Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
I viceré

PARTE TERZA

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«»

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Uno dei primissimi provvedimenti del giovane sindaco, appena insediato al Municipio, era stato quello relativo alla costruzione di un'«aula» per le riunioni consiliari. All'antica saletta fu sostituito un gran salone provvisto di due file di banchi che, per gradi, si elevavano dal suolo ad anfiteatro, con tre ordini di posti per ciascuna fila. In fondo al salone una specie di alto e vasto pulpito comprendeva: a destra, in basso, i posti della Giunta, in alto quello degli scrutinatori e la poltrona destinata al prefetto; a sinistra, l'ufficio di segreteria; nel mezzo di tutta la baracca, sopra un'alta predella, il seggiolone sindacale dorato e scolpito, con un cuscino che l'usciere toglieva e chiudeva a chiave quando il principino scioglieva l'adunanza e se ne andava. Nel centro del salone, un gran banco per le commissioni; più oltre, tavole per «la stampa»; dirimpetto al pulpito sindacale la tribuna pubblica. «Un Parlamento in miniaturadicevano quelli che erano stati a Roma; e le adunanze del Consiglio, sotto la presidenza di Consalvo, prendevano ora un vero carattere parlamentare. L'ordine del giorno, che prima attaccavano manoscritto dietro un uscio, si distribuiva, stampato, a tutti i consiglieri; un apposito regolamento, elaborato dal sindaco, prescriveva le norme da seguire nelle discussioni pubbliche. Gli oratori non potevano parlare più di tre volte sopra uno stesso soggetto; al segretario era rigorosamente vietato d'interloquire, neppure per rispondere alle domande dei consiglieri, e se qualcuno di costoro aveva da lagnarsi della sporcizia stradale o dei cani senza guinzaglio, il principino gli gridava dal suo seggiolone: «Presenti domanda d'analoga interpellanza

Prima cura della nuova amministrazione furono i lavori pubblici. Il sindaco, in un discorso dove rammentò la via Appia, «che da Roma conduceva all'Adriatico», dimostrò la necessità di sistemare le strade; e la città fu messa sottosopra, somme considerevoli furono spese per indennizzare i proprietari danneggiati; ma la vistosità dei risultati fruttò considerevoli elogi al giovane amministratore.

Con le strade, l'amministrazione di Mirabella, come tutti la chiamavano, provvide alla costruzione d'un grande mercato, d'un grande teatro, d'un grande macello, d'una grande caserma, d'un gran cimitero.

Nuovi edifizi sorgevano da per tutto, il lavoro non cessava, la città trasformavasi, le lodi del principino salivano al cielo. Qualcuno, timidamente, faceva osservare che tutte quelle cose stavano benissimo; ma, e i quattrini? Ce n'erano abbastanza?... Consalvo rispondeva che il bilancio d'una città in via di continuo progresso «presentava tale elasticità» da permettere non che quelle, ma spese anche maggiori. La popolarità essendo tutta sua, egli faceva degli assessori ciò che voleva; se manifestavasi qualche velleità di contraddizione, la sedava suscitando gli uni contro gli altri coloro che s'accordavano nell'opposizione; oppure, quando la faccenda era più seria, minacciando di andarsene. Allora tutti si chetavano. E di quel che riusciva bene egli aveva tutto il merito; di quel che non otteneva l'approvazione del popolo rigettava la colpa sulle spalle della Giunta. Le tornate consiliari erano diventate uno spettacolo a cui, grazie alla «tribuna» pubblica, la gente accorreva come alla commedia o al giuoco dei bussolotti; i soci del club, gli ex compagni di bagordi del principino salivano di tanto in tanto lassù, con l'intenzione di canzonarlo; ma la serietà, il sussiego, l'autorità di Consalvo s'imponevano talmente, che essi arrischiavano appena tra loro qualche epigramma... Chi rammentava più la prima fase della sua vita? La sua riuscita lo insuperbiva, la sua forza quasi lo stupiva; ma oramai non era sicuro di poter arrivare dove avrebbe voluto? «Sarà deputato, lo manderemo a Roma quando avrà gli anni; in lui c'è la stoffa d'un ministrocominciavano a dire in città; ma se udiva queste cose, egli scrollava le spalle, con un sorriso mezzo di compiacimento, mezzo di modestia, quasi a significare: «Grazie della buona opinione che avete di me; ma ci vuol altro!»

Così egli si teneva bene con tutti, raccoglieva lodi da ogni parte. Quelli che s'accorgevano del suo giuoco e lo denunziavano, o non erano creduti, o erano sospettati d'invidia o di malignità, o finalmente, se trovavano credito, sentivano rispondersi: «Fanno tutti così, in questi tempi d'armeggio! Il principino ha questo di vantaggio, che è ricco e non ha da ingrassarsi alle spalle nostre!» Ma gli oppositori più vivaci non mancavano. Come trasformavasi materialmente, la città prendeva anche moralmente un nuovo indirizzo. La popolarità del vecchio duca andava scemando di giorno in giorno; il Circolo Nazionale, che aveva spadroneggiato, perdeva sempre più credito. Le nuove società popolari non ne avevano ancora, ma le riforme promesse dalla sinistra l'avrebbero loro conferito: frattanto, alla discussione dei negozi pubblici partecipavano classi e persone dapprima incapaci di comprenderne nulla. Anche la stampa era più ardita, se non più libera, e trattava con pochi riguardi, gli antichi spadroneggiatori. Il principino, fiutando il vento, sfoggiava coi democratici le sue linee di democrazia. A udirlo, la libertà, l'eguaglianza scritte nelle leggi erano ancora un mito: il popolo era stato cullato nell'opinione che le antiche barriere fossero state infrante; ma i privilegi esistevano sempre ed erano soltanto d'altra natura. Avevano largito il diritto del voto, e questo era parso una rivoluzione; ma quanti godevano di cotesto diritto? Bisognava dunque farne un'altra, «legale e morale», per estenderlo a tutti. La parola «rivoluzione» gli scottava le labbra e gli faceva tremare il cuore; e il desiderio intimo, sincero, ardente dell'animo suo era che vi fosse un numero di carabinieri doppio di quello dei cittadini; ma poiché il vento soffiava da un'altra parte, egli cercava la compagnia dei radicali più noti per dir loro: «La repubblica è il regime ideale, il sogno sublime che un giorno sarà realtà, poiché essa suppone uomini perfetti, virtù adamantine, e il costante progresso dell'umanità ci fa antivedere il giorno del suo compimento.» E dichiarava: «Io sono monarchico per la necessità di questo periodo transitorio. Milioni e milioni d'uomini liberi possono volontariamente riconoscersi e vantarsi sudditi di un uomo come loro? Io non ho nessun padrone!» E in questo era sincero, perché avrebbe voluto esser egli stesso padrone degli altri.

Il duca e i suoi malvacei amici, ostinandosi a giurar sulla destra, aspettando il ritorno di Sella e Minghetti come quello di Nostro Signore, avevano creato un'Associazione Costituzionale, di cui tuttavia l'onorevole deputato non aveva voluto esser capo. Anch'egli adesso, in cuor suo, riconosceva che la strada non aveva uscita; ma oramai egli stava per toccare la settantina, era stanco, non gli restava più nulla da fare. In meno di venti anni aveva messo insieme una sostanza di parecchi milioni, le cure della quale prendevano tutto il resto della sua attività. Deciso veramente a ritirarsi dalla vita pubblica, aveva un'ultima ambizione: quella d'essere nominato senatore; se, quindi, per finir bene dinanzi all'opinione pubblica, non gli conveniva abbandonar bruscamente il partito al quale, dopo il Settantasei, s'era legato ancora più stretto, non gli conveniva neppure muover guerra troppo aperta a quella sinistra da cui aspettava la seggiola a Palazzo Madama. Quindi aveva dato a Benedetto Giulente la presidenza della Costituzionale, contentandosi del posto di semplice gregario. Frattanto, contro questa società era sorta una Progressista, alla quale s'era fatto ascrivere Consalvo. «Zio e nipote l'un contro l'altro armati? Il ragazzo che si ribella al vecchiodicevano in piazza; ma le eterne male lingue insinuavano che la cosa era fatta d'amore e d'accordo, che il duca era ben contento d'avere il nipote nel campo contrario, come il principino si giovava del credito dello zio tra i conservatori. Del resto, quantunque consocio dei progressisti, egli dichiarava a questi ultimi che la sinistra non aveva ancora «un finanziere della forza del Sella», né «oratori eleganti come Minghetti». Ma a quelli che non nascondevano i disinganni prodotti dal regime costituzionale non aveva nessuna difficoltà a dichiarare: «L'errore è stato di credere che potesse dare buoni frutti. Il gregge ha sempre avuto bisogno d'un pastore con relativi bastoni e cani di guardia...» Dava ragione perfino a quei pochi che rimpiangevano l'autonomia della Sicilia: «Diciamolo francamente tra noi: forse oggi staremmo meno peggio!» Non avrebbe fatto nessuna difficoltà a concedere alla zia Ferdinanda che il governo borbonico era il solo amabile; ma poiché la vecchia non poteva giovargli, lasciava ch'ella cantasse. Anzi, si giovava di quell'opposizione, non che della rottura col padre. Siccome sapeva che molti, udendo celebrare la sua fede democratica, ridevano d'incredulità, esclamando: «Lui, il principino di Mirabella, il futuro principe di Francalanza, il discendente dei Viceré? Andiamo!...» egli affermava: «Per questa fede, per questi princìpi io sono venuto in urto con mio padre, ho rinunziato all'eredità di mia zia, sosterrei ogni maggiore avversità!...» Nella Giunta, tra i conservatori aristocratici e i radicali progressisti di tanto in tanto s'accendeva una lite; allora egli esclamava: «Qui non bisogna parlar di politica!...» ma una volta che la contesa divenne più vivace, lo tirarono in ballo. Rizzoni, radicalissimo, esclamò:

«Ma domandatelo al principino, se l'avvenire non è nostro, se anch'egli non è democratico!...»

«Mio nipoterispose Benedetto Giulente. «L'aristocrazia incarnata?...»

Costretto a rispondere, egli sorrise, si lisciò i baffi, e disse:

«L'ideale della democrazia è aristocratico

«Come? Sentiamo!... Questa è nuova!... Che diavolo...» esclamarono tutti.

Egli lasciò che dicessero: poi ripeté:

«L'ideale della democrazia è aristocratico... Che cosa vuole infatti la democrazia? Che tutti gli uomini sieno eguali! Ma eguali in che cosa? Forse nella povertà e nella soggezione? Eguali nelle dovizie, nella forza, nella potenza...» E poiché, dopo un momento di stupore, le esclamazioni ricominciavano, egli troncò di botto la discussione: «Adesso passiamo all'altro articolo: voto al governo per la costituzione d'un bacino di carenaggio...»

 

Egli andava adesso qualche volta da suo padre. Non sentiva più avversione contro di lui: lo zelo, la febbre con la quale s'occupava della cosa pubblica, la tensione di tutte le sue energie al conseguimento del nuovo scopo non lasciavano posto a nessun altro sentimento né d'odio né d'amore. Quanto al principe, le visite del figliuolo gli mettevano i brividi addosso, ed appena lo udiva annunziare dal nuovo maestro di casa — poiché Baldassarre, cocciuto come un vero Uzeda, era proprio andato viaficcava la sinistra in tasca e non la traeva se non per spianarla, aperta col segno delle corna, dietro al figliuolo, quando costui si decideva a sgomberare. I loro discorsi s'aggiravano sopra cose indifferenti, come fra estranei; il principe fingeva di non sapere che Consalvo fosse il primo magistrato civico; ma insomma adesso stavano insieme da cristiani.

Teresa, ora duchessa Radalì, vedeva in tal modo compensato il proprio sacrifizio. Eccettuati i primissimi tempi, quando la memoria di Giovannino non era interamente morta nel suo cuore, e più grande le era parsa la superiorità di lui sull'altro fratello, ella non aveva del resto sofferto quanto aveva temuto. Il duca Michele non solo la trattava bene e le lasciava ogni libertà; ma le dimostrava, a modo suo, un po' alla grossa, un affetto vivo e sincero. La duchessa madre, anche lei, dalla soddisfazione di vedere riusciti i propri disegni, le faceva gran festa e la metteva perfino a parte del governo della casa. Il barone se n'era andato ad Augusta, badava agli affari di campagna e scriveva due o tre volte il mese al fratello od alla madre, chiudendo le sue lettere con un «saluto la cognata». La tranquillità che regnava nella sua nuova casa, la pace che ristabilivasi nell'antica, l'affezione del marito, i trionfi di Consalvo, le lodi che raccoglieva ella stessa — poiché, tra le giovani signore, aveva occupato subito il primo posto — facevano fiorire sulle sue labbra sorrisi a grado a grado più schietti. Veramente, ella non sentiva più l'anima disposta a comporre musiche o poesie, ma sedeva ancora spesso al pianoforte per esercitarsi, e nel farsi bella spendeva forse maggiori cure di prima.

Adesso era libera di leggere i libri che più le piacevano; e quando non aveva nulla da fare, divorava romanzi, drammi e poesie. L'eccitazione di quelle letture non le impediva però di attendere alle pratiche religiose con zelo e fervore: in casa Radalì venivano lo stesso Monsignor Vescovo, lo stesso Vicario, gli stessi prelati che frequentavano la casa del principe: essi additavano a tutti la duchessa nuora come modello di domestiche e cristiane virtù.

Presto la gravidanza le fece dimenticare del tutto i sogni del passato, e l'affezionò meglio alla realtà del presente. Soffrì pochissimo durante la gestazione; il tempo volò rapido in mezzo a tante cure ed a tanti pensieri. Il parto fu felicissimo: tutti aspettavano un maschio e un maschio nacque, un bambino grosso e florido che pareva d'un anno. «Poteva essere altrimenti?» dicevano tutti. «Per una figlia e una sposa buona come lei, protetta da una Santa in cielo?...» I preparativi del battesimo furono grandiosi: il duca volle il fratello come padrino. La duchessa madre approvò; Teresa, riposando sul letto nuziale, dove restava più per una beata indolenza che per necessità, disse che naturalmente la scelta non poteva essere migliore. Giovannino tardò a rispondere, ma, sollecitato dal duca anche a nome della madre e della moglie, arrivò la vigilia della cerimonia.

Pareva un altr'uomo: s'era fatto più forte, il sole lo aveva abbronzato, la barba cresciuta gli dava un'aria più maschia, simpatica quanto l'antica, ma in modo diverso. Strinse la mano alla cognata, chiedendole premurosamente notizie della sua salute, e volle veder subito il nipotino che giudicò un amore e baciò e ribaciò fino alla sazietà. Ancora più calma e serena di lui, ella lo accolse come un amico che non si vede da molto tempo. Dopo la cerimonia del battesimo, alla quale furono invitati tutti i parenti stretti e larghi, tutte le conoscenze, mezza città, Giovannino annunziò che ripartiva. Fecero a gara per trattenerlo, ma egli dichiarò che c'era molto da fare in campagna, e andò via promettendo ad ogni modo di tornar presto a rivedere il figlioccio.

 

Molti degli invitati al battesimo, nuovi tra gli Uzeda, avevano chiesto chi fosse un vecchio magro e sfiancato, il quale portava un abito nuovo fiammante e certe scarpe che non ne potevano più, un cappello unto, e una mazza col pomo d'argento.

Era il cavaliere don Eugenio. La stampa del Nuovo Araldo, ossivero Supplimento, gli aveva procurato un altro momento di benessere. Aveva scialato, possedeva qualche soldo: ma lo scandalo era enorme: egli aveva attribuito titoli di nobiltà e stemmi e corone a quanti lo avevano pagato: speziali, calzolai, barbieri sfoggiavano dentro le botteghe quadri dalle cornici dorate dove, sotto corone, elmi e variopinti svolazzi, si vedevano scudi con leoni, aquile, serpenti, gatti, lepri, conigli, ogni sorta di bestie passanti e volanti; e poi castelli, torri, colonne, montagne; e poi astri di tutte le grandezze, lune d'argento, piene e falcate; soli d'oro, stelle, comete; e tutti i colori dell'iride, tutti i metalli, tutti i mantelli. Né scrupoli, né difficoltà lo avevano arrestato: a chi si chiamava Panettiere aveva dato per arme un forno fiammante in campo d'oro, a chi portava il nome di Rapicavoli un bel mazzo di verdura in campo d'argento. Così l'impresa aveva fruttato di gran bei quattrini; ma, come l'altra volta, buona parte s'era perduta per via. Egli aveva però riscattato l'edizione del primo Araldo che il tipografo teneva sotto sequestro, e con mille copie dell'opera se n'era tornato al suo paese per venderle e mangiarci su.

Faceva il conto senza il principe. Sistemato l'affare della lite, questi s'era pentito dell'accordo, e si lagnava d'essere stato defraudato, d'esser rimasto con un pugno di mosche, mentre l'eredità di don Blasco doveva toccare tutta a lui. Il malumore, l'inappetenza, la debolezza di cui aveva sofferto tornavano a tormentarlo: sordamente irritato, incapace di confessarsi ammalato pel superstizioso timore di accrescere con la confessione la malattia, se la prendeva con la figlia che gli aveva imposto la transazione, dichiarava d'essere stato spogliato come in un bosco. Appena visto tornare lo zio, e udito che aveva qualche soldo, andò a chiedergli la restituzione del prestito. E siccome don Eugenio tirò in ballo la rinunzia ai propri diritti, egli gridò:

«Che diritti e che storti? Sono stato spogliato! Si sono preso tutto! Io v'ho dato i quattrini; restituiteli, adesso che li avete.»

Vista la mala parata, don Eugenio gli confidò:

«Non li ho! Ti giuro che non li ho! Ho quattro soldi per tirare innanzi; se ti do duemila e cinquecento lire, come mangio

«Datemi allora le copierispose pronto Giacomo.

«Ma sono il mio solo provento! Se tu me le togli, dove vado a sbattere? Che t'importa di un po' di carta sporca?... Tu che sei tanto ricco? Per me è il pane!... Le venderò a poco a poco, avrò tanto da campucchiare...»

Inflessibile, il principe volle presso di sé tutta l'edizione dell'Araldo sicolo e del Supplimento, come garanzia del proprio credito.

Quantunque mezza Sicilia fosse inondata di quella pubblicazione, pure riusciva spesso a don Eugenio di collocarne qualche copia; e allora andava a prenderla dal principe promettendo di portare i quattrini per poi dividerli con lui; ma i quattrini non venivano mai, talché un bel giorno, stanco d'esser beffato, il nipote gli dichiarò:

«Mi pare che lo scherzo sia durato a lungo; d'ora in poi, se vorrete altri esemplari, li pagherete anticipatamente

Allora, finiti i soldi che aveva portato da Palermo, gl'imbarazzi ricominciarono per l'ex Gentiluomo di Camera. Come un fattorino di libraio, egli saliva e scendeva scale coi piedi gonfi dalla gotta, trascinandosi penosamente, per offrire il suo Araldo, per mostrarne un fascicolo di saggio, e quando arrivava a scovare un compratore correva a supplicare il principe perché gli desse la copia, giurando e spergiurando che sarebbe tornato subito coi quattrini; ma il principe, duro: «Portateli prima!» Non sapendo dove dar il capo, il vecchio fermava i parenti e le semplici conoscenze per farsi prestare le trenta lire; raggranellatele, le portava al nipote, il quale solo dopo averle intascate rilasciava l'esemplare. Ma, riscosso il prezzo dal compratore, don Eugenio dimenticava di soddisfare i debiti contratti, talché l'operazione si rinnovava ogni volta con maggior difficoltà. Del resto il cavaliere trovava da un certo tempo la piazza molto più dura di prima: da gente a cui egli non aveva mai proposto l'Araldo sentivasi rispondere: «Un'altra volta? L'ho già!» Dicevano così per mandarlo via?... Un giorno, per sincerarsene, volle domandare a uno di costoro come l'avesse: «Oh, bella! L'ho comprato! È venuta una persona di casa vostra: non siete zio del principe?...»

Il vecchio si batté la fronte: quel birbone di Giacomo!.. Non contento di avergli preso novemila lire di roba in cambio delle duemila e cinquecento anticipate, non contento d'avergli reso impossibile la vendita pretendendo l'anticipazione del prezzo, adesso vendeva le copie per proprio conto! «Ah, ladro! Ah, ladro!...» Ma, composta la fisionomia all'abituale bonarietà, corse al palazzo.

«Se anche tu hai venduto l'opera, facciamo i contidisse al principe.

«Che contirispose costui, quasi cascando dalle nuvole.

«Hai venduto il libro! A quest'ora il mio debito sarà estinto

«Ci vuol altro!... I conti li faremo quando avrò tempo...»

Don Eugenio tornò, assiduamente; ma il nipote un po' gli diceva che aveva da fare, un po' che gli doleva il capo, un po' che stava per andar fuori. Lo zio non perdeva la pazienza; tornava ogni giorno, a rammentargli la promessa; anzi una brutta mattina gli disse, gettandosi sopra una seggiola:

«Senti, i conti li faremo quando sarai comodo; ma oggi non ho niente in tasca e sono stanco. Prestami qualche cosa.»

«Come? Volete il restoesclamò il principe impallidendo. «Credete forse che siamo pari? Si sono vendute mezza dozzina di copie in tutto! Avete il viso di chiedere altri denari

«Non ho come fare,» gli confidò il cavaliere, con un viso da affamato, guardandolo bene negli occhi.

«E venite da me? Che pretendete? Che vi dia da mangiar io? Perché avete sciupato ogni cosa? Perché non avete pensato mai all'avvenire

«Io ho da mangiare, capisciripeté il cavaliere, con lo stesso tono di voce; e i suoi occhi parevano volersi mangiare il nipote.

«Andate da vostro fratello, da vostra sorella... che hanno l'obbligo d'aiutarvi... Perché venite da me?»

Ma, spaventato dall'espressione del vecchio, gli voltò le spalle. Quando lo udì andar via, chiamò il portinaio per ordinargli di non lasciarlo mai più salire.

E il provvedimento riscosse l'unanime approvazione della servitù: veramente quel cavaliere non faceva onore alla famiglia, non tanto per quel che si diceva sul conto di lui, quanto per la condizione in cui era caduto. Il nuovo maestro di casa confessò: «Io mi vergognavo ogni volta che lo dovevo annunziare al padrone...»

Tutti i tentativi del vecchio per salire al palazzo furono vani: egli ebbe un bel dichiarare: «Mio nipote mi aspetta, m'ha detto che sarebbe in casa,» oppure: «L'ho visto rientrare,» oppure: «Eccolo , dietro quella finestra...» il portinaio, i cocchieri, i famigli gli dicevano sul muso: «Vostra Eccellenza può andarsene, che perde il suo tempo,» e gli davano dell'Eccellenza come in tempo di carnevale ai facchini di piazza vestiti da barone. Egli tentò di salire per forza, ma allora lo afferrarono e lo spinsero fuori: «Eccellenza, con le brusche?... Questi non son modi da Eccellenza pari vostra!...» Un giorno, si mise a sedere in portineria, dichiarando che non si sarebbe mosso fino al passaggio del nipote. Sulle prime, il guardaportone ci scherzò su; poi tentò persuaderlo con le buone, prendendolo dal lato dell'amor proprio: «Qui non è il posto di Vostra Eccellenza!... Un cavaliere come Vostra Eccellenza sedere con un portinaio! Non si vergogna?...» Ma il vecchio non si moveva, non rispondeva, cupo, affamato come un lupo; e il portinaio cominciò a perdere la pazienza, smise a un tratto l'Eccellenza: «Se ne vuole andare, sì o no?...» e come don Eugenio restava inchiodato sulla seggiola, quell'altro montò finalmente in bestia, smise anche il lei e, afferratolo per le spalle, lo fece sorgere e lo spinse fuori ad urtoni, gridando:

«Fuori, vi dico, corpo del diavolo

 

Donna Ferdinanda lo cacciò via come un cane rognoso: il duca gli dette un piccolo soccorso, facendogli intendere di non dover fare assegnamento sopra altre elemosine. Procurargli un posto era il meglio che si potesse fare e ciò che egli desiderava; quindi Benedetto Giulente, il quale lo aveva anch'egli sovvenuto, ne parlò a Consalvo.

«Che posto volete darglirispose il principino. «È una bestia, non sa far nulla. Volete che lo zio del sindaco serva da usciere o da accalappiacani

Era chiaro che al Municipio non c'era da far niente per il legittimo orgoglio del principino. Giulente andò dal duca, suggerendogli di metterlo in qualche ufficio alla provincia o alla prefettura. E il duca, per evitare altre domande di sussidi, fece in modo da ottenergli un posto di copista all'Archivio provinciale, il meglio che si poté trovare. Ma quando ne diedero comunicazione all'interessato, il cavaliere diventò rosso come un rosolaccio.

«A me un posto di scrivano? Per chi m'avete preso

«Ma veda...» gli fece considerare rispettosamente Benedetto, «Vostra Eccellenza non ha titoli accademici... è avanzata in età... le amministrazioni pubbliche sono esigenti...»

«E mi proponi di fare il copistagridò il cavaliere. «A me, Eugenio Uzeda di Francalanza, Gentiluomo di Camera di Ferdinando ii, autore dell'Araldo sicolo?... Perché non lo fai tu, pezzo d'asino che sei?»

Il vecchio ricominciò a chiedere aiuto. Ma il duca, per punirlo del rifiuto del posto, gli chiuse la porta in faccia, e Lucrezia, dopo averlo giudicato degno dei più alti uffici per far onta al marito, non lo volle neppur lei per la casa quando lo vide questuare... Un giorno, il cavaliere, sempre più miserabile e stracciato, andò dalla nipote Teresa. Il portinaio, non riconoscendolo, non voleva lasciarlo passare; arrivato finalmente dinanzi alla duchessa nuora, che giunse le mani vedendolo in quello stato, cominciò a querelarsi:

«Vedi come m'ha ridotto tuo padre? Quel birbante che mi ha rubato il libro? Quel ladro che mi ha...»

«Zio, per carità!...» esclamò Teresa: e vuotò la sua borsa nelle mani del vecchio che tremava dalla cupidigia alla vista dei quattrini. Egli si ripresentò altre volte al palazzo ducale, ma la duchessa madre, per evitare i commenti tra la servitù, dichiarò a Teresa che, se voleva soccorrerlo, facesse pure; ma che in casa non lo lasciasse più venire.

Ed anche quella porta gli fu chiusa.

Egli aspettava che gli procurassero un posto di professore o di cassiere, tanto da vivere signorilmente senza far nulla; e siccome non lo contentavano, fermava per istrada le persone di sua conoscenza, narrava a modo suo i propri casi:

«M'hanno spogliato, m'hanno ridotto alla miseria! Mio fratello il Benedettino m'aveva lasciato cinquecent'onze, e stracciarono il testamento, ne fecero uno falso! Il principe mio nipote m'ha rubato la mia grand'opera dell'Araldo sicolo!... Mi chiudono la porta in faccia! A me, Eugenio di Francalanza! Gentiluomo di Camera! Presidente dell'Accademia dei Quattro Poeti!... Sanno forse chi sono io? Se veniste a casa mia, vi farei vedere quante medaglie e diplomi: uno scaffale intero!...»

La sua megalomania, con la miseria, gli stenti, le umiliazioni, cresceva di giorno in giorno; egli annunziava:

«Il governo m'ha invitato a Roma per una cattedra dantesca. Ma io non ci vado! Fossi pazzo! Me ne andrò piuttosto in Alemagna, dove conoscono tutte le mie celebri opere, e la scienza è rispettata!... Il prefetto mi ha detto che il Re mi vuole come professore di suo figlio. Io fare il maestro di scuola? Per chi m'hanno preso? Se lui si chiama Savoia, io mi chiamo Uzeda. Ehi, don Umberto, siete forse al buio?...» Poi, all'orecchio: «Potreste favorirmi cinque lire? Ho dimenticato il portafogli a casa...»

Gliene davano due, una o anche mezza; egli metteva in tasca ogni cosa. I parenti, avvertiti di quello scandalo, si stringevano nelle spalle, o dicevano: «Bisogna finirla», senza far poi nulla. Giulente e Teresa, di nascosto, lo soccorrevano come meglio potevano: ma egli aveva già preso l'abitudine di questuare, il mestiere era dolce e comodo, il passaggio del denaro dalla tasca altrui alla propria gli pareva naturalissimo; e poi un sordo istinto di rappresaglia contro i parenti lo spingeva a continuare per far loro onta.

E un giorno si diffuse per tutta la città una notizia:

«Non sapete nulla? il cavaliere don Eugenio chiede l'elemosina

Egli accattava, alla lettera. Anche se aveva in tasca qualche lira, s'avvicinava agli sconosciuti, tendeva la mano, diceva:

«Per gentilezza, mi favorite due soldi? Un soldo, per comprare un sigaro

Acchiappava la moneta come una preda, la cacciava in tasca; s'avvicinava a un altro:

«Un soldo, per favore

Teresa, accompagnata dal marito, andò a trovarlo nello stambugio dove s'era ridotto, gli si gettò ai piedi:

«Zio, noi le daremo tutto quel che vorrà, purché non faccia più questa cosa!... Una persona come lei, abbassarsi così?»

«Sì, sì...»

Egli prese i denari che gli porgevano; il domani ricominciò. Adesso era un'idea fissa; la malattia che tornava a tormentarlo finiva di scombuiare la sua debole testa d'Uzeda. Lacero come un vero accattone, con la barba bianco-sporca spelazzata sul viso smunto, i piedi in grosse scarpe di panno, andava attorno, appoggiandosi a un bastone, chiedendo:

«Un soldo, per favore!... per questa volta sola!...»

E per procacciarselo dava spettacolo della sua pazzia. Certuni gli domandavano chi era, se non era il cavaliere Uzeda? e allora lui:

«Eugenio Consalvo Filippo Blasco Ferrante Francesco Maria Uzeda di Francalanza, Mirabella, Oragua, Lumera, etc., etc., Gentiluomo di Camera (con esercizio) di Sua Maestà, quello era Re!» e si cavava il cappello, «Ferdinando ii; medagliato da Sua Altezza il Bey di Tunisi del Nisciam-Ifitkar, presidente dell'Accademia dei Quattro Poeti, membro corrispondente di più società scientifico-letterarie-vulcanologiche di Napoli, Londra, Parigi, Caropepe, Pietroburgo, Paoloburgo, Nuova York e Forlimpopoli, autore della celebre opera storico-araldico-blasonico-gentilesco-cronologica intitolata l'Araldo sicolo con supplimento... Un soldo, per comprarmi un sigaro...»



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