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- Che pensate dunque di fare? – chiese allora la duchessa di San Severo.
Emilia di Sclàfani, rimasta a capo chino, cogli occhi immoti come attirati magneticamente da qualche visione, con le mani strettamente afferrate ai braccioli della poltrona, si scosse a un tratto con un piccolo brivido, portò la destra alla fronte e rispose sospirando dall’ambascia:
- Lo so io, forse?… Ho una tempesta qui dentro… Sento che mi picchiano sulla fronte, sulle tempie, sul cranio, ferocemente, spietatamente… La febbre mi brucia… Mi par d’impazzire…
- Suvvia, coraggio!… - esclamò la dama, scuotendo un poco la sua bella testa tutta bianca, con un’espressione piena d’indulgente compatimento, come dinanzi all’irragionevole cordoglio d’una fanciulla inesperta. - Fatevi d’animo!… Non è poi cascato il mondo!… Sapete che non vi riconosco?
- Se non mi riconosco neppure io stessa!… Se tutto mi manca d’intorno! se non vedo più uno scopo alla mia vita! se qualcosa s’è spezzato nel mio cervello, nel mio cuore, in tutto l’essere mio!… Del coraggio? della calma? Ho cercato d’averne. Ho detto a me stessa, precisamente, che il mondo non è poi cascato. Ho pensato ad altri dolori, un tempo creduti inguaribili, ed ora dimenticati a segno da ridere della loro cagione. Mi son vista, cogli occhi della mente, di qui a qualche mese, uscita sana e forte dalla triste prova, forse anche contenta che tutto sia finito così. Ho chiamato a raccolta tutta la mia ragione, tutta la mia esperienza, per convincermi che non bisogna domandare alla vita, all’amore, alle creature umane, più di quel che possono dare. Ho chiesto tra me: “Credevi tu dunque davvero che quest’uomo t’avrebbe amata eternamente? Che cosa v’è d’eterno in noi? Non hai tu sorriso degli affidamenti superbi? Poni una mano sulla tua coscienza: alla lunga, non avresti finito d’amarlo anche tu? Sii ancora più sincera: non cominciavi a sentirti già stanca?…”.
- Brava! - interruppe l’altra, approvando insistentemente con una piccola mossa del capo. - Brava! Questo si chiama farsi una ragione…
- Ho pensato tutto questo, ed altro ancora… Mi sono affacciata alla finestra, ho considerato un istante la calma sovrumana di questa sublime natura, delle Alpi nevose imbiancate dalla luna, del lago terso ed immobile come una lastra, delle miriadi di stelle splendenti da miriadi di secoli nell’etere infinito. Ho compreso, nel tempo d’un baleno, la vanità di tutto ciò che è umano, dei dolori, delle gioie, delle passioni da cui son travagliati questi atomi agitantisi un attimo sopra un granello di sabbia; ho visto sparire me stessa, l’umanità, tutta la terra, nel turbine formidabile che soffia sulla polvere dei mondi… Ho bevuto avidamente l’aria fredda, ho richiuso la finestra, sono andata al tavolino e gli ho scritto una lettera.
– Che cosa gli avete detto? –
L’altra parve non aver udito. Restava ancora assorta, come prima, guardando dinanzi a sé; e nel rilassamento dei muscoli del viso, nella piega sottile degli angoli delle labbra, si leggeva una tristezza così profonda, una contemplazione così sconfortata di qualcosa di pauroso e d’ineluttabile, che la duchessa non ardì ripetere la sua domanda. Emilia si riscosse al fine e riprese:
– Ho scritto una lettera, non l’ho mandata. Non so neppure se potrò rileggerla per ricopiarla… Guardi, piuttosto… –
Preso sopra un tabouret un minuscolo taccuino di cuoio rosso e tolto il piccolo porta-matita d’oro che lo chiudeva, ella voltò alcune pagine, fermandosi ad una ricoperta più che di caratteri, di segni informi tracciati con rapida mano.
– Che notte è stata per me!… – esclamò, a bassa voce, guardando quel foglio e come rispondendo a un intimo pensiero. Poi, volgendosi alla duchessa: – Avrà la pazienza – chiese – d’aspettare che io decifri questa lettera?… Io gli ho scritto così: “Mio buon amico… Dopo tutto, e come sempre, avete ragione… Vi rammentate quante volte mi ripeteste queste parole, nel corso delle piccole discussioni che sorgevano un tempo fra noi?… Adesso sono cambiate le parti e tocca a me riconoscere che la ragione è con voi. Vedete bene che io sono giusta, e che le vostre adulazioni di un tempo non m’hanno guastata. Mentirei se vi dicessi che questa saggezza non mi costa nulla; ma mi dorrebbe egualmente che voi aveste a crearvi dei rimorsi per questo. La ragione ha spesso qualche ostacolo da vincere prima di farsi accettare; ma, in cambio, il suo riconoscimento procura sempre allo spirito un senso di forte serenità… Io non so precisamente che cosa sono stata per voi – potrei, è vero, rammentarvi tutto quel che me ne avete detto voi stesso; ma avrei l’aria di recriminarvi, e nulla è più lontano dal mio pensiero. Comunque, voi forse rammenterete, qualche volta, senza troppo pentirvene, le ore che passaste al mio fianco; da parte mia, io ne serberò sempre un dolce ricordo. È vero altresì: quella felicità avrebbe potuto durare più a lungo; ma ciò non era in potestà vostra né mia. Bisogna accettare la vita com’è, con tutte le sue leggi, e stimarsi fortunati se, fra i tanti giorni vuoti, fra i molti amari, essa ce ne ha concesso qualcuno di gioia. Grazie a voi, io ne ho visti sorgere molti, più di quanti potevo ragionevolmente aspettarne; contate sulla mia più sincera gratitudine. Fate assegnamento ancora sulla mia amicizia più fedele: giovatevi di me sempre che potrò esservi utile, e credetemi, con una cordiale stretta di mano…”.
– Benissimo! – interruppe vivamente la duchessa. – Mi piace la vostra lettera, sapete! È la lettera d’una donna che sa vivere, che conosce la vita!…
– A qual prezzo? – disse l’altra, con un ambiguo sorriso. – A prezzo di quanti dolori?… E si può dire di conoscerla mai abbastanza? Perché, guardi, tutto questo è ciò che suggerisce la logica, il buon senso; ma se io l’amo ancora, quest’uomo? Se il cuore mi sanguina, rileggendo queste fredde parole, queste frasi studiate, dopo le lettere pazze che gli scrivevo fino all’altr’ieri? Se non posso, non posso rassegnarmi all’idea di perderlo, dopo quel che mi costa, dopo quel che siamo stati l’uno per l’altra? Ma non è vero che io prevedessi di non poterlo più amare, non è vero che io fossi già stanca: se pensai questo, fui una sciocca, fui una stolta, perché non potevo giudicare della forza d’un amore che non era ancora stato ancor messo alla prova…
– Badate: qui sotto potrebbe nascondersi quell’illusione molto frequente che consiste nell’apprezzare una cosa pel solo fatto d’averla perduta.
– Illusione, realtà: dove cominciano? dove finiscono? – disse la giovane, voltando un foglio del suo taccuino. – Vi sono certe realtà di cui neppur ci si accorge, e certe illusioni che ci mantengono in vita… Io sento di non poter vivere senza quest’essere che è stato tanta parte, la miglior parte di me. Io sono impegnata da un giuramento, e lui pure… È una cosa sacra, il giuramento; non si può calpestarlo così. Ho il dovere di rammentarglielo, egli mi ascolterà; perché anch’egli deve soffrire. Io non sono stata eloquente abbastanza; se egli ha rifiutato di cedere, il torto è mio, che non ho saputo assicurarlo della forza di quest’amore. Forse in questo momento, mentre io mi struggo per lui, anche egli anela di rivedermi, anche egli vorrebbe chiamarmi. Un senso di falso amor proprio ci ha trattenuti: una sola parola basterà a dissipare quest’incubo… “No… – continuò Emilia, riprendendo a leggere nel suo taccuino – non è vero, non è possibile che tu m’abbia detto quelle parole. Certe volte, i sogni hanno l’intensità della vita vissuta: io ho sognato. Tu sei sempre l’amor mio forte e soave; se anche tu volessi, non potresti, intendi? lasciarmi. Tu hai dimenticato un momento quel che sono stata per te; ricordati, vedrai se ho ragione! Tu mi hai detto, colle tue labbra, che io sola t’ho compreso, io sola t’ho compianto, io sola ho cancellato i tuoi lunghi dolori, io sola ho compensato le tue infinite amarezze, io sola ti ho fatto pianger di gioia. Tu non me l’hai detto soltanto: io ho visto le tue lacrime, io ho pianto con te. Tu hai voluto riscattare col tuo sangue il mio pianto; ora, comprendi, quando questo è avvenuto fra due creature, esse non possono dividersi più. Vedi bene che noi siamo legati per la vita e per la morte, come tu mi giurasti, come io ti giurai. Ed ascolta: vienimi accanto, metti la tua mano nella mia, reclina il tuo capo sul mio petto: ti ricordi quante volte, restando così, tu mi chiedevi di dirti che cosa tu eri per me, com’era fatto il bene che ti volevo? ti ricordi come t’aprivo il mio cuore, come pensavo a voce alta; e come t’estasiavi a quelle prove d’amore che tu stesso mi suggerivi, senza avvedertene? Ebbene: nessuna di quelle prove era seria, nessuna aveva un valore: la prova vera, la prova grande, la prova unica io posso dartela ora, amandoti ancora, amandoti più, dopo quel che m’hai fatto: ora soltanto tu puoi credere a questa passione e andarne superbo. Quante volte mi hai fatto giurare che io non avrei mai avuto secreti per te! che t’avrei mostrato sempre tutti i moti più intimi del mio cuore, tutti i miei pensieri più reconditi! Vedi bene che tu devi sapere quel che io provo ora per te: lascia che te lo dica; farai, dopo, quel che vorrai; mi lascerai ancora, se ti piacerà… No; tu non farai questo!… Ascolta ancora. Se tu hai riacquistata la tua fede unicamente per me, io, sola fra quanti ti circondano, ho creduto in te. Non lo sai? Dicono che i tuoi sguardi sono falsi, che le tue labbra mentiscono, che l’anima tua è corrotta… Io sola ho creduto ad ogni tua parola; non è vero che io sola ho letto in fondo al tuo limpido sguardo? Che cosa sanno gli altri di quel che so io? Ma non fare che anch’io disperi di te; non disperare tu stesso: sarebbe troppo triste, troppo malvagio. Provami ancora una volta che io ho avuto ragione, abbi fede in te stesso!… No; non mi dar retta! Ho avuto torto di scriverti questo. Ma è che io non so più quel che dico… Se potessi vederti un istante!… Non ti direi nulla: credo che morirei ai tuoi piedi… Una volta, io ti dissi: “Come sai bene pregare!…”. Ti ricordi quando te lo dissi?… Ebbene, oggi son’io che ti prego, ti supplico, ti scongiuro, in nome di Dio, dell’amor nostro, di tutto quel che hai di più caro al mondo, pei tuoi stessi dolori che io ho divisi, per la memoria dei tuoi poveri morti che io ho amati, per la morte che può cogliere d’istante in istante noi stessi, ti scongiuro di non abbandonarmi, di ascoltarmi… di lasciare, almeno che io pianga un’ultima volta al tuo fianco…” –.
La voce della giovane tremava un poco; il suo sguardo velato si distoglieva dalla carta, intanto che la duchessa, visibilmente commossa anche lei, esclamava:
– Come l’amate! –
Ma, a quelle parole, come quando una brezza sottile increspa la superficie dell’acqua, la fisonomia di Emilia si venne corrugando fino ad atteggiarsi ad un sottile sarcasmo.
– Come l’amo!… – ribatté, ridendo – vuol dire come sono sciocca!… Deve bene trionfare costui, non è vero, vedendo la mia disperazione; deve ben sorridere di vanità soddisfatta!… Il suo amor proprio sarà, senza dubbio, gradevolmente solleticato dallo spettacolo del mio cordoglio…
– Allora, il vostro amor proprio s’impenna…
– Allora, la mia tenerezza, la mia sommessione, la mia fiducia, tutti i miei buoni movimenti sono dispersi dallo sdegno, dall’odio, dal bisogno feroce di dirgli in faccia che non so che farmi di lui, che egli s’inganna stranamente se ha creduto al mio dolore!
– E dopo la lettera d’implorazione, ne avrete scritta un’altra di disprezzo…
– Ciò che ho scritto è appena la millesima parte di ciò che ho pensato. Ella si stupisce della contraddizione che scoppia tra gl’impulsi ai quali obbedisco? tra la ragionevole rassegnazione e la passione disperata, tra l’umile preghiera e la rivolta sdegnosa?…
– Non mi stupisco affatto: nulla di più umano che la contraddizione e l’assurdo.
– Io sento dentro di me dieci, cento donne diverse, una moltitudine di esseri ciascuno dei quali vorrebbe operare a sua guisa. E il più strano è che tutte costoro non parlano già ad una per volta, ma insieme, interrompendosi, contraddicendosi, confondendosi tumultuariamente. Lo scritto ha il torto di non dimostrare questo dissidio…
– Consolatevi pensando che anche la parola sarebbe impotente.
– È vero! La nostra mente è un abisso!… Io debbo dunque implorare costui, per dargli la soddisfazione di respingermi ancora? Ma è una cosa ridicola! Qual donna al mondo ha mai pregato un uomo così? Io potrei implorarlo se fosse un altro, se non fosse una creatura malvagia e bugiarda. Perché hanno ragione gli altri; e l’imbecille son io! Come ho fatto a pigliarlo sul serio, a soffrire tanto per lui? Ed egli avrà riso di me!… Ma se non l’amavo più! se ero così stufa da non saper che inventare per evitarlo! se non l’ho amato mai!
– Oh, questo poi…
– Ma sì, ma sì… anche al tempo del nostro idillio, io ridevo talvolta tra me delle mie declamazioni! Allora, soffocavo le mie risa; ora sono esse quelle che soffocano me! Ora ho bisogno di prendere la mia rivincita. Ma quel che ho tentato di scrivergli non può dare la più lontana imagine di quel che mi ribolle dentro…
– “Caro signore, le sono oltremodo obbligata della iniziativa presa da lei, tanto più che m’ha risparmiato il fastidio di prenderla da me. La buffa commedia che abbiamo rappresentato insieme minacciava di finire tra le fischiate della platea: era proprio tempo di smettere. Non è da dire per questo che essa non m’abbia dato un bel da fare! Mi sono, come si dice, stillato proprio il cervello per mettermi nei panni del mio personaggio, ho soffocato una quantità prodigiosa di sbadigli per mantenere un contegno decente; e il più comico è questo: che m’accorgevo benissimo di sprecare le mie fatiche, perché ella sbadigliava senza tante cerimonie, spalancando talmente la bocca, soffiando così forte, che era, anzi non era un piacere a vederla. Ella pel primo non credeva a ciò che le dicevo: è stata una delle rare prove di spirito che m’abbia date; gli elogi della gente l’hanno guastato, caro signore, ella s’è formato, intorno ai suoi mezzi, un concetto, mi consenta di dire, molto esagerato. Oramai ci conosciamo intus et in cute, si scrive così? e non abbiamo più nessuna ragione d’ingannarci scambievolmente. Il suo spirito è, creda pure, molto inferiore all’opinione che ne ha ella stessa; riconosco però che ne possiede abbastanza, e spero che ne mostrerà ancora un poco nella circostanza presente, non credendo neppure alla scena che le recitai l’altro giorno. Mi premeva di fare certe osservazioni, volevo verificare certi miei antichi convincimenti: addebiti a tutto questo la mia soverchia insistenza. Non importa: debbo averle fatto l’effetto di una famosa seccatrice! Questo pensiero la conforti: che non sarò mai più tentata di occuparmi di lei – glie ne do parola d’onore! Del resto, se l’ho seccata, debbo anche averla fatta ridere un numero infinito di volte; sono però in dovere di aggiungere che il ricordo di certe sue sciocchezze allieterà i miei giorni più tardi… Probabilmente, questa mia lettera le parrà poco sentimentale: ma le sentimentalità, signor mio, sono una cosa; e la verità è un’altra. La verità è che ella m’ha dato ciò che poteva darmi, e che io l’ho pagato abbastanza. Adesso, ciascuno proseguirà per la sua strada. Si diverta sempre – e che le nostre menzogne ci siano rimesse…”.
– Eh!… non c’è mica male!… – esclamò la duchessa con un fine sorriso.
La giovane rimase un poco a capo chino, senza dir nulla, poi, passatasi lievemente una mano sulla fronte, disse, molto piano:
– Ma sa lei che cosa ho provato nello scrivere questa lettera?… che cosa provo adesso dopo averla riletta?… Un secreto scontento, un pentimento addolorato, quasi un rimorso. Mi par d’avere, con sacrilega mano, profanato tutto quel che v’era di più puro in fondo al mio cuore. Io potrò accusare quest’uomo, io potrò disistimare la creatura che si è rivelata improvvisamente in lui; non potrò dimenticare le divine emozioni che m’ha procurato. Comunque egli sia fatto, è stato per me l’oggetto di un culto; qualcosa delle virtù che io gli ho attribuite è rimasta in lui, come qualcosa della santità che i feticisti vedono nell’idolo di cartone resta in esso e lo sottrae alla derisione degli stessi miscredenti… Poi, io penso che quest’uomo, come tutti gli altri, non è responsabile di quel che fa; penso che forse ne sarà punito, un giorno, più crudelmente che io oggi non possa imaginare… E tutto quel che v’è di buono in me protesta contro i propositi di vendetta, m’ispira invece una grande compassione per quest’anima ammalata… Senza tornare ad illudermi sul prezzo che ha potuto dare all’amor mio, penso che non sono stata per lui un’indifferente, che egli ha avuto fede, almeno per qualche tempo, nelle mie parole. Allora giudico che sarebbe degno di un’anima non volgare il dimostrare come, malgrado i torti ricevuti, di questa fede si voglia sempre essere meritevoli...
– In altre parole, voi volete fargli vedere che siete migliore di lui!
– Sarà forse questo il secreto movente: che importa? Una buona azione non diventa già cattiva pel fatto che ci torna comodo compierla…
– Certamente! Così, voi avete abbozzato un’altra lettera ancora?
– Sì, ed è questa… – Sfogliato il suo taccuino, la giovane riprese a leggere: – “Voi non volete più rivedermi: parto oggi stesso. Ho l’anima straziata; se voi poteste soltanto imaginare quello che soffro, vi farei molta pietà. Tuttavia, qualunque sia il male che voi m’abbiate fatto, vo’ dirvi, prima di lasciarvi, che non vi porto odio o rancore. La mano che oggi colpisce è la stessa che un giorno si distese a soccorrermi; non potrò dimenticarlo mai. Non vi dico questo per intenerirvi: nessuna speranza mi sorregge, capisco bene che tutto è finito, per sempre. Come sarà triste la vita che comincerà domani per me! Come potrò sopportare il ricordo dei giorni luminosi nell’oscurità che m’aspetta?… Sarà di me quel che vorrà Dio – e perdonatemi ancora questo momento di commozione. Sul punto di lasciarvi, consentitemi di dirvi un’ultima parola. Se l’avvenire è incerto per me, potrà anche darsi che ore dolorose suoneranno per voi: un giorno, potrete aver bisogno di qualcuno che vi stia al fianco, che stringa la vostra mano, che v’infonda coraggio. Io desidero ardentemente che questo giorno non sorga; ma se dovesse arrivare, ricordatevi di me. Dovunque io sia, venite: nulla potrà impedirmi di accogliervi come s’accoglie un fratello…”.
– È bello ed è nobile ciò che voi avete scritto! – disse la duchessa. – Però, se nel vostro cuore si combatte una così fiera battaglia, quale di queste lettere vi risolverete a spedire?
– Lo so io, forse? – ripeté la giovane. – Se fossi capace di decidermi, non ne avrei scritte tante!… A lei stessa, mia buona amica, io ardisco chieder consiglio… –
La vecchia signora fece con la mano un piccolo segno di rifiuto.
– Non è un argomento intorno al quale se ne possano dare.
– Perché? Io sono ridotta, non vede? in tale smarrimento d’animo, che non so più discernere da me la via giusta: una parola suggeritami da una persona superiore come lei, mi toglierebbe a questa dolorosa incertezza, mi farebbe un gran bene –.
La duchessa restò un poco in silenzio; poi, guardando negli occhi la sua compagna, chiese:
– Allora, voi farete quel che vi dirò?
– Può esserne certa.
– Ebbene… se non vi dispiace, cominciamo col riassumere in poche parole la vostra situazione. Voi siete stata abbandonata da un uomo. L’avete amato, ma cominciavate ad essere stanca di lui; dopo la rottura, la vostra passione si è ridestata. Voi avete scritto quattro lettere che definiscono i principali sentimenti cozzanti adesso nel vostro cuore: in una vi rassegnate filosoficamente, in un’altra implorate con grande calore, la terza è l’espressione del sarcasmo sprezzante, l’ultima d’una tenerezza pietosa e disinteressata. Va bene?
– È così.
– Però, nello scrivere tutte queste lettere, una secreta idea vi ha guidata: quella di vivere ancora nel cuore o nella memoria di cotest’uomo, di produrre un’impressione nell’animo di lui, di obbligarlo a ricordarsi di voi, per ammirarvi, per rimpiangervi. Ora, voi volete sapere da me in qual modo potrete raggiunger meglio l’effetto.
– Può darsi che sia per questo; ma siccome, qualunque di queste lettere io manderò, è quasi certo che sarò lasciata senza risposta, imagini che si tratti di prender commiato soltanto.
– O per prender commiato, o per quell’altra ragione, il partito è uno solo.
– Quale lettera debbo dunque mandare? –
– Nessuna –.