Federico De Roberto: Raccolta di opere
Federico De Roberto
Il colore del tempo

VINCITORI E VINTI

II.

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II.

 

Quando uno scrittore riesce ad ottenere l'ammirazione universale non a grado a grado, provando e riprovando, ma d'un colpo, con un'opera singolare, il suo felice successo non è senza scotto; perchè il pubblico, in ogni opera successiva, vorrebbe trovare le stesse qualità che lo sedussero nella fortunatissima; e non trovandole, se ne duole e quasi glie lo rimprovera. Gustavo Flaubert, dopo il trionfale incontro di Madame Bovary, ebbe un bel mettere fuori quel capolavoro di verità che è l'Educazione sentimentale, quei capolavori di fantasia e di erudizione che sono Salammbò e la Tentazione di Sant'Antonio: i lettori lodarono moderatamente, scrollando il capo ed esclamando: «Sì, va bene; ma non è più la Signora Bovary!...» La cosa andò tant'oltre, che il romanziere, piccato, si mise in capo di riscattare la proprietà letteraria di quel suo troppo fortunato volume, di ritirarne dal commercio tutti gli esemplari e di distruggerli, per non sentirsi più chiamare «l'autore di Madame Bovary».

Io credo che un pensiero simile dovè passare per la mente di Giuseppe Giacosa, quando gli entusiasmi eccitati dalla Partita a scacchi e dal Trionfo d'amore impedirono ai loro esclusivi e quasi gelosi ammiratori di apprezzare esattamente le diverse qualità delle altre opere sue. Al tenero e delicato cantore di Paggio Fernando e di Jolanda, al trovatore sentimentale, all'immaginoso evocatore del medio evo cavalleresco ed erotico, la maggior parte del pubblico, sedotta dall'arte squisita, richiese altri idillî dello stesso carattere, evocazioni simili, versi di eguale fattura; e, non avendone, e trovandosi dinanzi a opere di tutt'altro sapore, fu ingiusto con esse.

I giudizî del nostro poeta sul popolo americano contribuiranno ad alienargli l'animo dei suoi primi ammiratori. Alcuni anni addietro, per assistere alle prove della Dame de Challant che Sara Bernarhdt doveva recitare in America, il Giacosa raggiunse la grande attrice agli Stati Uniti. Le sue Impressioni d'America sono il frutto di quel viaggio. Egli non parla, e non può parlare della guerra; ma pochi libri spiegano meglio del suo le vittorie americane; perchè pochi osservatori hanno saputo come lui cogliere ed esprimere ed apprezzare i caratteri essenziali del popolo e della civiltà americana.

Leggete il capitolo su Nuova York: dalle prime il Giacosa fa notare come vi primeggi l'azione: «la gran città agisce prima di mostrarsi»; dalle prime pagine egli mostra la saldezza che hanno le opere umane laggiù. «Fino dove l'occhio giunge, da ogni lato, nello spessore delle città litorali, sopra l'immenso corno dell'Hudson, su pel gran braccio di mare della East River, è un accavallarsi di giganteschi edifizî che rappresentano nelle nebbiose lontananze un vario ondeggiare di colli digradanti al mare. Quelle moli hanno di lontano la gravità riposata delle cose eterne e sembrano sorte col suolo. Io non vidi mai in altri luoghi l'opera dell'uomo, sola, scompagnata da ogni elemento naturale, naturalizzarsi così interamente e darmi un così pieno inganno di paesaggio».

Uno dei segni particolari dello spirito americano è l'individualismo, che spiega ad un tempo la forza e i difetti della razza yankee. Il Giacosa lo mette in evidenza e ne trova una causa nell'abitudine di operare e di attendere ai guadagni in luoghi lontani dalla casa, in quartieri che, finita la giornata di lavoro, restano vuoti, deserti. «È certo che la casa, l'home degl'Inglesi, esercita sull'animo nostro un'azione mitigante, lo predispone e lo inclina all'esercizio delle virtù altruistiche. Chi abbandona la mattina i dolci luoghi della vita domestica e va e rimane per traffichi fino a sera in luoghi dove non ne resta nessuna traccia, e dove non c'è traccia nemmeno di altre vite somiglianti che gli ricordino la propria, si avvezza in breve a sdoppiare quasi interamente la propria natura, a separarne gli elementi affettivi dai volitivi ed intellettuali, lascia a casa l'umanità amorevole e soccorrevole per armarsi soltanto negli affari di un egoismo aspro ed ingrato».

La permanenza dei caratteri etnici particolari alla razza nonostante l'esteriore uniformazione ai costumi europei, è ben dimostrata dal Giacosa nel capitolo sull'Intemperanza. «A parole, i fashionables del caffè Del Monico professano una estetica delicata che deve costar loro una continua autovigilanza. Quella tenuità di pensamenti e di movimenti, che è il non plus ultra della sciccheria, stride col loro fisico poderoso e bisognoso d'azione. Il formidabile individualismo onde trassero nel tempo ricchezza e grandezza, si adagia a stento nella disciplina convenzionale della nostra gente per bene. Quando si mettono per godere, vogliono godere oltre misura. Cento doganieri dell'estetica appostati sull'entrata di un salone a respingerne ogni oggetto non bollato per raffinatissimo, non possono impedire che la raccolta di troppe cose squisite esprima un gusto se non eteroclito, eterodosso. Ogni particolare della vita di quei gaudenti otterebbe l'accessit dal più schifiltoso fra i dittatori della moda e della delicatezza parigina, ma il loro complesso tradisce per lo più quella inclinazione a fare in grande che è propria degli arricchiti. Eppure esiste in America una aristocrazia plutocratica, i cui titoli nobiliari risalgono a nonni milionarî. Ma quel sottile smeriglio che è il milione da lungo tempo posseduto, non venne ancora a capo di levigare del tutto la ruvida scorza che salì dal ceppo agli ultimi rami. È certo che in America la lunga ricchezza non produsse ancora quello che a noi pare supremo fiore dell'eleganza spregiudicata e sicura: l'amore del semplice».

Ma il Giacosa non augura niente affatto all'America l'estetica tradizionale; egli apprezza, al contrario, e loda quella particolare idea del bello non disturbata da preconcetti storici, quell'«estetica sociale» adattata al benessere e confacente allo sviluppo della razza umana, che si viene formando oltre l'Atlantico ed è anche una delle nostre nuove inquietudini. Accortamente egli nota come una delle peggiori conseguenze del rispetto alle tradizioni, presso di noi, sia la paura del ridicolo, dalla quale invece gli Americani sono affrancati. «Il ridicolo in America non fa presa, e dove non fa presa non esiste, perchè non è che un fantasima creato dalla paura. Anche nei paesi latini, dove può tanto, chi più lo teme più c'incappa dentro e, diciamolo, più merita di incapparci. Il ridicolo è un prodotto delle società da lungo tempo costituite, le quali finiscono sempre col chiudersi in un formalismo dommatico. Esso aiuta le serrate di classe, contrariando l'entrata d'ogni classe a chi ne sta fuori e l'uscita a chi ci è dentro. Cane di guardia dello statu quo, non morde mai chi si appaga a quel grado di mediocrità che tutti possono conseguire, ma si avventa contro i solitarî che lo soverchiano. Educatrice a qualità discrete, a gentili eleganze ed a virtù negative, la tema del ridicolo impigrisce l'esercizio delle attività individuali e frena i movimenti iniziatorî. Perciò i paesi dove esso più agisce sono spesso retrogradi e sempre consuetudinarî; e perciò ivi l'eccentricità, cioè l'essere dissimile dai più, induce sempre un'idea di ridicolo. Ora se badiamo al procedere della civiltà, noi troviamo che il minor numero di uomini eccentrici s'incontra nei popoli stazionarî e il maggiore nei progressivi. L'America informi».

Originale, libero, pronto ad apprezzare tutto ciò che è nuovo e vivo e utile, lo spirito americano si distingue ancora per quella particolare specie di scetticismo che il Giacosa definisce: «previsione generica di doversi un giorno ricredere su tutte le cose attualmente credute» e che non è ignota al pensiero europeo contemporaneo. Però, mentre i discepoli del Renan e e gli ammiratori di Anatole France sono increduli e impotenti, l'incredulità degli Americani non attenua «il consenso e la fede in quanto è oggi tenuto in conto di verità;» al contrario: «la verità attuale prende nelle loro menti un carattere di tranquilla certezza e le move a praticarla con sicura energia. Solo sanno che la verità di oggi non è quella di ieri e non sarà quella di domani. E quella di ieri fu ieri una propria e reale verità, ed esercitò tutti i benefici influssi che esercita la verità, e sarà una verità quella di domani, quantunque destinata a cedere il posto ad una successiva. Alle prime questo pare un linguaggio anfibologico, ma non è indifferente pensare che lo spirito umano proceda per via di successive verità, piuttosto che di successivi errori. In sostanza la cosa viene a dire che i concetti di verità e di errore non sono assoluti, ma relativi; e negli effetti pratici se ne deduce la conclusione che ognuno deve aver fede nel tempo in cui vive e prenderlo sul serio ed agire in esso con sicurezza. Ogni verità, anche se transitoria, è una forza. I dubbiosi non producono bene, perchè agiscono tepidamente. Chi crede che l'azione che egli va compiendo corrisponda al vero, ci spende intorno la massima somma di energia ed opera senza esitazioni e senza mollezze. D'altra parte il sapere che il vero non è eterno immutabile, rimove il pericolo degli accecamenti ostinati e dell'intolleranza. E perchè la sicurezza è rasserenante e giocondatrice, questi spiriti hanno una gaia contentezza del presente ed una gaia aspettazione del futuro, e la loro ironia, scevra affatto di amarezza, si esercita tanto a spese delle fedi immobili, quanto del dubbio permanente».

 

 


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