Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle selvagge
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LA FAINA.

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LA FAINA.

 

A Térésah.

 

Buriglia, detto anche Sciupa-boschi, aveva dei dispiaceri. E i dispiaceri erano originati dal fatto che egli s'era guasto con la dama alla quale discorreva da un anno.

E la dama, Rosa, una bellissima ragazza che portava meravigliosamente il proprio nome, alta bionda formosa, coi denti bianchi, le carni lisce, la vita piccola, le spalle e le braccia da statua, era figliuola d'un vecchio cacciatore e mezzo guardaboschi, il quale aveva imposto al futuro genero il dilemma inesorabile: O farla finita col bracconaggio e mettersi a lavorare, o rinunziare alla ragazza.

Buriglia ci s'era provato; ma per ricascare subito dopo nel vizio antico; una volta, due, il giovinotto se la passò franca, ma alla terza il vecchio fu irremovibile. Fatto questo, come s'intuisce facilmente, che non avrebbe avuto conseguenze serie circa gli amori del bracconiere e della Rosa, se ella non si fosse piccata, ("tutta suo padre!", diceva Buriglia) pigliando per un affronto diretto a lei la cocciutaggine del fidanzato.

E fu così che costui una brutta mattina si era visto recapitare un panierino di pere con dentro le lettere, poche, ma ben guernite di scerpelloni, dirette fino allora alla ragazza.

– Le pere, a me? – urlava Buriglia, mescendosi bicchieri di vino, accanto al fuoco, nella retrostanza della trattoria dove finivo di cenare; – le pere, a me? Non son Buriglia se non faccio una strage!

– Ma che strage d'Egitto! Vuoi proprio la ragazza?

– Oh! che dice, signorino, si figuri un po', se la voglio! Solamente per la picca! E poi ci ha qualcosa del suo, sa? Smetterei anche sul serio, lo creda a me, di correre i boschi....

– E allora stammi a sentire.... Ohi! maledetto....

– O cos'ha?

– Ho che, stamani, facendomi la barba da me, nella furia di venir via, mi son tagliato questo labbro.... guarda, mi sanguina ancora e, nel mangiare.... ma non è nulla; dunque senti un po' me. Lepri non se ne vedono.

Pochine, proprio.

– Le hai finite tu, birbante! starne, neanche.... Si potrebbe fare una cosa? Si potrebbe, per esempio, cercare d'una bella faìna?

– Si figuri! Non bramo altro: costano venticinque lire....

– Ma bisogna pigliarla viva.

Viva?

– Sì; viva. E rinunziare al guadagno; una volta presa viva, tu l'ammazzi senza sciuparle la testa e il pelo; la dài a me; io te la fo conciare a Firenze, poi te ne faccio fare un bel collare morbido lungo elegante, e tu lo mandi a regalare alla Rosa con un bigliettino dove c'è scritto: ultima caccia di Buriglia. E dopo, ci fai un crocione davvero e.... m'inviti al matrimonio!

Buriglia mi spalancò in faccia i suoi grandi occhi color d'acciaio e dopo qualche istante d'esitazione rispose:

– Eppure, mi piace.... eppure, ci sto! E lei stanotte si divertirà, glielo garantisco.

Stanotte?

– Eh! per chiappar viva la faìna bisogna trovarla mentre è in giro.... insomma vedrà lei come si fa.... fra poco si leverà la luna piena.... e non pigli il fucile. Bastano il mio cane e una vanga....

– La vanga?

– Quando dico che lei vedrà! Non sa che bisogna andare a cercar l'animale proprio dove.... lei m'ha bell'e capito?

– Proprio in bocca al lupo?

– Ma di notte e senza fucile; nessuno ci può dir nulla; qui non c'è "luogo a procedere". O venga con me.

Era un buio d'inferno; la boscaglia lontana, in fondo alla strada che albeggiava appena fra le due siepi nere, fosca immobile e silenziosa come una montagna: però nel cielo ferveva una vita straordinaria; tutte le stelle, nella notte fredda, rilucevano splendidamente battendo le ciglia raggianti, sicchè l'enorme spazio curvo sopra di noi pareva brulicasse di vivi insetti d'oro; ma volgendo la testa, a levante, si vedeva un chiarore freddo che annunciava la luna imminente.

E infatti si levò, mentre si metteva piede nella selva, e fu un bene, perchè in quelle tenebre io cominciavo a pentirmi della proposta fatta a Buriglia, il quale, con una zappa sulla spalla e il cane a guinzaglio che tirava fiutando, trotterellava avanti a me senza dir nulla, tutto assorto nel suo sogno di riconquista della Rosa.

Pensava proprio a cotesto, perchè nell'atto d'entrare nel bosco mi disse a bruciapelo, continuando il filo d'un pensiero: – E sa, fra l'altre cose, è diverso tempo che il vecchio trova le galline sgozzate....

Sulle quali parole, soddisfattissimo delle speranze che da riaccendeva nel proprio cuore, Buriglia calò sulla bocca larga dai bianchi denti di carnivoro la saracinesca dei baffi spioventi e non riaprì le labbra altro che per avvertirmi, mentre avanzavo a tentoni fra scheggie di macigno e barbe di pino che si ricercavano fraternamente da un lato all'altro del sentiero boschereccio: – Stia attento!

E sciolse Fido che non ne poteva più e tirava di naso mugolando e lasciandosi penzolare dal guinzaglio teso finchè le zampe anteriori non isbattevano in aria.

Il cane si buttò di galoppo col muso in terra, entrò nel fitto, sparì.

Noi due, col sigaro in bocca, appoggiati ciascuno ad un albero, si aspettava in silenzio, mentre la luna, ormai alta, pioveva nella selva il suo ricamo fantastico d'ombre, di luci, di rabeschi che tramutavano la fisonomia delle cose e riducevano la pineta a una vera reggia delle fate, tutta tempestata da sprazzi di gemme e da folgorii d'oro e d'argento. Una nebbiolina tenue tenue, come polvere di brillanti, saliva dal basso dove il borro gorgogliava tra i massi, e la luce invadente insinuandosi, come fosse liquida, da per tutto, colando per i viottoli, sbattendo sui tronchi, scherzando sulle foglie, illuminando i recessi più cupi e lontani, inondava il paesaggio, dandogli trasparenze d'un verdognolo diafano sfumato d'azzurro che lasciava travedere sempre meno accentuate le sinuosità dei monti, mentre via via apparivano, prima velate, poi candide, poi bianche smaglianti accanto agli alberi scuri, le case degli uomini sparpagliate qua e come pecore di un gregge che riposassero stanche a mezza costa dei poggi.

Ma proprio quando lo spettacolo fantasmagorico mi aveva più avvinto, nella quiete altissima dove i romori adagio adagio s'eran fusi così che non intendevo più neanche crollarsi le foglioline prossime e mormorare il borro lontano, uno scagno stridulo, quasi doloroso, parve lacerare crudelmente quel divino velario di silenzio e di mistero.

Al primo scagno ne seguì un altro più acuto, poi un terzo ancora, infine un guaìto misurato e continuo percorse il bosco, echeggiò di collina in collina, si perse a valle, svanì in un lamento fievole, fu coperto dal bollore del borro e dal sospirar del fogliame che, tutt'a un tratto, ero tornato ad udire.

E Buriglia colla zappa brandita correva avanti a me, ed io stentavo a seguirlo, fra il timore d'abbracciare un tronco di pino e quello di sentirmi capitombolare in avanti con un piede trattenuto da qualche barba sporgente.

Sul confine del bosco, nel piano, sopra una radura erbosa che pareva disseminata di brillanti, Buriglia mi fermò con un gesto energico.

Fra il romore, ora vicinissimo, del torrente che si rammaricava indignato di quella scorreria notturna, distinsi chiaro un abbaiare fisso, rabbioso e continuo.

Fido, – urlò Buriglia, – abbaia a fermo! È lassù!

E via, di carriera, attaccandoci alle scope, sdrucciolando sui sassi, saltando fossi e macchioni. Accanto a un gruppo di pini, Fido urlava, facendo salti acrobatici come se l'avesse punto un calabrone.

Buriglia si guardò intorno, stupefatto.

– Ma se non c'è neanche un macigno, una buca, nulla!... Ah! figlia d'un cane! È lassù! E ora, chi l'agguanta?

La faìna era in cima al pino più alto. Comodamente appollaiata nell'inforcatura d'un ramo, ci guardava con due occhi fosforescenti simili a due lune verdi, immobile come uno di quei gatti di smalto cogli occhi di vetro che si vedono nelle vetrine.

Forza, signorino! sassate!

Ma la faina guardava il cane, si rannicchiava dietro i rami protettori e non si moveva. Impossibile coglierla. Buriglia si strappava i capelli dalla stizza.

– Se si era preso il fucile!

Bravo! Per rovinarle tutta la pelle!

– Eppure non si può durare tutta la notte così....

E dir queste parole e togliersi le scarpe, fu per Buriglia un punto solo; poi cominciò faticosamente ad arrampicarsi lungo il tronco del pino, mentre il cane seduto sulle anche, guaiva, gemeva, urlava, dimenando con furia la coda che, a forza di battere sui sassi e nei ginepri, stillava sangue come un asperges.

Io non levavo gli occhi di dosso alla faìna, di cui, rannicchiata com'era sul pino, vedevo muoversi soltanto le pupille verdi, una volta verso il cane, una volta verso l'uomo che saliva, stronfiando. Come questo fu vicino all'inforcatura, la bestia si slanciò, descrisse un arco di cerchio per aria coll'esile corpo nero affusolato e la spazzola lunga della coda, e parve che di dentro alla chioma del pino fosse stato mollemente scagliato un boa da signora; ma quel boa era animato; l'arco che descrisse fu immenso tanto che lo fece arrivare al di d'un folto di scope dove parve rimbalzare e scomparire, senza romore, commovendone appena le cime.... e Fido, ripigliando la canizza disperato, si precipitò inferocito col naso a terra sul fetore acre della faìna fuggente.

Di macchia in macchia, da un fitto di lecci in un labirinto di querci, di tra un intercolonnio di pini in uno di cipressi, fra screzi di luce e d'ombra che ci turbinavano davanti agli occhi, dietro i latrati del cane, per viottoli scoscesi e scorcitoie pericolose, si arrivò finalmente dove il borro s'apre e si placa impaniandosi in un acquitrino melmoso dinanzi a una gran cascata di sassi rotolati giù per la scarpa consunta del poggio e detta la Rósa. sopra subito, Fido ululava ai piedi d'un cipresso aguzzo e nero, impenetrabile come una nube.

– È entrata dentro! – gemè Buriglia; – chi sa i passerotti che ha fatto fuggire!

E giù sassate nella chioma e pedate al tronco dell'albero, mentre Fido urlava, guaiolava, ronchiava, fischiava dalle narici frementi, cacciando ogni tanto un: bau! di bile impotente e graffando cogli ugnelli anteriori la scorza del cipresso impassibile. Ma la faìna, dura!

Solita manovra di Buriglia, solito prodigioso salto dell'animale, solita corsa disperata per il bosco che risuonava tutto, in quelle gole basse, come se vi trascorresse per entro la leggendaria cavalcata boccaccesca.

E così a un altro pino, e così a un altro cipresso, finchè, stanchi morti, non ci si fermò in cima al monte a sorseggiare un po' di "cognac" dalla fiaschetta. La notte entrata ormai nella seconda metà del suo corso era rigidissima; ma noi si sudava come cavalli.

Senta, – mi disse Buriglia, asciugandosi la fronte colla mano, – se non si leva il sole, son dolori!

– Sì. La faìna ci piglia in giro!

Pazienza, per la faìna! Ma guardi, siamo sotto a casa sua!

– Sua, di chi?...

– Ma.... di loro.... della Rosa!

Alzai gli occhi e vidi, oltre il nero delle querci, un albeggiare d'olivi e il bianco scrìo d'una casa colonica di buona apparenza.

– E cosa facciamo?

– Le solite; io m'arrampicherò sull'albero, la faina salterà giù, e speriamo che, questa volta, imbuchi.

Detto, un fatto. Buriglia cominciò a salire, arrivò in cima alla pianta; la faìna descrisse il solito cerchio per aria, sparì, il cane si sprofondò dietro a lei urlando e noi.... daccapo a correre! ma per poco.

Fido abbaia a fermo!

– Un altro cipresso!?

– Ma che! guardi , guardi ! È entrata, finalmente!

Fra un cumulo di macigni rovi e sterpeti Fido a capo basso e a coda ritta abbaiava scavando la terra e buttandosela sotto il ventre. La faìna era . E cominciò, come negl'incendii, il lavoro.... di "smassamento"!

Ad ogni sasso che ruzzolava, la faìna cambiava di posto. Non era nel suo covo, se no si poteva dirle addio! La bestia, in assenza di gallerie, andava in qua e in sotto i massi e le sterpaglie, seguìta dal cane che il fiuto infallibile guidava sempre, e, accostando l'orecchie alle feritoie naturali della grossa macìa, si udiva, nell'ombra, la bestia soffiare.

Finalmente, sotto la zappa, un enorme sasso si crollò, piegò, rotolò e mentre Buriglia, rapido, ficcava il braccio nudo nel buco, il cane fece un salto per aria sbattendo le mascelle a vuoto, ricadde sulle quattro zampe e volò dietro la faìna scivolata via non si sa di dove, come!

Ma Buriglia, contemporaneamente, si alzava urlando, livido in volto, e scuoteva disperato il braccio a cui rimaneva appiccicata, torcendo la coda, una vipera lunga due palmi.

Rapido come il baleno picchiai col bastone traverso alle reni della bestiaccia che mi cascò ai piedi moribonda.

Il momento però appariva terribile, ogni minuto di più. Buriglia, cianotico, cogli occhi fuori di testa, si rotolava sul terreno raccomandandosi come un'anima in pena. Non c'era un secondo da perdere, perchè il veleno avrebbe senza dubbio cominciato ad agire.

Volsi l'occhio intorno.... nemmeno un'anima! Il cielo impallidiva, scomparivan le stelle, ma il sole non accennava a levarsi. Non un rumore rompeva l'alta pace solenne che precede la salutazione del giorno, non abbaiare di cani, non muggire di bovi, belar di pecore, sbatter di porte, nulla.... solo un gallo, fioco e stonato, abbozzò da lontanissimo, un chicchirichì senza risposta.

E Buriglia moriva!

Mi frugai indosso febbrilmente.... la fiasca del cognac vuota, il coltello; niente altro!

Allora mi misi a urlare al soccorso, senza la speranza di farmi udire. Buriglia, intanto, mi diceva con voce corsa dai brividi: Signorino, guardi qui, nel mio carniere.... troverà dello spago, mi stringa il braccio, sopra alla morsicatura, lo stringa sodo, lo stringa senza pietà....

Capii che bisognava agire e mi posi a far la legatura più stretta che mi fu possibile, finchè l'avambraccio penzolò, livido, come una cosa morta. Allora estrassi il coltello, ne bruciai la punta sopra un fiammifero, poi lo cacciai coraggiosamente nella ferita. Ma il sangue, nero, coagulato, sgorgava, con pena....

–– Ora, – mi disse Buriglia con voce spenta dalla paura, bisognerebbe succhiare, con forza.... da me non ci arrivo.... è qui, sotto il gomito....

Disperato, gli feci vedere il mio labbro scalfitto dal rasoio.... Tanto equivaleva suicidarsi!

– O non mi lasci morire così... in fin de' conti.... è colpa sua.... signorino, per l'anima dei suoi morti.... aiuto! mi ammazzi! vada a pigliare il fucile....

E giù, rotoloni per le terre, mentre io buttavo via il cappello, mi davo dei pugni nel capo, non sapevo più quel che dicessi....

Intanto, lontano lontano, di collina in collina, Fido, tenace, inseguiva sempre latrando la causa di tanto disastro, mentre dai poggi cerulei torrenti di luce d'oro scendevano suscitando vapori fumanti a inondare la valle, dove le foglie autunnali parevano gettate di fresco nel bronzo.

Fu in questo frangente, quando mi pareva che tutto crollasse e dileguasse intorno a me, che una specie d'allucinazione mi percosse gli occhi stupiti. Una magnifica ragazza bianca e bionda sbucò tra gli olivi, di sul confine del bosco, s'inginocchiò rapida accanto a Buriglia gemente e, presogli il braccio fra le mani, applicò le labbra sulla pericolosa ferita.

Come si fa a raccontar certe cose? L'arrivo dei vecchi richiamati da tutto quel brusìo, l'esclamazioni, le grida, la paura e finalmente la solita e provvidenziale commozione che fece, seduta stante, non appena rimesso in piedi alla meglio, del povero Buriglia il più felice degli uomini?

Ma si può ben raccontare però che, mentre tutti seduti attorno alla gran tavola di cucina, il riso si alternava al pianto e i bicchieri di vino a' tenui rimproveri, come l'ombra al sole se scende a sbalzi tra gli scalini delle nuvole; sulla porta rimasta aperta, si vide comparire e fermarsi scodinzolando, fiero della sua vittoria, Fido magro, rifinito, ansante, stringendo fra le mascelle, finalmente inerte, la maledetta faina!



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