano da tanto tempo lasciata la casa, che quasi vi erano divenute estranee, dedite tutte ai mariti ed ai figli; e i vecchi non avevano se non per i nipotini: una diecina di ragazzi e bimbe quasi tutti bellissimi, ma vivaci e rumorosi tanto, che, nonostante lo studio, egli non riusciva talvolta a nascondere il proprio fastidio. I vecchi gli davano ragione, pure scusando i monelli e non sapevano come fare per incuter loro verso lo zio la soggezione che essi provavano dinanzi al figlio. A certi momenti questa era tanta, e tanto evidente, che egli sentiva il dovere di protestare e ribellarsi; pure non significava la propria indegnità, non diceva una sola parola che esprimesse il suo pentimento, come essi non ne dicevano una che significasse il loro dolore. Avevano riposto in lui tutte le loro affezioni, tutte le loro speranze; ed egli era corso dietro ad altre speranze e ad altre affezioni; ed ecco: si ritrovavano ora insieme, delusi tutti: egli dall'esistenza, essi da lui! Che dire? Tante cose gli salivano alle labbra; ma non si potevano né direudire senza pianto e senza strazio. Meglio tacere, meglio prender esempio da loro, che avevano pure tante cose da dirgli, e le soffocavano.

Egli le comprendeva, le intuiva da parole che sembravano indifferenti, da atteggiamenti, da silenzii più eloquenti degli stessi discorsi. Accarezzando i nipotini, lodandone la bellezza, i vecchi cercavano sulle faccette di quelle creature una rassomiglianza, guardavano lui, facevano paragoni; poi ammutolivano. Si struggevano, era evidente, d'avere una creatura sua, l'erede del nome, il continuatore delle tradizioni familiari. Quando parlavano dei matrimonii contratti dai suoi coetanei, molto tempo innanzi, tanto da essere padri di giovanetti e di adolescenti, la loro voce si spegneva, i loro sguardi lo evitavano. Se il discorso cadeva sugli affari, sui commerci, sulle industrie, sulla cultura dei campi, sulla ricchezza, lodando la pratica attività, essi biasimavano implicitamente quella che va dietro ad altre cose. Non dicevano, no, che egli aveva fatto male a non prendere in moglie una ricca fanciulla del suo paese; ma tale era il pensiero che li crucciava. Il loro pensiero era che se egli si fosse creata una famiglia, se avesse dovuto badare a una casa propria, e crescere i propri figli e lavorare per lasciarli nella maggiore agiatezza possibile, la sua vita avrebbe avuto uno scopo concreto, al suo cuore non sarebbe rimasto tempo e modo di struggersi in vane tristezze. Essi vedevano la sua tristezza crescere e giganteggiare secondo che la prima impressione del ritorno nella casa natale si attenuava, e ne restavano contristati essi medesimi, e come vieppiù intimiditi.

Il tempo scorreva per lui lento, pigro, vuoto, mortale. Passati i primi giorni, durante i quali aveva badato a sistemar le sue cose, a riconoscersi nelle memorie domestiche e cittadine, non seppe più che fare. Impossibile scrivere a Roma, rammentarsi a qualcuno di coloro che ci aveva lasciati; considerava anzi come una singolare fortuna che nessuno scrivesse a lui: troppa amarezza, troppo disgusto aveva raccolto lassù; la sola cosa che ardentemente desiderasse era poter cancellare, svellere, distruggere ogni vestigio, in sé ed intorno a sé, della sua vita romana. Ma l'impresa era disperata. Quand'anche i parenti e gli estranei non gli avessero chiesto notizie degli ultimi avvenimenti, egli udiva ancora il mugghio terribile della moltitudine sollevata, il crepitio sinistro delle fucilate, gli urli e i gemiti dei morenti; e mescolato e confuso col ricordo della pubblica sciagura stava quello del suo proprio dolore. Uno solo di quei lutti lo avrebbe fiaccato; uniti, si aggravavano a vicenda e gli rendevano la vita intollerabile. A certi momenti, era come se l'aria gli mancasse, come se la gola gli si serrasse. Frugando tra i vecchi libri e le vecchie carte, ritrovando i volumi e i quaderni sui quali aveva studiato la storia del suo paese, ripensando ai fremiti d'entusiasmo che gli erano passati per tutte le fibre all'idea della patria grande e gloriosa, il fiele dello scherno gli saliva alle labbra. Un'orda di barbari e un pugno di mulatti ne avevano avuto ragione! Ma il destino era meritato, interamente. Si espandono, conquistano, signoreggiano il mondo i popoli operosi e forti, concordi, non i ciarloni, i vili, i nemici di sé stessi. Ora i partiti erano intenti a lavarsi le mani e ad accusarsi reciprocamente: gli imperialisti rigettavano la colpa delle disgrazie sui liberali, che avevano reso impopolari le imprese coloniali e impedito di largheggiare nei mezzi necessarii a compirle; i liberali addebitavano la rovina all'improntitudine, all'ignoranza, alla sciocchezza degli imperialisti. I repubblicani che chiamavano responsabile la Corte, i socialisti il capitale, i capitalisti l'anarchia, gli anarchici la società, gli umanitarii il militarismo, i militari l'inframmettenza borghese, i borghesi l'incapacità militare; e nessuno aveva il coraggio di confessare la sua parte di torto e ciascuno pareva godesse di una sventura che serviva a denigrare l'avversario.

Era bastato che Francalanza si dimettesse perché la sommossa si chetasse come d'incanto: il danno e la vergogna della nazione si risolvevano con una crisi ministeriale, come la discussione d'un bilancio. Il nuovo Gabinetto doveva mirare alla pace ed all'onore; ma chi voleva subito risarcire l'onore e chi voleva subito stipulare la pace. I conservatori, i militari, gli espansionisti pretendevano la rivincita, che i socialisti, i repubblicani, i democratici vietavano come sicura occasione di nuovi maggiori disastri; i primi erano invece sicuri di ottenerla con niente, e accusavano gli avversarii di imporre la viltà per il discredito che ne sarebbe poi venuto al regime. Il nuovo Governo si barcamenava per il momento tra le due correnti, per non esser subito travolto dall'una decidendosi a seguir l'altra. Alcuni dicevano che si perdeva un tempo prezioso, che volendo riparare la disfatta bisognava subito mandare un'altra squadra al Tropico, mentre quella Repubblica era tutta al suo trionfo, prima che l'America del Nord mettesse nella bilancia il peso della sua autorità; ma a costoro non si dava ascolto, o si rispondeva che una nuova squadra non poteva improvvisarsi, che quella perduta era quanto c'era di meglio, che l'intervento degli Stati Uniti era sicuro, che una guerra con quella nazione sarebbe stata fatale. I giornali amici del nuovo Gabinetto annunziavano che questo aveva ordinato il richiamo di tre classi di leva, l'armamento di tutte le navi disarmate, il concentramento di tutte le forze disponibili alla Maddalena, grandi approvvigionamenti di carbone e di munizioni; ma prima di dare queste notizie avevano messo le mani innanzi: il governo compiva uno stretto dovere di preveggenza, per non essere sorpreso dagli eventi, per ottenere le migliori condizioni di pace; nessun proposito in lui di continuare la guerra, di esporre il Paese a nuovi sbaragli. E i giornali amici del Ministero caduto, i sostenitori degli imprevidenti, degli incauti, dei temerarii, che avevano preparato la catastrofe di Colon, condannavano quei preparativi come inutili se era stabilito di non più combattere, come insufficienti se bisognava imporsi.

Gli ardimentosi volevano l'armamento del naviglio mercantile, il richiamo delle leve di terra, l'invio di due corpi d'esercito alla Tropicale; una spesa di cento milioni; i prudenti rispondevano che il naviglio mercantile consisteva in mezza dozzina di piroscafi lenti e malandati, che non bastavano due corpi d'esercito, che per vincere la Tropicale non ne bastavano quattro, che forse duecentomila uomini non erano troppi, e che la spesa sarebbe salita a un miliardo, a due miliardi. Esagerazione, rispondevano i battaglieri, e del resto trattandosi di ristabilire il prestigio della patria, non bisognava contare; se occorrevano mezzo milione di soldati, tre miliardi di spesa, tre miliardi si dovevano spendere per mandare mezzo milione d'uomini. Federico restava con quei fogli in mano, immobile, senza sguardo, come istupidito. Alcuni, a testimonianza della fiducia che riponevano nella sua opinione, gli domandavano che cosa credeva che bisognasse fare; egli rispondeva loro: "Non so, non so nulla"; e dentro di sé quella parola riecheggiava, sola, piena d'un altro senso. Nulla, non c'era da far nulla, non si poteva aspettare o sperar nulla, non si poteva credere in nulla. Di quale partito, di quali uomini fidarsi? Tutti gl'idoli che egli aveva venerati avevano rivelato le loro magagne, in tutti aveva trovato presunzione, ignoranza, vanità, intransigenza, difetti e vizii insanabili. Egli rideva della sua antica ricerca d'un uomo capace di salvare la nazione: nessuno poteva nulla salvare. L'Italia, e come ogni altro paese del mondo, e il mondo intero, erano stati salvati e perduti, e risalvati e riperduti, per fatalità inevitabili, secondo leggi ignote. Né l'apparente salvazione era realmente uno stato prospero e felice, né quella che si giudicava rovina era veramente tale.

Perché chiamare rovina la sconfitta patita ora dagli Italiani, o la condizione nella quale si trovavano cento anni prima, al tempo delle dominazioni straniere e delle tirannie paesane? Che cosa avrebbero dovuto fare essi, allora ed ora? Sollevarsi tutti, dal primo all'ultimo; farsi ammazzare tutti per la rivincita e per la libertà? Non lo facevano né l'avevano fatto: segno che il male non era tanto grande quanto alcuni, gli zelanti, i fanatici, lo giudicavano. La maggior parte delle nazioni e dell'intero genere umano non pensavano ad altro fuorché alla fame da saziare, nel modo più agevole e pronto. Quella stessa cieca potenza che aveva messo l'istinto della vita in ogni uomo, aveva anche dato ad alcuni, a pochissimi, l'appetito di qualche idea; ma l'efficacia delle idee sulle cose, che all'anima ingenua era parsa grande, ora pareva meno che nulla all'anima disingannata. Iniziando la sua carriera, egli aveva creduto di dedicare tutte le sue forze al bene pubblico, d'esercitare quotidianamente un apostolato. Quell'opera, che egli aveva creduto provvida e nobile, era stata giudicata iniqua ed impura dai suoi avversarii. Perché credere che la ragione e la verità erano state dalla sua parte, e non da quella degli altri? Nessuna missione egli aveva esercitato: s'era dato al giornalismo dopo essersi accorto che l'arte non era pane per i suoi denti; e al giornalismo ed all'arte s'era dato per poter vivere fuor del paese natale, libero dal giogo dei parenti, sulla via della gloria e della ricchezza. Questo era stato il suo vero ed unico scopo, travestito e decorato col nome di missione sociale!

E che valeva tutto ciò che egli aveva detto e scritto, in tanti anni? Che valeva tutto ciò che avevano detto e scritto gli altri al pari di lui, i più valenti, i sommi?

Le parole umane se ne andavano col vento, gli stessi scritti si cancellavano e si disperdevano; quelli che parevano immortali duravano un poco di più; ma l'oblio li aspettava del pari, dopo secoli invece che anni; ma anni e secoli e millenni non erano altro che momenti nell'eternità.

Un giorno, per una via di campagna, egli vide una lumaca avanzare lentamente, rigando di bava il cammino. Tutti i suoi scritti diffusi sui tanti fogli gli parvero allora come una bava che egli avesse lasciato dietro di sé. Se la lumaca avesse avuto coscienza, avrebbe presunto di letificare e beneficare il mondo con la qualità della sua bava; l'esperienza, reciprocamente, insegnava all'uomo che tutta la sua attività era altrettanto fruttuosa quanto quella dell'animale. Vide anche le formiche e le api intente ad un'opera più intelligente, ma vana del pari. In preda alle passioni della vita, gli uomini non potevano giudicare la inutilità dei loro atti; ma chi, come lui, era uscito fuori alla riva del pelago dopo esservi stato immerso sino ai capelli, riconosceva nel consorzio umano un formicaio più grande, un alveare più complicato, dove tutto si riduceva, come nei piccoli e semplici, a nascere, a crescere, a procreare ed a morire. Questa capacità di arrivare a comprendere la propria vanezza era l'unico privilegio dell'uomo sui bruti. Lustro ed inganno tutto il resto; le trovate dell'ingegno, le indagini del pensiero, le affermazioni della fede.

Dalle alture di San Giovanni si dominavano il mare, le rive, i campi, le colline, le città, i villaggi, i casolari, tutto un pezzo di mondo. Mentre i piroscafi solcavano il golfo sporcando il cielo di fumo, i treni strisciavano tra le valli e i monti, entravano nei trafori ruttando anch'essi, fischiando, rumoreggiando.

Due glorie della scienza, due trionfi della civiltà! Che importava arrivare un poco più presto o un poco più tardi? In che cosa lo stato umano s'era avvantaggiato dell'invenzione di quelle macchine? Quali sofferenze avevano sopportato e sopportavano i popoli che le avevano ignorate ed ignoravano ancora?

Ai vantaggi corrispondevano i rischi; né quelle macchine andavano sole: c'erano uomini nelle loro viscere, dinanzi alle fornaci ardenti ed alle bollenti caldaie, al posto della pena e del pericolo. La via era segnata dai pali del telegrafo: appoggiandosi a qualcuno d'essi, egli udiva una musica eolia. Anche quell'altra invenzione tanto decantata non procurava agli uomini nessun reale benefizio: senza l'elettricità, essi avevano egualmente comunicato fra loro. La scienza non aveva nulla creato: a furia di penose ricerche, a costo di errori madornali, aiutata principalmente dal caso, non aveva fatto altro che adattare in pochi modi qualcuna delle cose esistenti. In miriadi modi si potevano adattare le miriadi delle cose. Ma le condizioni della vita umana restavano inalterate, un ritardo di mezz'ora in un treno diretto faceva smaniare i viaggiatori moderni forse più che non smaniassero per la perdita di un'intera giornata gli antichi. Il progresso era tutto apparenza, illusione e presunzione. Tolta agli uomini la presunzione, che cosa restava loro? Che sapevano essi del loro destino, del mondo, della prima origine delle cause, dell'ultima fine di tutti gli effetti? Nulla, nulla, nulla. E invece di essere modesti, umili e rassegnati, essi erano arroganti, boriosi, inframettenti: gridavano, urlavano, battagliavano, pretendevano la signoria dell'universo, e si piegavano soltanto dinanzi a un Dio fatto a loro immagine e somiglianza.

Le campane delle chiesuole e delle cappelle squillavano in lontananza, chiamavano i fedeli alla predica ed alla preghiera. Sì, gli uomini pregavano Dio; ma ad ogni preghiera rispondeva una bestemmia. Lo invocavano nelle piccole occorrenze della loro piccola vita, perché Egli continuamente mutasse le leggi naturali, e sconvolgesse l'ordine degli avvenimenti; e lo benedivano quando l'evento era propizio e lo maledivano quando era avverso; alcuni lo benedivano sempre, a qualunque costo, credendo che Egli si divertisse a straziarli in questa vita, per poi compensarli in un'altra che nessuno sapeva come era fatta. Costoro erano giudicati folli da coloro che, badando soltanto ai piaceri della vita terrestre, erano bollati come bruti. Ma gli uni e gli altri si ribellavano al giudizio, e nessun giudizio di nessun giudice umano aveva mai credito e rispetto assoluti. Sì, alcuni, quelli che parevano i migliori, predicavano quelle che parevano virtù, ma tutte le prediche non avevano mutato la natura degli uomini, e i vizii erano necessarii all'esistenza delle virtù, che senza quelli non avrebbero avuto più significato. Non c'erano dunque né virtùvizii, né colpemeriti: nulla, nulla, nulla.

Dall'alto, nel silenzio profondo, il mondo gli pareva un semplice aspetto, una scena dietro alla quale non c'era nulla. Come tutte le cose tacevano, non sparivano anche al suo sguardo, non si dissolvevano nella chiarità del cielo? E contemplandolo con gli occhi intenti ed ardenti, tutto si cancellava infatti, tutto si disperdeva; ma quando egli credeva di vedere il vuoto ed il nulla restava la sua veggente coscienza. Non si poteva affermare veramente il nulla se non quando anche la coscienza spariva; ma, sparita la coscienza, chi o che cosa poteva pronunziare l'affermazione? La coscienza umana esisteva, era sempre presente ed attiva; e nella coscienza dell'uomo non si rispecchiava già il nulla, ma il tutto: le forme e le essenze, le cose e le idee, i sentimenti ed i fatti, l'universo materiale e morale, il mondo fisico e il metafisico!

Allora, che cos'era tutto questo mondo, tutto questo tutto, che pareva un inganno, ma che stava e durava, e premeva ed opprimeva, inesorabilmente? Era il Male. Tutte le forme dell'esistenza, dalle più semplici alle più complicate, erano forme maligne. Ogni atomo della inerte materia era il prodotto d'una irritazione, d'una infezione, d'un processo morboso. La terra, con i suoi piani ed i suoi monti, gli appariva come un enorme neoplasma, una mostruosa ipertrofia, una terribile sclerosi; le acque, i rivi, il mare, come un flusso, un catarro, un'iperemia; il fuoco come una febbre. L'alterazione si aggravava con la vita organica. In mezzo agli atomi indolenti, nascevano e crescevano le cellule: da questa superfetazione cominciava la sensibilità, cioè i pungoli, le crispazioni, i brividi, i fremiti, le trafitture, i dolori, gli spasimi. E l'unico fine del processo morboso non poteva essere altro, logicamente, che la necrosi.

La vita finiva con la morte perché era tutta un morbo dalle sue prime e più semplici fasi; e perché si manifestava e diffondeva nel corso d'un altro morbo, in mezzo al tumore del mondo. Gli esseri viventi, parassiti e vibrioni di questo tumore, si nutrivano delle sue morte fibre, o si divoravano tra loro; i più perniciosi, i più devastatori erano gli uomini.

Dall'alto, la città distesa sotto la costa, lungo la riva, bianchiccia in mezzo al bruno delle terre e al grigio del golfo, dava immagini d'un cancro piantato in mezzo ai tessuti ed ai vasi. Come un cancro, essa tutto rodeva intorno a sé, i prodotti dei campi e del mare, le altre forme della vita, la materia inerte. Stendeva i suoi tentacoli, mortificava una seconda volta le cose morte; e un simile processo, con maggiore o minore intensità, si ripeteva dove erano uomini; dalle epulidi dei villaggi ai terribili carcinomi delle metropoli, la degenerazione cancerosa si diffondeva da per tutto.

Federico pensava che, quella sua concezione, se egli l'avesse manifestata, avrebbe fatto spavento. Ma il più spaventevole non era appunto che un cervello umano l'avesse potuto elaborare? Nel cervello, nell'anima umana si assommava tutto il male dell'universo, e diveniva cosciente. Altri accoglievano una concezione che pareva contraria a quella del Bene: ma essa non eracontraria alla prima, né fondata come la prima. Il bene è un intervallo del male, come il piacere è una tregua del dolore. Esiste il dolore, il bisogno, la fame, la sete, il freddo, la caldura: i momentanei appagamenti, i sollievi fugaci non impediscono che i bisogni tornino ad urgere, col loro corteggio di sofferenze. Tutto quello che si è inventato per moltiplicare ed acuire i piaceri, le gioie, le soddisfazioni, le voluttà non è servito a nulla, si è ridotto a una complicazione, e tornato di nocumento a quei pochi che soli hanno potuto giovarsene. Altrettanto è accaduto, di tutte le invenzioni della bontà, della virtù, dell'amore. Tutte le prediche, tutte le esortazioni, tutti gli esempii, tutti i sacrifizii, tutti i martirii, i più grandi, i più clamorosi, erano stati invano, saranno invano: il male dura, invariato, eterno, inesorabile. L'anima può struggersi dalla sete del bene, può morirne, senza vederla appagata mai. Allora, perché insistere? Perché non accettare la legge dell'universo? Perché non riconoscere che la vita e l'esistenza è un contagio? Nel rivolgere tra sé queste idee, non che nuova ragione di cruccio, egli trovava la sola consolazione. Consolazione amara, come l'amaro che gli tornava alla gola dopo aver preso cibo. Era infermo, la sua digestione non si compiva regolarmente. I dottori lo misero a dieta, i parenti scelsero gli alimenti più sani e leggieri: egli si adattò a queste cure, senza volerle, senza aspettarne nulla. Il suo male era depressione ed esaurimento nervoso portato dalle lunghe fatiche mentali, dai patemi dell'animo, dagli eccessi e dalle frodi nell'amore. Gli ordinarono anche l'assoluto riposo intellettuale, precisamente quando sviluppare in uno scritto la sua concezione del Male gli parve il solo modo gradito di occuparsi, di ingannare il tempo, di ucciderlo aspettando di esserne ucciso. E nonostante le rimostranze dei genitori, si mise al lavoro; ma allora un altro cruccio lo rose: egli non riuscì a significare ciò che pensava, ordinare organicamente i frammentarii e saltuarii concetti, ad enumerare le prove. E tanto più la sua impotenza gli riuscì dolorosa, quanto che proprio allora, superata dalla nazione la crisi, studiosi di politica, di sociologia, di filosofia esprimevano le loro teorie, raccomandavano i loro sistemi, diffondevano i loro consigli. Perché non aveva egli una voce tanto gagliarda da farsi udire dall'uno all'altro capo della terra natale, di tutte le terre abitate, per significare l'inezia di quei consigli, l'insussistenza di quei sistemi, la fallacia di quelle teorie, la vanità e l'inutilità di tutto, la ferrea necessità del dolore, della morte, del male? Nessun partito, tra quelli che parevano più nuovi e audaci, meno sofferenti dell'ordine di cose esistente, era capace di formulare nettamente quest'idea. Quelli che parevano più ribelli, che erano disposti ad abbattere tutto, partivano dal concetto che tutto fosse da riedificare, che si potesse ricostruire eliminando ogni causa di danno. Con il loro pessimismo attuale, essi erano i più ottimisti e speranzosi nel futuro. Gli anarchici, volendo distruggere da cima a fondo il vecchio consorzio dei viventi, promettevano un nuovo assetto paradisiaco. Data la fatale eternità del male, la differenza tra costoro e i conservatori più accaniti, si riduceva a una quistione di forma e di tempo. Con una modificazione di forma da compire nel tempo, l'uomo e la natura avrebbero mutato di tempra, tutto sarebbe stato agevole e propizio, immutabilmente! I predicatori di questa dottrina dovevano essere più sciocchi degli stessi conservatori; perché costoro, quantunque predicassero il mantenimento d'un ordine iniquo, non ne negavano i danni, anzi li giudicavano fatali; mentre quegli altri ne promettevano la fine! Bugiarda promessa, stolta speranza, illusione ridicola. Mai, mai, mai, qualunque cosa si tenti, qualunque mutamento si compia, qualunque rivoluzione trionfi, i mali sociali [non] scompariranno, come non scompariranno i mali morali, come non scompariranno i fisici, manifestazioni particolari del male infinito ed eterno. La rivelazione di questo male nella coscienza implica un solo vero bene, nel quale è il solo vero rimedio offerto agli uomini: la possibilità di abolire la coscienza, di distruggere la massima forma dell'attività morbosa universale, di ridurre l'essere vivente a materia insensibile. L'esistenza della materia è anch'essa un danno, le infime forme vitali che nascono dalla concezione di un corpo umano sono anch'esse dolenti; ma il sentimento di sé, la memoria, il giudizio, il pensiero, la passione, tutti i tormenti della psiche sono finiti. Se la morte è il fine necessario della vita, tutta la saggezza consiste nell'affrettarne il conseguimento. Che fa la medicina quando il corpo, apparentemente sano, ma pure in preda al travaglio dell'essere, s'inferma palesemente, in modo tale che gli stessi credenti nella salute, debbono riconoscere l'infermità? La medicina asseconda ed affretta lo scioglimento della crisi. Quando la vita si rivela quella che è, tutta una crisi verso la morte, l'affrettamento del processo, il conseguimento della morte sarà considerato come l'unica cosa conveniente.

Il suicidio gli parve allora non più un atto disperato, da commettere furiosamente, improvvisamente, nelle ore delle angosce più acute, quando la ragione vacilla; bensì nel tempo della massima quiete, nell'apparente soddisfazione, quando il cuore è più tranquillo, quando la mente è più lucida, più presente a sé stessa, quando il concetto della malignità dell'essere si impone allo spirito esente da passioni e da pregiudizii, pervenuto al sommo della chiaroveggenza, un atto da compiere deliberatamente, da preparare attentamente, come il più solenne, come un esempio insigne, come l'insegnamento supremo. Ma quanti sono capaci di compierlo così, e quanti comprenderanno di doverlo imitare? Non c'è forse uomo, tra i più semplici, tra i più ciecamente obbedienti all'istinto della vita, tra i più invasi dal male della vita, che in qualche fuggevole istante non sia abbagliato dalla verità e non intravvede il male suo e dei suoi simili, ma quanti sono coloro che ne hanno l'esatta, la piena, la ferma coscienza? Quanti sono stati coloro che si sono uccisi, non già per sfuggire ad un determinato dolore, ma persuasi della fatalità del dolore universale? In ogni tempo si sono visti e uditi predicatori dell'insania della vita, del male dell'essere, della vanità del tutto; ma costoro non hanno uniformato i loro atti al loro concetto. Hanno professato il pessimismo, ma nessuno, o solo pochi, li hanno ascoltati, per poco, distrattamente, con uno scettico riso, come si ascolta un predicatore la cui vita privata è la negazione delle belle cose che dice. E perché questa contraddizione?

Federico la vedeva e la giudicava dentro di sé. Concepita la necessità di distruggere la vita, il suo primo pensiero non era quello di compiere la distruzione, bensì di predicarla. Tentava di scrivere, quando doveva agire. L'istinto vitale, la forza maligna operavano ancora in lui insidiosamente, nel punto stesso che egli credeva di averli smascherati e confusi. Se ciò accadeva in lui, che cosa non doveva accadere tra la folla degli sciagurati immersi nell'inganno, affascinati e perduti dalla Sirena Illusione? Predicare agli uomini la morte, con le parole o con l'esempio è stato e sarà sempre invano. Si può riconoscere il male, ma esso è tale e tanto, che non si lascia vincere. I saggi indiani hanno predicato l'astinenza e decantato il Nirvana: a che pro? Il più coraggioso rivelatore del dolore e del male ha concepito il suicidio della Terra; con quale effetto? Dove sono le opere, le azioni, i tentativi, un principio di esecuzione? Una setta di fanatici Sciti si mutilano per sottrarsi all'istinto della procreazione, ma costoro non sono già mossi dalla verità filosofica, bensì da un pregiudizio religioso. E quanti sono? E gli Sciti e tutti i popoli del vecchio e del nuovo mondo non crescono prodigiosamente, urtandosi, combattendosi, come colonie di microbi e di bacilli antagonisti dentro una piaga? Poi, quando si sono moltiplicati, quando si sono combattuti, quando hanno esercitato in tutti i modi la loro funesta energia, gli uomini di tutte le razze sospirano, gemono, piangono, urlano! Non sarà dunque possibile impedire questo danno? Non si troverà un modo di salvarli, loro malgrado? Si continuerà ancora e sempre a ricadere nell'inganno, ad inseguire una gioia illusoria, una felicità chimerica, un bene assurdo? Non ci sarà una nuova forma d'attività, la più cosciente, la più illuminata, la più conforme alla natura delle cose, intenta perciò a combattere non più i concorrenti, o le intemperie o i parassiti, ma la vita stessa? Tanti uomini si dànno alla milizia, forniscono le armi per uccidere coloro che li vogliono uccidere, si preparano ad una sterile e sanguinosa opera di difesa e di offesa; altri si stillano il cervello per inventare nuovi ordigni e nuove macchine che complicano sempre più le cose, altri per accrescere d'una pagina, d'una riga, il libro dell'ignoranza umana; altri predicano le parole d'un Dio che nessuno ha visto, di cui tutti in qualche ora dubitano; non se ne troveranno alcuni che, compresa la fallacia e l'insania di questa e di tutte le altre simiglianti attività, attenderanno unicamente a svellere il male umano dalle radici? Tanti partiti sorgono, si trasformano, si riformano, si scindono, per meglio combattersi mentre sono divisi soltanto da parole, da equivoci, da malintesi; e non se ne formerà mai uno, composto sia pure di pochissimi coscienti, che grideranno a tutti gli altri la loro insania, e li sforzeranno a riconoscere l'origine prima dei loro dolori e li guariranno loro malgrado del male della vita?...

Loro malgrado, sì! Perché l'uomo mortale non vuol morire, è attaccato alla sua vita, sia essa la più grama, la più sfrenata, da un istinto così prepotente, che solo in circostanze estreme, può essere vinto. Egli stesso sarebbe stato capace di uccidersi?

In quella casa di campagna, appese al muro d'un corridoio, erano le armi che gli erano venute dallo zio colonnello; una pistola corta e un revolver primitivo, con tutte le sei canne che giravano intorno al tamburo e si caricavano dalla bocca, con polvere e palle, erano cariche da tempo immemorabile, forse da Calatafimi, e certo non avrebbero preso fuoco; pure, accostando per prova la bocca alla tempia, l'impressione di quei gelidi anelli gli metteva un brivido di ribrezzo per tutti i nervi. La vinceva, tenendo a lungo l'arma in mano, e a certi momenti pensava che nulla sarebbe stato più facile che farne scattare il grilletto; ma altre volte restava attonito, atterrito, con gli occhi sbarrati, col sangue gelato, all'idea di quell'atto. Egli lo avrebbe forse commesso, ma non con la freddezza voluta. Sentiva d'aver bisogno d'una eccitazione, d'una esaltazione sia pure rapida, ma intensa. Se qualcuno lo avesse ucciso, gli avrebbe reso un benefizio; pure riconosceva che il vedersi dare la morte, al lampeggio di una canna di schioppo o d'una lama di coltello, lo avrebbe fatto tremare. Perché il benefizio fosse veramente insigne, bisognava che qualcuno lo uccidesse a sua insaputa, mentre pensava, mentre leggeva, mentre si aggirava per la campagna, quando era immerso nel sonno, in qualunque istante della sciagurata esistenza.

Lungo i sentieri, per i campi, se vedeva qualche insetto, lo schiacciava col piede: l'essere vivente spariva in un attimo, non restava altro che una macchia nel suolo. Perché non si rovesciava su lui un macigno tale da ridurlo in un lampo a poltiglia? Perché, se le cose che egli pensava erano orribili, qualcuno inorridito, un suo simile o Dio, non lo schiantava così?...

 

Un giorno ricevette da casa una lettera nella quale gli dicevano di tornare in città, perché suo padre stava poco bene. Tornò subito, infatti, la sera stessa. Il padre aveva preso freddo, ma la polmonite temuta non si era dichiarata: gli dissero prima che entrasse nella camera dell'infermo, dalla quale udiva venire delle voci sconosciute. Entrando, vide un bel vecchio, stranamente rassomigliante al principe di Bismarck, e una bambina alta e bionda, che stava ritta al capezzale dell'ammalato.

«Mio figlio» disse questi, presentando. «Il mio migliore amico, il Presidente Ursino, e la sua bella nipotina. Làsciati vedere, Anna» continuò, tenendo per mano la bambina. «Quanto rassomiglia al povero Gigi! Gli occhi, la fronte, la bocca...»

Federico comprese che parlava del padre della fanciulla, figlio del Presidente.

«Non ti ricordavi di Salerno? Come ti piace?...» le domandava ancora l'infermo.

«Mi piacerispose ella, vivacemente «non ne rammentavo nulla; ci venni che ero troppo piccola. I dintorni sono bellissimi. Quante passeggiate ci sarà da fare!...» Disse le ultime parole rivolte a Federico, il quale assentì con un cenno del capo. La voce della bambina era calda e dolce, con appena una velatura d'accento toscano. La faccia era capricciosa, con un naso un poco rivolto in su, gli occhi umidi e lucenti, la bocca piuttosto grande: un insieme capriccioso ed espressivo.

«Come ti farei volentieri da guida, figlia mia» riprese ancora una volta il commendatore «se non fossi così, se avessi le gambe d'una volta...»

«Ma come?» esclamò ella. «Vuol restare in letto tanto tempo? Aspetterò che si levi, andremo adagino quando sarà stanco: non ho mica furia! Perché forse il babbo le avrà detto che sono, come ho da dire?... un poco vivace?...»

«No, no; e quand'anche!... Allora è inteso, andremo tutti insieme quando sarò in piedi. T'invito fin da ora al Sacro Monte, di dove viene mio figlio

«È un bel sito? Che si vededomandò ella a Federico.

«Bellissimo» rispose egli «si vedono i due golfi, Napoli e Salerno, il Vesuvio, gli Appennini, le isole» e nel descrivere il panorama alla fanciulla, che stava a udire spalancando gli occhi grandi e profondi, ripensava alle immagini morbose concepite lassù, dinanzi a quella vista.

«Che bellezza! Che incanto!... Guarisca subito, commendatoreaggiunse congiungendo le mani in atto di preghiera; «guardi che voglio andarci presto, presto, e che non ci andrò senza di lei!...»

Quando i due visitatori si ritirarono, non si parlò d'altro che di loro. Il Presidente tornava in patria dopo quarant'anni di carriera, giubilato, per riposarsi. Era vedovo, aveva visto morirsi uno dopo l'altro l'unico figlio e la nuora, gli restava la sola nipotina per tutta famiglia: si capiva quindi che l'amasse d'un amore folle, che la giudicasse la più bella, la più intelligente, la migliore fra tutte. Quantunque esagerasse, per un sentimento spiegabilissimo, Anna non era indegna di tante lodi. Bella, nello stretto senso della parola, no; ma vaga, leggiadra, piena di simpatia, certamente. Buona e intelligente anche, si capiva dallo sguardo, dall'espressione, dalla voce, dalle parole, dalla pietà filiale, della quale il commendatore riferiva alcuni tratti uditi dall'amico suo.

Ella tornò in casa Ranaldi il domani, e tutti i giorni seguenti ancora, perché suo nonno, venendo a trovare ogni giorno il commendatore, la conduceva sempre seco, non voleva lasciarla mai sola. Il commendatore che si rimetteva lentamente, se la faceva sedere vicino, preso da una gran simpatia per la nipote dell'amico, quasi non ne avesse qualche dozzina per proprio conto. Ma i nipoti suoi erano un po' troppo chiassosi per l'infermo, mentre Anna, più grande di tutti quei monelli, gli stava vicino come una donna fatta, gli rendeva tanti servizietti prima che la signora Checchina arrivasse a renderglieli lei. Ma qualche altra volta, mentre i due vecchi amici ragionavano di cose gravi o intime, di politica o di affari, o delle memorie giovanili, Anna andava coi bambini e con le bambine in giardino, sulla terrazza, e faceva il chiasso con loro come se fosse della loro stessa età, e inventava una quantità di giuochi che deliziavano i piccoli e che la rendevano ad essi cara e preziosa. «Non è venuta Anna? Non viene oggi Annadicevano entrando dal nonno, se non la trovavano; e la volevano anche nelle case loro, e pregavano il nonno di lei perché la lasciasse andare in loro compagnia, e battevano le mani ed erano felici al consenso del Presidente. Una delle gioie dei più piccoli era udire le fiabe e le novelle che la maggiore amica narrava. Quante ne sapeva! E tutte una più bella dell'altra. Un giorno ella chiese a Federico se tra i tanti suoi libri, non ne avesse qualcuno per lei. Egli trovò le fiabe del Perrault, e gliele diede. Anna prese il volume, ne lesse il titolo, e lasciò cadere le braccia.

«Queste le ho già lette, molto tempo fa...»

«Che le hai datodomandò il commendatore.

«Le fiabe del Perrault» rispose ella, piano, come mortificata.

«A una signorina di diciotto annidisse a Federico il padre. «Che t'è venuto in mente

Federico aveva creduto che Anna ne avesse quattordici, tutt'al più, che fosse alla sua prima veste lunga, tanto aveva l'aria ingenua ed infantile. Le cercò qualche romanzo, s'indugiò a sfogliare quelli che gli parevano meglio adatti ad una signorina, ne scartò alcuni dove rilesse pagine libere e audaci. Ella accolse con festa i prescelti, li lesse rapidamente, ne chiese ancora degli altri. In breve egli non ne ebbe più d'italiani.

«Conosce il francese?» le domandò.

«Anche un poco l'inglese» ella rispose, con una ambigua espressione d'ironica modestia.

«Ha studiato, sapete» spiegò suo nonno «e studia ancora da sola. Dove trova il tempo non lo so, perché ha lei tutto il peso della casa. Io non m'occupo di nulla: lei fa i conti, tiene le chiavi, compra la roba, dirige le persone di servizio, come una buona massaia

Studiava e leggeva la sera nei momenti di riposo; e la lettura era la sua distrazione prediletta, sebbene le piacessero anche moltissimo le passeggiate, le scampagnate, i teatri ed i balli. Dei libri letti disse l'impressione lasciatale, e Federico ne lodò la giustezza. «Una perfezione» la definì un giorno la signora Checchina, udendone lodare con caldissime parole le molteplici virtù, dal marito convalescente, la Perfezione cominciarono a chiamarla, quando non c'era, in casa Ranaldi, le figlie, i generi ed i nipoti.

Uno di costoro glielo disse un giorno, in presenza di tutti:

«Anna, la Perfezione, sai che ti chiamiamo così...»

Ella arrossì fino sulla fronte, poi sorrise:

«Perché mi canzonate

«Non ti canzoniamo, figlia mia» rispose il commendatore. «Ti ammiriamo

«Via non mi confonda. Pensi piuttosto alla sua promessa, adesso che sta bene

Qualche giorno dopo, infatti, le due famiglie andarono al Sacro Monte. Federico sarebbe rimasto a casa, se suo padre non avesse insistito per averlo con sé la prima volta che andava fuori dopo la malattia.

La giornata era stupenda, tutta la comitiva di buon umore; mezza dozzina di bambini stipati in una carrozza sotto la vigilanza di Anna facevano un tal chiasso che s'udiva dalle altre carrozze nonostante lo scalpitio dei cavalli e il fragore del moto. Su, alla terrazza della villa, dinanzi allo spettacolo grandioso dei due golfi, la giovinetta restò un momento muta, come confusa e sbalordita, poi congiunse le mani, intrecciandone le dita, stringendole forte, come a reprimere la commozione.

«Dio! Diomormorò poi, con voce sommessa e come rotta. «Che meraviglia

«Le piace proprio? Le pare una cosa veramente bella

Ella si rivoltò verso Federico, guardandolo. Il giovane s'accorse che i grandi occhi ora stupiti erano pieni di lagrime.

«Piange

«Non so... Uno spettacolo tanto grande, tanto stupendo... E a lei non piace? Bisogna proprio dire che non si apprezza ciò che abbiamo tutti i giorni dinanzi...»

Poco dopo, attirata dai piccoli, corse per il giardino a cogliere fiori, a farne mazzolini, che poi venne a distribuire ai grandi. Federico ebbe tre rose, una bianca, una rosea ed una rossa. Le mani che le porgevano erano fresche e odorose come i petali di quei fiori. Egli le passò macchinalmente all'occhiello, guardando il cielo e il mare, ripensando alla sua visione del male eterno ed infinito, mentre Anna, coi minori amici, tornava in giardino, a cogliere i primi aranci. Quelle forme fresche di vita, quei fiori, quei frutti, quei fanciulli, quelle giovinette, erano anch'essi espressioni del male? Anch'esse. Piaghe, ulcere, tumori hanno forme e colorazioni che si ammirerebbero se non fosse la nozione dell'infermità che va ad essa associata. Reciprocamente, fiori, frutti e fanciulli si ammirano perché si dimentica il segreto lavorio di corruzione che li sfronderà, li farà marcire, invecchiare e incancrenire. La seduzione ne è tutta apparente. Chi ha visto il fondo delle cose, se ne guarda come del peggiore inganno. La saggezza espressa dal genere umano nella secolare esperienza, ripete ai giovani che la gioventù, la salute, i piaceri, sono tutti beni fallaci e fugaci. Essa raccomanda però quelli morali e promette premii futuri che non sono meno chimerici. Allora perché non dire a quella giovinetta che le esteriori forme da lei ammirate e la stessa sua vita non erano altro che prodotti del principio maligno? Perché non aprirle gli occhi alla verità, se ella pareva tanto intelligente e tanto sensibile?... Non l'avrebbe compresa. Venivano dal giardino i suoi allegri richiami, le sue esclamazioni canore: «Margherita!... Filippoooo!... Guarda questi, come sono grossi!... La scala più giù!... Ti stracci la gonna, amoruccio mio». Quando tornò su, animata dal moto, coi capelli un poco sconvolti, con la faccia arrossita, tutta vibrante e fremente di gioia, Federico sorrise di sé stesso. Come aveva potuto supporre un istante che quella sciocca fosse capace di intenderlo? A tavola, l'appetito vorace, l'eloquio vivace di lei e di tutti gli altri, lo infastidivano. Poco poteva egli mangiare, e nulla sapeva dire che fosse intonato all'allegria di tutte quelle giovinezze. I vecchi ne sorridevano, la incoraggiavano, egli ammutoliva. Anna lo guardava di tanto in tanto, gli fermava un poco gli occhi negli occhi, come sul punto di dirgli, di chiedergli qualche cosa, poi si volgeva ai piccoli che aveva vicini, facendo loro da mamma. Prima che calasse la sera, tornarono tutti in città. Federico, spogliandosi, tolse le rose dall'occhiello e le buttò via. Ma, subito dopo, si pentì di quell'atto, raccolse i fiori e li mise a suggere nuova vita in un calice pieno d'acqua.

"Perché ho fatto così?" pensò poi "Perché prolungo artificialmente la vita a quei fiori? Che m'importa d'essi? Che m'importa di chi me li ha donati?..." E la figura di Anna gli sorse dinanzi. Riconobbe anzi che da qualche tempo ella era sempre presente al suo pensiero, nel primo piano o nello sfondo. Che voleva dire? Perché s'interessava a quella giovinetta? Perché le aveva cercato i libri adatti alla sua età ed al suo stato, e non le aveva dato i primi capitati? Perché aveva lodato la giustezza del suo criterio? Perché l'aveva giudicata capace e poi incapace d'intenderlo? Che bisogno aveva egli d'essere inteso? Le creature umane s'intendono? E non ci sono inganni formidabili tra le creature e in ogni creatura? La verità alla quale era arrivato consentiva che egli s'illudesse ancora? Perché il caso, sventando i suoi propositi di solitudine, gli aveva messo dinanzi una donna, egli si interessava a costei, la prima venuta, una bambina? Perché era vaga ne apprezzava la vaghezza? Perché pareva buona credeva alla bontà?

Passato lo stupore, riconobbe che questo effetto doveva prodursi. Egli non si era ucciso come avrebbe dovuto; l'istinto della vita, la speranza del bene operavano ancora in lui, vincevano ancora, come avrebbero vinto sempre fino all'ultimo istante, le persuasioni filosofiche e i concetti astratti. A quarant'anni, sì, dopo le sue delusioni, dopo i suoi dolori, dopo i suoi furori di distruzione, egli poteva innamorarsi di quella fanciulla. Anche più tardi, a cinquanta, a sessanta, con un piede nella sepoltura! Non sarebbe stato il primo né l'ultimo! Soltanto se egli se ne fosse realmente innamorato, se il sentimento avesse cercato alimento e manifestazione e ricambio, se per quell'amore egli fosse tornato alle illusioni e agli inganni, se l'istinto della vita gli avesse fatto credere che la felicità consisteva per lui, vecchio d'animo, decrepito di pensiero, guasto di corpo, nel vivere accanto a quella bambinella, la bilancia sarebbe traboccata, l'occasione necessaria e sufficiente a farla finita sarebbe spuntata. Dopo una notte insonne, levatosi con la bocca cattiva e la testa greve, si guardò allo specchio. Sapeva già d'esser dimagrato e intristito; che bisogno aveva dunque di esaminarsi dinanzi a quel testimonio muto? Il bisogno di considerare che cosa era avvenuto del suo aspetto, delle sue fattezze, in altri tempi da altri giudicate espressive. "Già, voglio vedere se sono ancora bello!..." Mentre una voce interna gli gridava che era ridicolo, un'altra sussurrava: "Via, non c'è male ancora!...". Poteva ancora innamorare una donna, poteva ancora sedurla. Non possedeva quel certo fascino proprio a chi ha molto vissuto, il cui cuore ha molto amato, i cui occhi hanno visto molte cose? Ventidue anni di differenza potevano essere tanti, ma non erano poi troppi in certi altri casi. Non si sono viste persone di oltre quarant'anni, prossime alla cinquantina, sposare giovinette poco più che ventenni? Non aveva egli letto romanzi nei quali si vedevano fanciulle entrate appena nella vita innamorarsi di uomini maturi, d'alto animo, di pensiero gagliardo? E le rose recise fiorivano ancora!...

Poi una gran pietà lo vinse di sé stesso, come se, realmente uscito con lo spirito fuori della propria persona, si considerasse da estraneo. La tristezza che gli aveva occupata altre volte l'anima, vedendo uomini e donne tentar d'arrestare il tempo precipitante, ricorrere ai mal celati artifizii, ai capelli finti, alle pettinature industri, alle tinture, ai cosmetici, alle dentiere, e sfoggiar abiti e affettar modi della età tramontata, tutta la tristezza provata dinanzi allo spettacolo della vecchiaia non rassegnata, visibilmente camuffata di gioventù, gli strinse il cuore. E la vecchiaia sua gli parve più grande che realmente non fosse. Dacché era tornato da Roma, la sua carne non aveva provato una sola tentazione, i suoi sensi erano rimasti sordi ed inerti. Che specie d'amore avrebbe potuto offrire a una giovinetta nel pieno rigoglio della vita; in qual modo avrebbe iniziato una vergine?

E la tempesta s'addensò nell'animo suo, vedendo che l'amor proprio non l'aveva ingannato, che egli non era indifferente ad Anna. Perché mai ella lo guardava con quegli occhi grandi, taciti, interrogatori che lo avevano guardato alla terrazza, dinanzi al panorama di cartone? Perché li abbassava, se si vedeva guardata da lui, con una espressione di turbamento? Perché si volgeva a lui, talvolta, nelle conversazioni familiari, chiedendo le sue opinioni, chiamandolo a confermare le proprie, e tal altra ammutoliva e quasi lo fuggiva? Perché, mentre già dava il voi paesano a tutti coloro ai quali non dava del tu serbava per lui solo il lei della soggezione e del turbamento? Perché uno dei nipotini aveva potuto osservare che ella non dava più tanta retta ai piccoli amici? All'idea che egli potesse realmente turbare quell'anima, una gran tenerezza malinconica e grata lo invadeva e una esclamazione gli saliva alle labbra: "Povera figlia!...". Grato a lei doveva essere, sì, tanto, poiché ella gli attribuiva ancora un valore di vita, ma poveretta lei se credeva che la sua vita fosse simile a quella degli altri. Un giorno un altro nipotino gli riferì che Anna gli aveva chiesto se lo zio Federico era stato mai promesso. "No, mai", pensò di risponderle egli stesso; "ma ora, sì". E poiché ella gli avrebbe chiesto il nome della sua fidanzata, le rispondeva nel proprio pensiero: "La Morte".

La morte gli prometteva più beni che non l'amore e avrebbe mantenute le sue promesse. Lo avrebbe difeso da tutti i dolori del corpo e dell'anima, da tutti i bisogni, da tutte le vergogne, da tutti i disinganni, da tutti gli spergiuri, da tutte le bestemmie; gli avrebbe assicurato la pace immutabile, la quiete infinita, l'eterno riposo. L'amore, la gloria, il denaro, il dominio, tutto era ingannevole; se pure qualcuna soltanto delle loro tante promesse si avverava, ciò che si otteneva era caduco, e dietro alla vita più bella stava ancora la bellezza ultima e massima: la morte. Ma, conoscendo questa verità, ripetendosela continuamente, qualche cosa dentro di lui la negava, la soverchiava, la travolgeva. I suoi atti non andavano d'accordo con i suoi pensieri. Avrebbe dovuto evitare la giovinetta, e invece la cercava. Mentre voleva negarne la bellezza, si rinfrescava gli occhi contemplandola. Un secreto, acuto e penetrante compiacimento gli invadeva l'anima, nel vedere le nuove prove dell'effetto prodotto sulla fanciulla. Tutti gli istinti, tutti gli appetiti ad uno ad uno si ridestavano. Un giorno frugò nella guardaroba giudicando troppo vecchi e brutti gli abiti che aveva sottomano, non trovandone di abbastanza belli, andò dal sarto. Un altro giorno andò dal dottore per farsi curare il male di stomaco. Un altro giorno ancora, in campagna, aiutando Anna a passare un rigagnolo, prendendola per un braccio, sentendo la mollezza deliziosa di quelle carni, le vene gli si gonfiarono di sangue caldo. Era ancora giovane; stanco forse, ma non esaurito. A quarant'anni l'uomo ha raggiunto il vertice della vita; l'ascensione è finita, ma la discesa non è ancora cominciata. Allora, e non prima, in quella sosta, quando non si sprecano più forze per inoltrarsi, quando si raccolgono e si tesoreggiano anzi quelle che restano, allora è da dare stabile assetto all'esistenza. E perché l'esistenza sua doveva diversificare da quella degli altri? Che aveva egli di singolare? Per quale orgoglio e quale presunzione si voleva sottrarre al destino di tutti, e assumersi la missione di andar predicando cose che nessuno avrebbe ascoltate, di annunziare la grande scoperta che la morte è fatale?

E la vita lo riprese. Con la primavera nuova, coi primi sorrisi del cielo, coi primi olezzi dei fiori, qualcosa rifiorì nell'anima sua. La freschezza, la grazia, la soavità, tutte le seduzioni di Anna lo avvinsero. Come un collegiale, egli passò sotto le finestre di lei, la seguì da lontano, arrossì alla sua vista. Voltarle le pagine della musica, ricopiarle i disegni del ricamo, sceglierle libri e giornali, divennero per lui altrettante felicità. Tutti gli argomenti che potevano confortarlo acquistarono nuova forza: tutti coloro che lo stimavano giovane, adatto a creare una famiglia, gli riuscirono accetti; la possibilità di cancellare il suo passato morale, di aprire una nuova era nella sua storia gli parve naturale ed innegabile. Quando seppe che i dieciotto anni di lei erano già diciannove, ne fu consolato. Prima che la potesse sposare, Anna avrebbe quasi raggiunto i venti: non era dunque una bambina. Fece il conto dei suoi amici che avevano preso moglie dopo i quarant'anni: non erano pochi. A sessanta egli avrebbe potuto avere un figlio soldato, a settanta sarebbe stato nonno. Superata la crisi presente, lunghi anni di maturità sana e gagliarda si sarebbero seguiti... Un giorno, per via, incontrò un vecchio che si fermò un momento a guardarlo, poi gli si avvicinò stendendogli la mano:

«Ranaldi!... Non mi riconosci

Lo riconobbe infatti, alla voce, agli occhi: era un compagno di scuola, uno della provincia, del quale non gli riusciva di rammentarsi il nome, dopo tanti anni che non lo vedeva più.

«Io ti ho riconosciuto immediatamente! Ti conservi bene, sai!... Mi trovi» aggiunse, con un sorriso amaro «un poco cambiato?...»

Era un vecchio, quasi tutto bianco, nei capelli, nei baffi, nelle ciglie, e rugoso, e incurvato. Quel vecchio doveva avere appena quattro o cinque anni più di lui. Egli non capì bene che cosa gli diceva, occupato com'era, sulle prime, da un senso di egoistica soddisfazione all'idea di non essere stato in modo così atroce colpito dal tempo; ma più tardi, rimasto solo, rivedendo quella rovina con gli occhi della mente, antivedendo quella che fra poco sarebbe avvenuta anche in lui, calcolando quanto era imminente, tutta l'anima gli si chiuse. Finito, egli era un uomo finito. Quanti anni, lunghi, oscuri, irrevocabili, erano passati dal tempo degli studii e dei chiassi evocati da quel compagno! Quanti? Venticinque! Anche più! E Anna non era nata ancora, ne erano passati ancora sei o sette prima che ella nascesse! Ed egli aveva potuto sognare di farla sua? Ed aveva mendicato allo specchio assicurazioni di giovinezza e lusinghe di venustà? E aspettava forse di chiedere alle quarte pagine dei giornali rimedii contro l'esaurimento e promesse di virilità? Improvvisamente un impeto di sdegno e di vergogna lo sollevò dallo stupore accorato e dalla mortale meraviglia. La perfidia dell'eterna illusione gli parve insopportabile, la sciocchezza e l'impotenza sua e di tutti gli uomini, senza misura e senza fine. E il bisogno di vincerla, di reagire, di dare il passo alla fredda ragione, lo strinse. Quel giorno, tornato a casa vi trovò Anna col nonno. Quasi perché egli potesse meglio misurare l'enormità del proprio inganno, Anna era più rosea e più fresca, più rigogliosa che mai: tutta vestita di bianco, con un cappellone di paglia fiorito di papaveri, che le dava un aspetto quasi infantile, e allegra, eloquente, vibrante ed esuberante di vitalità. Un senso di rancore gli morse il cuore dinanzi a quella floridezza; poi sentì che il rancore diventava odio e quasi tentazione di spezzare quella vita prima della sua propria. Il riso di lei gli parve irritante. A chi rideva, di che rideva? Forse di lui, che l'aveva creduta sincera! La vanità di quella frivola era stata piacevolmente eccitata vedendosi fatta segno all'attenzione d'un uomo, del primo uomo capitato, perché così voleva la sua natura femminile; ma se egli avesse spinto la sciocchezza fino al punto da rivelare le sue intenzioni, chissà qual altro fragoroso riso! E lo sdegno, la vergogna, il rancore, l'odio, tutti i moti violenti si accumularono, ebbero bisogno di prorompere.

L'argomento del discorso, tra suo padre e i cognati, e il nonno di lei, era politico. Nella mattina il giornale locale e quelli di Napoli avevano portato la notizia d'un attentato contro la Camera austriaca. Un anarchico aveva deposto e fatto esplodere una bomba, sull'angolo della piazza del Parlamento all'uscita dei deputati. L'effetto non era stato molto micidiale; il solo autore dell'attentato era morto, per il tremendo coraggio di aver percosso la capsula con un sasso, stando inginocchiato dinanzi allo strumento di distruzione. Dalla parte dell'edifizio, si erano prodotti guasti notevoli, ma tra i deputati e i passanti, solo una dozzina erano i feriti, e due soli gravemente. Nel domicilio dell'anarchico si era trovato uno scritto, ancora fresco, dove, sul punto di uscire per commettere l'attentato, egli dichiarava i motivi che lo spingevano: il bisogno di protestare contro la società borghese ed i suoi rappresentanti occupati a combattersi in nome di quelle idee di patria e di nazione alle quali l'anarchia sostituiva il più vasto e generoso concetto dell'universale solidarietà umana; la speranza di far proseliti che, col sacrifizio della propria vita, dessero la morte ai detentori dei poteri pubblici, ai capi dei Governi e degli Stati, e dimostrassero con l'efficacia dell'esempio cruento e del martirio serenamente affrontato, la necessità di sopprimere, quindi, non più gli individui particolari, ma l'autorità che avevano arbitrariamente esercitato; affinchè ultimamente, in un avvenire più o meno lontano, ma immancabile, il consorzio civile, affrancato da ogni tirannia piccola o grande, materiale o morale, e sotto le uniche leggi della perfetta eguaglianza e dell'assoluta libertà, conseguisse quella felicità che gli era dovuta.

«Che ammasso di assurdità e di aberrazione!... Che sciocchezze e che orrori!... La patria negata! L'autorità soppressa! Il delitto convertito in esempio!... È una pazzia! È l'incoscienza!... No, è un'infamia!... Non c'è rigore bastevole a punirla, a prevenirla!...»

Tutti, ad una voce, discordando appena nella forma, esprimevano esecrazione e terrore. Il Presidente Ursino inorridiva particolarmente perché l'anarchico era italiano. Egli non capiva come un Italiano di Trieste avesse compito quell'atto, in Austria, mentre la sua terra natale era ancora oppressa dallo straniero. Il commendatore Ranaldi diceva che un simile orrore era conseguenza di pervertimento morale, delle stolte propagande; ma che, non potendosi andare più oltre, giunta l'evoluzione dell'idea rivoluzionaria all'estremo limite dell'anarchia, si poteva e si doveva sperare in un ritorno alle sane e secolari tradizioni dello spirito umano.

«Non si può andare oltre?» osservò a un tratto Federico, che fino a quel punto era stato a sentire, senza dir nulla. «Si andrà oltre, vedrete

«Come? In che modo?...» domandarono gli altri, mentre suo padre lo guardava, tacendo.

«Credete che l'anarchia sia l'ultima parola della ribellione? Ce n'è un'altra, ce ne sarà un'altra. Io non mi stupisco niente affatto che un Italiano, in Austria, abbia potuto commettere un atto simile, invece di imitare, per esempio, Oberdan. Certo, vi sono ancora triestini, che sognano di riunirsi a questa nostra patria comune come la massima possibile felicità. Altrettanto sognavano, cinquant'anni addietro, i milanesi e i veneziani. La felicità che questi hanno ottenuta, e noi con loro, non si vede e non si sente, è vero, ma solo perché è inesprimibile, tanto è grande e profonda!...»

La sua voce era piena d'una tagliente ironia.

«Quando gl'irredenti saranno redenti, come noi, non avranno più da odiare l'oppressore straniero; soltanto, come già tra noi vi sono alcuni incontentabili i quali trovano qualche cosa da ridire nella nostra gioia presente, così anch'essi, o alcuni di loro, penseranno che il problema non è stato ancora risolto. E chi sentirà che la libertà ottenuta è un inganno, che il pagar le tasse al governo italiano o all'austriaco, che il servire nell'esercito italiano o nell'austriaco, che l'obbedire al poliziotto italiano o all'austriaco, che il rispettare le leggi votate dai deputati italiani o dagli austriaci è press'a poco la stessa cosa, odierà l'oppressore paesano come e quanto già odiava il forestiero. Questo Badini mi pare dunque molto logico: invece di prendersela contro i deputati austriaci perché austriaci, salvo poi a prendersela coi deputati italiani, perché deputati, se l'è presa direttamente contro la funzione esercitata da quegli onorevoli...»

«Ma come? Lo approvate? Lo approvi? Che modo è questo di ragionare

«Lo approvo? Un momento! Non ho ancora finito. Dico che invece di procedere per gradi cominciando dal mirare vicino per poi arrivare più lontano, egli ha diretto subito il suo colpo contro la meta più alta; così un soldato volendo uccidere qualcuno per protesta contro il militarismo, non ammazza il suo caporale, dietro al quale sta il sergente, il furiere e tutti gli altri ufficiali sino al generale, ma accoppa il Ministro della guerra addirittura. Soltanto, sono d'accordo che l'eccidio è inutile; e non già perché, ammazzato un ministro, un deputato, un re, un imperatore, se ne fanno altri. Questa cosa l'anarchico la sapeva; egli ha, nondimeno, dato fuoco alla bomba, per far proseliti, - e l'ha scritto - che ammazzino ancora altri deputati, e poi ancora altri, che ne sterminino ancora altri, finché i borghesi intimoriti si persuaderanno a non eleggerne più, a non creare più altri legislatori ed esecutori di leggi, anzi a distruggere tutte le leggi. Ma quando saranno distrutte tutte le leggi, l'anarchico crede che il paradiso sarà conseguito; e qui è la sciocchezza sua. Perché, quando parrà che non vi saranno più leggi, ve ne saranno ancora, non fosse altra, la legge di non potere fare più legge; e gli uomini della società futura giudicheranno che questa è la più intollerabile di tutte; e allora si tornerà da capo e si vedrà ancora una volta ciò che fu noto sin dal primo principio a chi vide il fondo delle cose; voglio dire che tutte le rivoluzioni sono state e saranno inutili; e che la radice del male non è negli ordinamenti politici, ma nella nostra stessa natura...»

«Che novità!... Cose sapute e risapute!... Ma che vuol dire?... Ma che bisognerà fare?... Ma l'attività umana...»

Smentito da tutte le parti tranne che da suo padre, Federico sorrise, con un gesto pacato della mano.

«Un momento! Se non mi lasciate finire! Lei, Presidente, vuol dire che tutte le persuasioni astratte e tutti i disinganni concreti non impediranno all'attività umana come non le hanno mai impedito, di operare, di sperare, di attendere? Certo, certissimo; il mulo che fa andar la ruota, se anche non avesse gli occhi bendati, se anche vedesse che è condannato ad aggirarsi sempre dentro uno stesso circolo, non tralascerebbe per questo di muoversi, perché soltanto a patto di muoversi dentro quel circolo, egli mangia, beve e vive. Così gli uomini, è certo, continueranno a ricalcare le loro proprie pedate, credendo di procedere oltre, come il mulo bendato, od anche - e questo dimostra che la loro sopportazione è ancora più grande di quella del mulo - quando si sono già accorti che non procedono niente affatto, ma girano. Soltanto, in mezzo a questi uomini che abbiamo finora considerati complessivamente, vi sono certe varietà di sentimenti e di umori, grazie alle quali vediamo ogni giorno che alcuni si illudono molto ed altri poco; che alcuni vorrebbero correre, ed altri sdraiarsi, che alcuni si stimano infinitamente superiori al mulo, ed alcuni quasi lo invidiano; ora c'è una particolare varietà di cotesti uomini, e sia pure scarsissima, composta di quelli che arrivano a persuadersi essere il male, sotto tutte le forme, sociali, morali e fisiche, la condizione stessa dell'esistenza, sia dell'uomo che del mulo, o dell'insetto, o della pianta, o della pietra; e tanto costoro ne sono persuasi, che arrivano a distruggere, date certe condizioni, l'esistenza loro. Ora, se la religione della sofferenza umana che i nostri filosofi hanno scoperta diventerà una vera religione, se l'amore del prossimo, la carità, l'altruismo crescono e si effondono continuamente come sostengono i nostri ottimisti, verrà un giorno nel quale coloro che sono sul punto di procurarsi il gran benefizio del non essere, si vergogneranno del loro egoismo, e sentiranno il dovere di procurar lo stesso bene anche agli altri, al maggior numero possibile...»

Tutti tacevano.

Anna s'era accostata con tutti gli altri, piccoli o grandi, a udire. Nella breve pausa fatta dall'oratore, il solo Presidente Ursino domandò, aggrottando le ciglia:

«Il che significa

Federico, che aveva parlato fino a quel momento con un tono ed un sorriso di sottile ironia, riprese ad un tratto, con voce un poco stridula ed acre:

«Il che significa che si andrà oltre quell'anarchia attualmente giudicata come il termine ultimo della ribellione alla morale della tradizione, e che un nuovo partito sorgerà, il quale non s'indugerà a risolvere l'insolubile quistione sociale, ma affronterà tutto il problema umano. Questo partito saprà che la radicale soluzione indicata dalla stessa natura, è una sola: la morte. Darsela e darla a un tempo, sarà giudicato un diritto e un dovere. L'uccisione d'un uomo si condanna giustamente come il più nefando delitto, perché dalla morte data ad un simile, l'assassino ottiene un vantaggio per la sua propria vita; s'impadronisce del denaro altrui, soddisfa la gelosia, vendica l'onore, sbrama una passione; ma un giorno, quando in qualche testa umana, poche o molte non importa, si radicherà la persuasione che non c'è nessun vantaggio in nessuna vita, che nessuna passione s'appaga, che tutte risorgono, dopo il creduto appagamento, più feroci ed urlanti; che il bisogno non cessa, che il dolore è eterno, che il male è insanabile, allora la morte da questi pochi o da questi molti, sarà voluta dare non come una punizione e una vendetta, ma come un premio. Questi uomini non crederanno di formare un semplice partito politico, ma una religione nuova, e un fervore mistico li animerà. Lo sciagurato che lanciò ieri la bomba sapendo di doverne essere la prima vittima, voleva ottenere col terrore nel tempo, una modificazione dell'assetto umano; i fedeli della religione della morte lanceranno le bombe solo per morire insieme coi loro fratelli di dolore, per liberarli e liberarsi. Essi saranno certi di rendere il massimo bene a chiunque resterà sotto il colpo, uomo o donna, giovane o vecchio, povero o ricco, in qualunque disposizione del corpo e dell'anima. La più gran parte dei passanti in mezzo ai quali semineranno la morte saranno in preda a cure, a crucci, a tormenti, ad assilli, a rimorsi, a necessità; e quelli che si sentiranno gonfi di speranze troveranno a breve andare il disinganno, e quelli che per caso si crederanno felici, vedranno, dopo fatto qualche passo, disperdersi la loro felicità. La morte sarà un benefizio per tutti, per i sofferenti che non soffriranno più, per i gaudenti che non vedranno la fine del gaudio loro. E non la sola vita umana questi mistici vorranno distruggere, ma tutte le sue opere vane e tutte le altre effimere vite. Come gli anarchici d'oggi, essi si chiuderanno in luoghi remoti e segreti, a preparare, coi più potenti mezzi della chimica futura, strumenti che, in piccolo volume, racchiuderanno una forza tremenda, e che rovineranno dalle fondamenta tutto un edifizio, che ridurranno in polvere tutto un quartiere di città, e che non lasceranno un solo ferito, e neanche un solo cadavere intatto, ma faranno sparire tutti i corpi viventi come con una pedata si fa sparire un insetto

Egli era sorto in piedi: fece il gesto, strisciando forte con la suola sul pavimento. Il suo pensiero si precisava in quel punto. Egli trovava repentinamente la soluzione cercata. Per la concitazione, si mise ad andare su e giù per la sala, continuando a parlare:

«Costoro non abbomineranno la sola vita, ma la stessa esistenza delle cose che sono o sembrano inerti. Non potranno annientarle, ma romperle, sì, scioglierle, ridurle a uno stato sempre più incoerente. A pezzo a pezzo, coi loro formidabili arnesi, vorranno isterilire, rovinare, frantumare e polverizzare tutto ciò che sta in un angolo del mondo, la stessa materia del mondo, il monte, la collina, il promontorio, la pendice, l'isola, il campo. Ci furono un tempo distruttori di templi, di immagini, avremo i distruttori delle cose e della vita. Io già li presento, li vedo derivare dai più freddi e più logici anarchici. Questi uccidono e muoiono insieme con le loro vittime; non resta da far loro che spogliarsi dell'odio di cui sono ora animati; manca ad essi soltanto la rinunzia alle assurde speranze riposte in un avvenire chimerico, la semplice persuasione che con la morte si è già ottenuto, immediatamente. Il passo non è lungo, qualcuno lo compirà. Un primo esempio sarà tosto seguito da altri; allora il partito sarà formato e conterà proseliti sempre più numerosi. E già mi par di sentirne ripetere i nomi. Perché odieranno la vita essi saranno chiamati biofobi; perché faranno saltare a pezzo a pezzo il mondo si chiameranno geoclasti

Tacque, si fermò, guardando i circostanti. Erano tutti ammutoliti, tutti gli sguardi erano chini, tranne quello di Anna. La giovinetta lo guardava con i grandi occhi smisuratamente ingranditi, pieni di una espressione di spavento e angoscia. Anch'egli la guardò. Allora ella congiunse le mani, le strinse forte, col gesto abituale, ed esclamò:

«Che vi hanno fatto, perché diciate così?»

Quelle parole, il tono di quella voce, il lampo di quegli sguardi, gli rimasero nell'anima, incancellabili. "Che vi hanno fatto perché diciate così?..." Non le vivaci proteste dei cognati, non i freddi ragionamenti del Presidente, non il doloroso silenzio delle sorelle e dei genitori lo impressionarono altrettanto. Quella bambina aveva trovato la nota più giusta, l'osservazione più penetrante, la verità della quale egli stesso aveva una sorda coscienza. Tutti i suoi torbidi pensieri, tutta la sua nera disperazione, tutto l'odio suo mortale derivavano dall'esperienza dolorosa, dal veleno distillato in vent'anni di pandemonio politico, di galera giornalistica, di amori malsani. Se egli avesse vissuto in un altro mondo, o in un altro modo, in quel mondo, non sarebbe venuto a quelle conclusioni spaventose. Aveva visto lo spettacolo del male, la petulanza della menzogna, le tortuosità dell'ipocrisia, la ferocia degli egoismi, la mordacità della calunnia, la cupidità degli appetiti, la presunzione dell'ignoranza, l'insolenza della vanità, la sfrenatezza di tutte le peggiori passioni, ma non si era soffermato dinanzi al bene, non ne aveva cercate e raccolte le prove. Aveva commesso il male egli stesso, ingolfandosi nella battaglia, senza voltarsi indietro, senza ritrarsi di tanto in tanto, senza ritemprarsi sotto il tetto paterno, negli affetti semplici e sani. Non ce n'erano? Non era santo l'accordo dei suoi genitori, anche se ottenuto con gli anni, dopo i malintesi inevitabili? Non era una cosa buona e bella e commovente quella corona di freschissime vite che ne allietavano la vecchiezza, anche se facevano talvolta troppo rumore? I vecchi si rivedevano nei figli e nei nipoti; ed egli solo, con la sua presunzione di giudice supremo di tutto e di tutti, li addolorava e li atterriva. Solo, si sentiva solo in mezzo a quell'intimo cerchio; nessuno comprendeva le sue idee, di nessuno aveva cercato l'amore. E d'amore e di bene egli non era, no, incapace; ne aveva avuto sempre bisogno, il suo odio era una forma d'amore insoddisfatto, il suo concetto del male era l'inappagato struggimento del bene. E improvvisamente, all'idea di avere vicino ciò che cercava, di non dovere far altro che stendere la mano per ottenerlo, di stringere al cuore Anna, di rifarsi una gioventù, di entrare in una nuova esistenza con la benedizione dei suoi vecchi augusti, sentì gli occhi spietrarglisi e il pianto bagnargli le ciglia. Pianse tutta la notte, di speranza e di disperazione, ora lusingandosi d'essere ancora in tempo, ora sentendo quant'era tardi; a certi momenti immaginando e quasi pregustando le gioie che poteva ancora assaporare, a certi altri antivedendo e presentendo nuovi, maggiori dolori. I dolori non sarebbero mancati, ma una nuova voce gli diceva che sarebbero stati sani e santi, che bisogna accettare tutta l'esistenza qual è. La voce antica gridava ancora la necessità di ricusarla, di spezzare il cerchio degli inganni. Come uscire da quel travaglio? Come risolvere quel dubbio? E la soluzione dipendeva forse tutta da lui? Che c'era realmente nell'anima di Anna? Lo aveva ella compreso, lo amava, non lo giudicava troppo arido e vecchio, troppo orribile, più moralmente che fisicamente, dopo avergli udito proferire quell'atroce profezia?

Bisognava parlarle; dalle sue parole avrebbe preso consiglio. Senza svelarsi, senza chiederle nulla, direttamente, avrebbe trovato modo di conoscere il suo sentimento. E cercò l'occasione di restare da solo a sola con lei.

Un giorno, al Sacro Monte, dove ella era venuta col nonno, restarono soli.

«Volete venire alla cappella

«Ma sì! Con entusiasmo

Si avviarono. La via era come sospesa sul golfo, addossata da una parte al monte, chiusa dall'altra da un muricciuolo, sotto al quale la costa precipitava fino al mare. Il mare, lucido come specchio, pareva distendersi all'infinito, oltre l'orizzonte velato da sottili vapori. In alto il sole sfolgorava, ma la fitta vegetazione ne arrestava i raggi, ed Anna faceva girare capricciosamente il manico dell'inutile ombrellino rosso appoggiato alla spalla.

«Che bellezza!... Che incanto!...» esclamava, dinanzi al paesaggio grandioso. «Guardate Capri!... Guardate il Capo!... E quel piroscafo che se ne va in Sicilia!... È la strada della Sicilia, è vero

«Sì...»

«E questa scoscesa!... E questa spiaggia!... Si contano le casupole, i sassi, le rughe del mare!... Direte ancora che è di cartone

Egli restò un poco in silenzio, poi disse:

«Che ve ne importa ciò che io ne penso? Godetene voi, non ve lo impedisco

Ella rise.

«Grazie del permesso! Ma è che io non ne godo pienamente, pensando che a voi non piace. Non vi è accaduto mai, gustando un buon cibo, di non giudicarlo più buono se qualcuno vicino a voi ci trova un cattivo sapore

«Voi fate dipendere la vostra opinione da quella degli altri?» disse egli, con tono mordace.

«Nossignore; penso con la mia testa. Ma se fremo d'entusiasmo e qualcuno vicino a me resta diacciato, un poco di quel gelo raffredda anche me.»

«Non sapevo che foste tanto sensibile!...» osservò egli, con la stessa espressione di sottile ironia.

«Non più degli altri» replicò ella, tosto.

«Avete scelto allora un cattivo compagno

«Di questo non siete giudice voi.»

«Mi volete fare dei complimenti

«Niente affatto; vorrei dirvi...»

Ma non disse nulla; tacque ad un tratto, facendo girare più rapidamente, quasi nervosamente il manico dell'ombrellino.

«Che cosa?» domandò Federico.

«Vorrei dirvi...» riprese ella con un certo stento «vorrei chiedervi ciò che già vi chiesi l'altra sera: che cosa vi hanno fatto, perché siate così?»

Le rispose con un falso sorriso, con una finta curiosità impertinente, mentre sentiva che il cuore gli batteva più forte.

«Così come, di grazia?...»

«Così triste, scettico, acre, indifferente alle cose belle, sprezzante di ciò che piace agli altri, di ciò che credono gli altri; non so se posso anche dire...»

«Dite, dite pure, vi accordo tutti i permessi, oggi...»

«Non ridete... Questo riso non è sincero, fa male, peggio del rancore che esprimete quando parlate sul serio. Che male ci avete fatto, l'altra sera, con le vostre terribili profezie! Non avete visto il viso dei vostri genitori? Scusatemi, ma si dubiterebbe della vostra bontà, udendovi dire di quelle cose

«E chi vi dice ch'io sia buono

«Dovrei rispondervi che me lo hanno detto i vostri parenti, le persone che vi conoscono; ma perché non ripetiate che giudico con la testa degli altri» e sorrise «vi dirò che l'ho sentito, che l'ho compreso da me, nonostante le vostre parole amare e velenose... anzi proprio in quelle.»

Egli non rispose, con l'impressione che quella creatura stesse per leggere nel suo pensiero, per guardare dentro all'anima sua.

«Non volete che vi si giudichi buono? Lasciateci dire almeno che siete molto migliore di quel che non vogliate apparire. Lo sappiamo tutti, lo sanno meglio di tutti i vostri genitori; ma ciò non toglie che essi siano addolorati dalle vostre parole. Avrete certo buone ragioni per esser divenuto così misantropo; ma permettetemi di dirvi che a quei poveretti dovreste cercare di nascondere i vostri sentimenti acri, e mostrare soltanto i dolci. Vi dispiace che vi dica queste cose? Il mio nonno è tanto amico del vostro babbo, che mi pare di conoscervi da moltissimo tempo, di potervi parlare come una sorella...»

Ella pronunziò a bassa voce le ultime frasi; l'ultima parola, sorella, si udì appena. Per la soggezione di tenere un così grave discorso, lei giovanetta, ad un uomo? Non perché quella parola le sonava male, ne rendeva difficile un'altra, più intima ancora?

«Vi ringrazio» disse Federico, smettendo il tono dell'ironia «volete che vi parli come ad una sorella

«Ma sì! ma sì!»

«Volete sapere perché sono così? Volete sapere come sono realmente, in fondo, proprio nel fondo dell'essere mio? Sapete quanti anni ho?»

«Non lo so

«Ho quarant'anni, e ne ho passati venticinque, un quarto di secolo, - più che voi non ne abbiate - fuori di qui, a Napoli, a Roma, all'Università, nel giornalismo, nella politica, in mezzo al più vasto e tenebroso mondo. Ho vissuto, e la vita mi ha fatto come sono, come voi m'avete visto, peggio che non m'abbiate visto. Vi entrai con tanta fede, e con tante illusioni che ora non ho più, perché essa me le portò via a pezzo a pezzo, ad una ad una. Credevo al bene, alla virtù, a una infinità di cose, e ora non ci credo più. Fremevo d'entusiasmo per il mio paese, per questa Italia di cui avevo studiato la storia, e lacrimate le sciagure e benedetta la resurrezione... Ringraziavo Dio d'avermi fatto nascere lo stesso giorno che l'Italia risorgeva a dignità di nazione; me ne tenevo dinanzi ai più vecchi di me, come se qualche cosa della schiavitù, dell'abbiezione durante la quale essi erano nati, li contaminasse, mentre io ero nato puro, libero cittadino d'un libero, d'un glorioso paese...»

«Sì, sì...» fece ella secondandolo col gesto del capo, incoraggiandolo col tono della voce, quasi eccitandolo e spronandolo a manifestare un sentimento buono e vivace.

«Voi provate un simile entusiasmo

«Sì! sì! Ho studiato anch'io la storia, è una delle cose che più mi piacciono; ho visto a Torino, a Firenze, i ricordi del nostro risorgimento, i quadri delle battaglie, le vecchie bandiere scolorite dal tempo, traforate dalle palle, le vecchie uniformi dei soldati e dei volontarii; ho letto i proclami dei generali stranieri e dei re nostri, le sentenze di morte pronunziate contro i martiri, le lapidi murate sui luoghi memorabili, e ne ho ricevuto impressioni vivissime, fino a piangerne...»

«Ne ho pianto anch'io, ma ora rido del mio pianto

Ella si fermò, lo guardò attonita e dolorosa:

«Come è mai possibile

«Perché ho letto, dopo la storia, la cronaca; perché ho guardato dietro le scene della rappresentazione apparentemente magnifica; perché l'egoismo nascosto sotto l'eroismo mi si è rivelato, ma specialmente perché ho visto e vedo che i sacrifizii purissimi delle poche anime veramente nobili e belle furono compiti in forza dell'illusione, che l'unità, la libertà, l'indipendenza d'Italia avrebbero assicurato tutte le fortune a tutti gl'Italiani. Quel che si è ottenuto voi lo vedete, quantunque non vi occupiate di politica, né abbiate letto le statistiche, né siate vissuta in mezzo a quel mondo dove sono vissuto io.»

«Ma in tutte le cose» rispose ella vivacemente «vi sono difetti; le più belle, esaminate troppo da vicino sembrano brutte, o meno belle. Capisco benissimo che a Roma ne abbiate viste molte addirittura disgustose; ma scusate: lassù avevate messo casa per conto vostro, o mangiavate al caffè

«Che c'entra questo?»

«Ve lo spiegherò quando mi avrete risposto: al caffè o in casa

«Al caffè, al caffè

«E questo è il male! Vi siete guastata la salute, e non avete visto una cosa molto istruttiva. Se aveste messo su casa vostra, con la sua brava cucina, ci sareste entrato qualche volta, ed avreste visto quello che vi vedo io ogni giorno: che i cibi più gustosi e nutritivi non si possono preparare senza maneggiare della roba non sempre pulita, senza ammucchiare una quantità di detriti che vanno a finire allo spazzaturaio.

«A casa mia io entro in cucina tutti i giorni, e vi passo anzi parecchie ore, per invigilare e per dare una mano alla cuoca, quando occorre. So fare molte salse, molti dolci, un po' di tutto; con tutto l'amore della nettezza, con tutto l'orrore per le sudicerie, bisogna pure imbrattarsi le mani, salvo a lavarsele dodici volte di fila. Della vostra politica io non m'intendo, ma immagino che anch'essa debba essere una specie di cucina, dove si preparano le leggi invece delle pietanze; nel manipolare le più belle e le più buone, non si eviteranno gl'inconvenienti delle cucine, ci si unge, ci si affumica, ci si ritrova in mezzo a bucce di limoni, a gusci d'uova, a lische di pesce, a rigovernature di casseruole... Voi sapete che cosa siete?»

«Pare di no! Ditemelo voi.»

«Siete poeta. Il paragone che vi ho portato non vi piacerà perché non è punto poetico. Vorreste tutto bello, tutto buono, tutto grande, tutto puro. Non siete il solo. Ma bisogna farsi una ragione!

«Oggi per il nostro povero paese corrono giorni prosaici; voi, che v'infiammaste di poesia patriottica, siete tanto scontento, che sembrate finanche cattivo, dal tanto amore del meglio. Ma il meglio, si dice, è nemico del bene...»

A un tratto, scoppiò in una risata.

«Ma sapete che è curiosa? Io vi faccio la predica, a voi! Come se tutte queste cose, con la vostra esperienza, non le sapeste meglio di me! Come se l'illusa, se la poetica, non dovessi essere io, piuttosto!...»

«Avete ragione! Sono uno sciocco a parlarvi così!...»

«E voi avete torto! Mi avevate promesso di parlarmi come ad una sorella, di aprirmi l'animo vostro.»

«Non posso e non debbo mantenere la promessa; perché a voi, alla vostra giovinezza ignara e fiduciosa, le conclusioni disperate che io ho tratto dall'esperienza si debbono tenere nascoste; o è inutile svelarle perché restano incomprensibili

«Adesso mi dite, con belle maniere, che la sciocca sono io!»

«No, Anna...» e pronunziando la prima volta dinanzi a lei, il nome di lei, una grande dolcezza, una tenerezza infinita, uno struggimento ineffabile lo costrinsero a tacere un istante; «no, Anna; non siete sciocca, siete anzi una delle più intelligenti creature del vostro sesso che io abbia finora conosciute;» ed ella chinò gli occhi, con un fine sorriso, con una espressione di modestia e di incredulità; «ma avete la disgrazia di dover ragionare con un uomo che è giunto all'estremo limite della stanchezza e della sfiducia, che non crede più a niente, che non aspetta più niente.» Ella si fermò ancora una volta, lo guardò negli occhi.

«Più niente niente?...»

Egli tacque, confuso da quello sguardo lucente, dolcissimo nella sottile ironia, quasi eccitatore, quasi provocatore d'una confessione attesa, desiderata.

Ma la paura di ingannarsi e la vergogna di scoprirsi, la suggestione dell'amor proprio e l'esitazione della volontà, gli fecero rispondere:

«Più niente niente di ciò che è possibile...»

Ella si fermò. Erano giunti dinanzi alla grotta dell'eremita: una vera grotta, scavata nel vivo sasso, chiusa da un rozzo cancello dalle sbarre del quale si scorgeva nel fondo buio una specie d'altare.

Accanto all'entrata, sopra una piccola buca lunga appena tanto da lasciar passare le monete, stava scritto con brutti caratteri: Elemosina, e intorno alle lettere erano dipinte orribili figure di santi spirituali col capo girato dall'aureola, di anime del purgatorio circondate da lingue di fiamma. Anna guardò dapprima tacitamente la grotta, la scritta, le pitture; poi, si voltò a guardar Federico.

«Niente di ciò che è possibiledisse, ripetendo le parole di lui. «E l'impossibile

Egli rispose, con un sorriso:

«À l'impossible nul n'est tenu...»

«Ma che cosa è l'impossibile, secondo voi?»

«Lo volete sapere

«Sì!»

«Dimenticare, ricominciare, tornare addietro, ritrovare la speranza, la fede, la forza d'un tempo, rimettermi nella strada maestra battuta da tutti i miei simili...»

«Questo vi riuscirà difficile, forse, ma non è impossibile

«Con gli anni che ho sulle spalle

Ella abbassò l'ombrellino, lo chiuse con un gesto di impazienza.

«Se volete sostenere che siete vecchio, lasciamola ; è inutile discutere

«Sono giovane, allora? Faccio in tempo a ricominciare? Come debbo fare?»

«Potete e dovete crearvi una famiglia: questo è il rimedio di cui avete bisogno

«E sono adatto a crearmela

«Perché no? Solo che vogliate!»

«E dove troverò una donna la cui volontà si accordi con la mia?»

S'udirono a un tratto le voci dei fanciulli chiamar da lontano:

«Anna!... Anna!...»

Ella rispose:

«Cercatela

E l'ultima notte arrivò, la notte bianca, angosciosa, ed eterna, durante la quale egli non potè chiudere gli occhi un istante, con l'animo in tempesta, il cervello in fiamme, il cuore in tumulto. Anna lo amava, sarebbe stata sua solo che egli avesse voluto. Contro tutti i suoi antichi convincimenti, le promesse dell'amore, la gioia di possedere un'anima viva, di dare tutta l'anima sua a quella creatura dolce e gentile, gli sorridevano ineffabilmente. Si vedeva al suo fianco, in un lungo viaggio di nozze, in una interminabile luna di miele, ringiovanito ad un tratto, prestigiosamente. La nuova esistenza non sarebbe stata tutta fiorita, ma gli avrebbe preparato travagli sani e fortificanti. La legge era la legge, procreare nuove esistenze, rivivere nei figli, che un giorno gli avrebbero chiuso gli occhi. Bella, buona, dolce, gentile, e fresca tanto, e tutta pietosa era la creatura a cui si sarebbe unito per sempre. Lo amava: il cuore gli si struggeva dalla gratitudine. A quell'umile sentimento s'aggiungeva anche la superba eccitazione dell'amor proprio: improvvisamente egli aveva coscienza di valere ancora qualche cosa, d'essere uscito con l'anima stanca dalla lunga esperienza, ma con un fascino nuovo sulla fronte. E tutte le sue forze latenti e disconosciute si sollevavano, insorgevano, facevano impeto, chiedevano d'essere esercitate, subitamente lo facevano balzare dal letto sul quale s'era disteso vestito, andare e venire per la camera con una mano stretta nell'altra, col gesto familiare ad Anna. Stringersela al petto in una stretta che nulla avrebbe potuto mai più sciogliere! Dirle tutto quello che aveva nel cuore, la resurrezione operata da lei, il miracolo della salute restituitagli con una parola, con uno sguardo! Non esitare più, non discutere più: abbandonarsi al sentimento, all'istinto, fiduciosamente e ciecamente... Esser cieco e sordo, sì, per non vedere, per non udire le cose e le voci contrarie, la disproporzione delle età, la sua vecchiezza morale, la sua stanchezza fisica, le insidie, i pericoli, i danni immancabili!... Ai quadri ridenti succedevano allora i tristi, i dolorosi, i desolati: i malintesi, le discordie, la nimistà da cui sarebbero stati più tardi e forse troppo presto divisi: egli vecchio senz'altro fra dieci anni, ella ancora nel rigoglio della prepotente giovinezza... E che importava? E perché pensare al poi, a un domani che forse non sarebbe venuto, se la morte avesse colto uno dei due, od entrambi?

E se importava, se bisognava pensare al poi ed al tutto, se egli doveva restare quello che era, con la disperazione e il suo scetticismo, allora la morte, subito, prima del nuovo giorno!

Presa l'arma in mano, l'esaminò, la posò sulla scrivania. Provò a scrivere; ma non potè. Che scrivere, a chi? Non era più l'ora. Col nuovo giorno la decisione doveva esser presa, irrevocabile. Egli sarebbe andato a uccidersi all'Eremitaggio, dinanzi allo spettacolo visto con lei, nel luogo dove ella gli aveva detto della donna cui unirsi: "Cercatela". Quella parola significava: "L'avete qui, dinanzi a voi". Morire, morire piuttosto che cercarne un'altra, che rinunziare a lei. Da sei mesi che frequentava quella creatura, il suo fascino lo aveva talmente penetrato, che ora se ne sentiva tutto pieno, fisicamente, come d'un fluido che circolasse nelle sue vene, che attivasse il suo respiro, antico, consueto, noto effetto della passione, contro la quale si credeva agguerrito, e non era. Contro nessuna passione era agguerrito: l'esperienza tornava vana. L'esistenza ancora forte e tenace reclamava tutti i suoi diritti, egli poteva troncarla d'un colpo, ma non comprimerne le energie, non mortificarne gl'istinti, non evitarne gli errori. Tutta la sua vita trascorsa gli passò dinanzi, dai giorni più remoti, dalle prime fedi, dalle prime illusioni, dalle prime battaglie. Alla finestra, vide spuntare il primo chiarore dell'alba. Spalancò le vetrate, s'affacciò alla terrazza. La freschezza della mattina temperò l'ardore della sua febbre, sollevò il suo petto oppresso. Sulla metallica lastra del mare, infinitamente puro, la purezza del cielo si rispecchiava con la prima luce, con le prime colorazioni. Perché non aveva egli più un'anima tersa, degna di riflettere l'immacolato candore di Anna? Perché l'aveva conosciuta così tardi, nel meriggio della sua giornata mortale, dopo tante contaminazioni? Pianse. Poi l'altro uomo che era in lui gli disse che non vi sono candori immacolati, che Anna era un essere umano come tutti gli altri, con tutte le stimmate umane, con tutte le macchie del suo sesso. Ella stessa lo aveva ammonito di guardarsi dalla troppa poesia. Se ella lo accettava così com'era, perché avrebbe egli fatto il difficile?... La rinunzia era bella, era la sola bella: sparire in quell'istante che l'occhio del sole si schiudeva sulla fronte del mare e del cielo, tra le ciglia dei tenui vapori, nel silenzio solenne e quasi attonito dell'universo. Morire con un sogno nell'anima, sparire prima di un nuovo risveglio. Ma già la città e la casa si ridestavano; rumori di carri. voci lontane per le vie; usci che si aprivano, stridori di passi nelle camere attigue.

Egli vide la madre avanzarsi verso di lui: potè appena nascondere il revolver tra le carte, fingendo di frugarvi.

«Già levato, Federico?...» domandò ella. «Che hai? Ti senti male?...»

«No, mamma... Non ho dormito...»

«Perché?»

Tacque un momento, prima di dire la parola decisiva. Vide la madre sua vecchia, decrepita: si vide vecchio con lei. A quarant'anni passati, senza salute, senza entusiasmo, avvizzito, isterilito, sposare una illusa bambina, accettare il sacrifizio della sua gioventù...

«Mamma, senti, ho pensato a tante cose... Mettiti a sedere accanto a me... Ho bisogno di parlarti

«, figlio mio!...»

Già: invece di uccidersi, come aveva divisato tante volte, come aveva promesso a sé stesso; invece di uniformarsi alla disperata concezione del male universale, prender moglie, mettere al mondo altre creature, contribuire alla perpetuazione del male...

«Mamma, ti rammenti quando mi parlasti di Anna Ursino?... Quando mi dicesti che aveva una simpatia per me, e che s'era fitto in capo - furono le tue parole - di sposarmi

«Come no!... Anna è innamorata di te: se ne sono accorti tutti quanti, anche suo nonno, finalmente.»

«E che ne dice

«Ha detto a tuo padre che sarebbe molto felice se questo matrimonio si combinasse... Io dapprima ero contraria, non te lo nascondo, e non te ne ho più parlato; ma se a te piace, se vuoi...»

Non protestare, non obbiettare, accettare quelle offerte, goderne, esultarne: così voleva la vita.

«Mamma,» egli disse - prendendo la mano rugosa di lei «ho pensato a tutto: chiedi la mano di Anna per me...»

 

FINE

 


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