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Che sangue sarà stato il suo? E chi lo sa! Incrociato era, ma di certo con quel che di più barbaro avessero prodotto le non lontane coste dell'Africa nelle epoche in cui ogni tanto le fuste leggiere o gli sciabecchi bizzarri correvano il mare.
Quelli eran bei tempi! avrebbe detto padron Zè se lo avesse saputo, ma lui non sapeva nulla; neppure cosa volesse dire il suo proprio nome.
Zè!! Arabo! Algerino?Tunisino? Spagnolo? Greco?... vattelapesca!
In ogni modo Zè parlava in sardo, quando parlava, perchè gli pareva, fra i cento che conosceva, il dialetto più difficile ad esser capito. Quanto a fare, come faceva, il fanalista su quello scoglio deserto, la colpa non era nè sua, nè del governo; era di suo padre, il quale morì soltanto dopo che Zè aveva preso moglie e generato due figliuoli, uno dei quali, a vent'anni, arruolato dalla R. Marina, veniva, congedandosi, ad acquisire il diritto di succedere al nonno nella carica di fanalista.
Ecco perchè Zè faceva girare la gran macchina luccicante dalle magnifiche lenti, la puliva e l'ungeva, e passava le notti arrampicato nella torretta.
Altrimenti lui, giacchè, non essendo mai stato soldato, non ne aveva il diritto, non si sarebbe trovato a quel posto; posto nel quale stava, ora, per combinazione e mal volentieri, in vece del suo figliuolo, richiamato, che correva i mari lontani sopra un piroscafo requisito, portando carichi dei quali nemmeno ai suoi poteva dir la natura.
Ecco perchè padron Zè, biascicando fra i denti gialli nella gran barba arruffata, s'arrampicava per la scaletta a chiocciola fino al meraviglioso ingranaggio d'ottone, di vetro e d'acciaio e, con un cencio unto d'olio e di petrolio, strofinava e puliva, voltandosi ogni tanto a dare certe occhiate al mare che urlava di sotto, come se laggiù ci avesse avuto la bella.
Zè non era un uomo, era una bestia; lui non sapeva nulla; altro che, quando navigava, sentiva addosso un non so cosa, una smania di star sempre a bordo e, se gli accadeva di scendere a terra, pigliava subito una sbornia dal grande struggimento e dalla gran pena e non si sentiva tranquillo finchè non si trovava al largo.
I figliuoli, i quali aiutarono fin da ragazzetti il nonno a conservare quel posto al fanale che dava a tutti, come diceva il vegliardo, il "pane fisso" ebbero virtù di ricondurre il padre alla terra, e specialmente la Grazia, la figliuola, che era d'una bellezza orientale da far girare il capo; ma lui ci s'adattò perchè in fin dei conti, quella non era proprio terra e il governo (con quale disprezzo Zè pronunziava questa parola nella quale vedeva una specie d'uomo con un vestito luccicante che ordinava tutte cose pazzesche!) durava fatica a trovare anche un affamato che s'adattasse a tornare lì, su quello scoglio a punta, in mezzo ai flutti schiumanti, senza veder più nessuno, senza sapere più nulla di nulla.
Invece Zè era tutto nel suo centro, s'infischiava d'ogni cosa, lui, e se non era il figliuolo che aveva girato il mondo ed era sceso a terra in tutti i porti, quando gli morì il vecchio, lui lo avrebbe messo in un sacco, con un sasso legato ai piedi e l'avrebbe buttato in mare; e se una barca, alla quale dèttero il cenno di soccorso, tardava a comparire, lo faceva davvero!
E chi fu, se non il figliuolo, che l'obbligò, fino a un certo punto, a finirla colla vita del mare? Del resto al fanale non ci sarebbe stato neppure un giorno.
Vita del mare? Ma quella che aveva fatto Zè era la vita dello schiumatore, del corsaro, del contrabbandiere!
E se ho detto che fu il figliuolo che lo fece smettere, mi son spiegato male, perchè veramente Zè la fece finita unicamente per il fatto che la "Candida" ribattezzata "Grazia" dopo la morte della moglie, gli si sfasciò in una terribile traversata nel golfo Leone; e lui soleva dire che la scampò così (e si toccava la fronte col pollice teso) dopo una notte intera fra mezzo ai flutti come le montagne, a cavalluccio a un barile.
– Babbo, il governo ci paga, si mangia, si beve, ogni quindici giorni solamente si vede la faccia d'un cristiano e il mare l'avete sotto: o che volete di più? – Diceva Carmelo, il figliuolo, al suo lupo genitore.
E il lupo genitore pigliava il gozzo se il mare era calmo, e cosa credete facesse? Andava a pescare colla dinamite!
La teneva in una grotta dove non entrava che lui, gliela l'aveva portata un greco col quale ne aveva fatta d'ogni erba un fascio, e come ci teneva, anche!
Quando veniva la barca a recare i viveri al fanale, padron Zè scendeva a piè della scaletta tagliata nel granito; ma se per il mare forte ci veniva la torpediniera, padron Zè scompariva nella grotta. Puzzava troppo di mondo, quella lì.
Ai pescatori della barca, invece, raccontava le sue birbonate compiacendosene tanto; lo sapeva lui che poi facevano il giro di tutti gli equipaggi e che se le raccontavano intorno al caldàro del pesce, durante le grandi calme.
Una volta, sul principio, quando non aveva barca di suo, gli affidarono un carico d'olio. Zè dètte l'olio a un compare, empì le botti d'acqua e naufragò apposta, in un certo punto che sapeva lui.... falsi naufragi ne aveva fatti parecchi, se no come poteva arrivare a comprarsi un veliero?
O quando a bordo avevan sete? Lui metteva un fiasco d'acqua voltato rapidamente in giù nel cocchiume d'una botte di vino e aspettava. Di lì a poco l'acqua cedeva il posto al vino, più leggero di lei, in mezzo agli applausi dell'equipaggio.... e peggio per chi rimaneva ingannato!
Quando vedeva passare i brigantini, i tre alberi con una data velatura a lui ben conosciuta, le barche tipo pesca delle spugne, padron Zè le rilevava con la precisione di un semaforo: Quella è del Crisopolos, fa contrabbando d'armi per i Turchi.... lì ci sono Spagnoli e Greci e nelle botti di tonnina, sigari. E si fregava le mani ripensando ai "bei tempi".
Ora i bei tempi eran passati. "Quegl'imbecilli degli uomini" come diceva con supremo disdegno padron Zè, stavano facendo la guerra e gli avevan portato via il figliuolo. Per fortuna non l'avevan mandato a farsi ammazzare perchè, se no, se no.... E Zè stringeva i pugni formidabili e arrotava i denti come se chi aveva ordinato la guerra fosse stato un uomo solo e lui lo avesse potuto strozzare.
Intanto gli toccava a stare intorno alla lanterna invece di spenzolarsi dagli scogli a far lampade, a tender filaccioni, invece di allontanarsi col gozzetto a salpar nasse o tramagli; che brutta vita! Non si consolava che di una cosa: che la Grazia veniva su tal quale a lui; già i figliuoli matreggiano e le figliole ritirano dal babbo, come gli diceva sempre il vecchio; e se il ragazzo veniva fuori ogni tanto con dei discorsi imparati nei porti sulla patria, il dovere, la coscienza, la figliuola non parlava quasi mai e quando vedeva spuntare la barca o la torpediniera si calava nella grotta a raccomodare le nasse.
Patria, dovere, coscienza.... l'Italia? Ma che era italiano padron Zè? Lui era figliolo del mare e, o lì o in Africa, si credeva ugualmente a casa sua.
– Ma, e per pigliar marito, come farai? – Chiedeva alla figliola in quei momenti nei quali si trovavano insieme rinchiusi nella grotta tra l'assi, le reti, le nasse, i ramponi, le fiòcine, le canne, i remi.
La Grazia si voltava sull'anca opulenta alzando a mezz'aria il braccio color bronzo, nudo fino al gomito, e, colla mano armata della spoletta con cui ritesseva i buchi fatti nei tramagli dai delfini, tracciava un gesto impercettibile nell'oscurità e rispondeva sgranando gli occhi enormi lucenti come carbonchi e i denti bianchi simili a mandorle sbucciate:
– Lo troverò anche qui! e se mi vuole verrà a pigliarmi qui in casa nostra....
– Non di sopra, chè è del governo! – postillava Zè, covandosi la figliola collo sguardo, tenero a modo suo, da pescecane in amore; poi si rimetteva a fumare nella pipa corta, dicendo tra sè: – Morde come un gattopardo, è proprio me tale e quale!
Una notte a Zè parve di vedere nella foschia un veliero che si sballottava fra l'onde e il sangue gli dette un tuffo. Lui, quella forma di barca, la conosceva. E scese dalla torretta del fanale, come un colpo di vento, e, giù per la scaletta di granito, arrivò dove il mare agli sbuffi del libeccio gli spruzzava di pulviscolo diaccio il petto ignudo sudato sotto la camicia rossa di cotonina, aperta.
Ma ebbe un bel farsi arco delle palme alla sopracciglia folte e agitate, non vide nulla, altro che i riflessi viscidi dell'ondate che morivano sulla scogliera.
Allora buttò via le scarpe e scese giù presso alla grotta sopra una calanca naturale aperta tra due secche nascoste a fior d'acqua, che Dio ne liberi a non lo sapere. E sussultò, perchè proprio davanti a lui era un gozzo a due remi.... o come aveva fatto ad arrivare fin lì?
La paura Zè l'aveva sentita ricordare, ma personalmente non la conosceva; per cui girò il sasso che ostruiva la grotta sopra una specie di piattaforma naturale, agguantò una fune, accese una lanterna e tornò fuori. Da un pezzo, da qualche mese, avevano avuto l'ordine di tenere spento il fanale e di vigilare soltanto i galleggianti al largo dell'isolotto, sicchè il mare era nero come la pece e quel che aveva potuto indovinare, Zè l'aveva indovinato allo spolverìo delle stelle; ora, colla lanterna accesa, si trovò più al buio di prima, ma, nonostante, si fece due passi indietro e lanciò in mare la cima. S'accorse subito che era stata presa, che qualcuno la tirava, forse l'ormeggiava, poi sentì un passo scalzo, da belva, sulla scogliera e vide biancheggiare una forma umana.
– Crisopolos!
– V'ho riconosciuto all'odore....
– E io t'ho indovinato dal vento; non t'hanno ancora ammazzato? La devi aver fatta grossa, stasera!
– Padron Zè, due parole da amici.
– Eccomi qui.
– E chi ti ci porta, figlio mio? Io, gli amici, li ricevo in casa....
E alzata la lanterna introdusse nella grotta il contrabbandiere greco.
– Volete bere? Corro a chiamare la Grazia e torno.
– Aspettate, il vostro figliolo non c'è, vero?
– E come lo sapete?
– Lo so. Siete sempre lo stesso, o posso discorrere?
– Volevo sapere.... se il governo che vi paga vi ha addomesticato?
– Il governo? Il governo paga quell'imbecille del mio figliolo, non me.
– Bene. Ci ho un'impresa da proporvi, un affare coi fiocchi.
– Ma io non mi posso muovere di qui, e se è un'impresa rischiosa, la Grazia mi riman sola.
– Non importa muoversi di qui, l'impresa non è rischiosa; quanto alla Grazia, voi potete fare la sua fortuna in due maniere.
– Vale a dire che, fatto l'affare, la Grazia la sposo io, e voi venite a stare con me!
– Eh! se aveste di molti di questi, correreste anche voi! – e Crisopolos fece luccicare davanti agli occhi di Zè una borsa di monete d'oro.
Il lupo credeva di sognare. Azzardò:
– Ma come avete fatto a innamorarvi della Grazia?
– Quando voi foste ammalato, io son venuto qui....
– Qui, dove?
– Nella grotta.... in questa grotta!
– Con lei?
– Con lei! E, fatto l'affare, si ripiglia il commercio. Un altro come voi e una donna come lei, dove li posso trovare?
– Eh! non dico.... quella è un secondo me stesso.
– Andatela a chiamare, ora, e ditele pure che ci porti da bere.
Di lì a pochi minuti il vino giallo gorgogliava dall'anfora e Crisopolos stringeva la vita della bella selvaggia.
– Dunque sentite, è roba da poco. Io, ora, in due o tre viaggi col gozzo, sbarcherò un po' di barili....
– Di vino?
– Macchè! di petrolio e di nafta. E voialtri li chiuderete qui dentro. Poi, voi, Zè, seguirete a far la ronda nella torretta, mentre la Grazia vigilerà dalla grotta. Una sera vedrete arrivare un galleggiante strano, che affiorerà di sotto l'acqua a un tratto, colla punta fra le due secche e aspetterà là. I barili son bell'e legati e accomodati in modo da galleggiare. La Grazia ne rotolerà piano uno giù per il pendio e lo lascerà cascare in mare, poi salterà nel gozzo e spingerà il barile davanti a sè, verso il.... come dire?
– Ho capito! verso il sottomarino.
– Bravo. Al resto ci pensa lui.
– Ma codesta è roba per fare la guerra!
– E chi se n'occupa? Il sottomarino parte e va a fare la guerra dove gli pare....
– E il barile?
– Il barile rimasto vuoto e stoppato cola a fondo; sarà bene che la Grazia lo spinga di là dalle secche dove ci sono trenta metri d'acqua.
– È tutto qui?
– Non c'è altro. Io poi, tornerò a portarvi degli altri barili, e a fare una cena con voialtri....
– Si farà qui, nella grotta!
– Questa è la caparra per voi – Crisopolos prese la borsa piena d'oro e la mise nelle mani di Zè – e questa è la caparra per Grazia – e presa la fanciulla per la vita le stampò un bacio nel collo, sotto la criniera ricciuta – e ora, arrivederci.
In poche ore, dall'ombra, in silenzio perfetto, quattro barili furono issati e chiusi nella spelonca. La barchetta di Crisopolos dileguò come ingoiata dalla nebbia, Grazia risalì verso il faro dondolando i fianchi lunati e scuotendo i capelli umidi di salsedine marina con perfetta incoscienza di fiera pasciuta, Zè si fregò le mani e riaccese la pipa, riflettendo tra sè che aveva, ancora una volta, buscherato il governo.
Poche notti dopo la Grazia spinse due barili a portata di un sottomarino che li succhiò coscienziosamente e si sommerse, simile al pesce Mola quando sparisce il sole.
– Pareva un capodoglio – disse la ragazza risalendo al fanale.
Il vecchio discendendo, rispose:
– Io non ho visto nulla, perchè io fo il fanalista!
E rideva d'un riso malvagio, stropicciandosi le mani e guardando lontano, sul mare agitato e impenetrabile.
La barca di Crisopolos non era più apparsa; del resto non era facile approdare allo scoglio con quelle sciroccate di primavera che lo scotevano tutto, giù dalla base sino al fanale che tintinnava come una gran campana d'argento.
Ma la mattina di Pasqua padron Zè disse alla Grazia di preparare un desinare coi fiocchi, caldaro d'aragoste con pane all'aglio, palamita arrosto, vino e cognac. Perchè la notte Crisopolos con due barili pieni era disceso alla grotta, licenziando il veliero che bordeggiasse al largo, come aspettando il vento, essendosi fatta una calma addirittura da estate.
Padron Zè pregustava il piacere di pigliare una sbornia come quando scendeva in terra "a' bei tempi"; ne sentiva proprio il bisogno.
Verso mezzogiorno la Grazia cominciò a urlare chiamando Zè, che venisse a vedere su al faro.
Zè uscì dalla grotta, e anche Crisopolos, e salirono su, dove la Grazia gesticolava da parere un'ossessa.
Al largo, maestoso, passava un piroscafo a vapore, enorme, con due ciminiere, e a poppa, visibilissimo, un grosso cannone. La ragazza che guardava col cannocchiale, giurava che dalla murata di poppa un marinaio faceva cenno col fazzoletto.
– È Carmelo! Fa' un po' vedere.... –
– Mi sì, vi dico, è lui!
– Date un po' qua anche a me....
– Aspettate, Crisopolos.... Ma chi volete che sia, a far dei cenni a noialtri? Ah! se il vapore alzasse il nominativo! Ma non ci son semafori qui....
– Date qui, Zè.... ecco il mio punto.... è un marinaio, e saluta proprio questo faro.... è vostro figlio di certo....
Il greco s'interruppe e per poco il binocolo non gli cascò dalle mani.
A cinquecento metri dal piroscafo era comparso un oggetto luccicante, una specie di breve torretta blindata – non c'era dubbio – il periscopio d'un sottomarino.
Zè si fregava gli occhi, quando nel gran silenzio azzurro del mare rintronò un colpo di cannone; poi un altro ancora e poi un terzo.
Grazia, cogli occhi sbarrati non seppe dire altra che:
– Ma si battono!
Poi si vide il sottomarino affondare e ricomparire, e il grosso piroscafo gittare vortici di fumo dalle ciminiere tentando la fuga, poi il mostro d'acciaio scomparve ancora e quando riaffiorò, il colosso si piegava sulla sinistra, colpito a morte.
Si vide calare un'imbarcazione dal fianco alto sull'onde: un cavo, tagliato fuor di tempo, la rovesciò. Un'altra, subito piena, toccò le onde e il sottomarino le lasciò andare una cannonata.
Non si sentivano le grida dei naufraghi, ma a Zè, alla Grazia, a Crisopolos parevano d'udirle, lì vicine, laceranti, distintissime.
La tragedia s'era svolta con una rapidità che non aveva dato tempo a Zè di riflettere. A un tratto si slanciò, come se avesse avuto vent'anni, addosso al greco, impugnando il coltello. Crisopolos rispose con un colpo di pistola, ma rapida a mo' di folgore, la Grazia l'afferrò per le spalle e per il polso facendogli cascare in terra l'arma, mentre Zè lo colpiva nel petto. Si sciolse, nonostante, dalla stretta e si buttò giù per la scala, arrivò nella stanza dove era apparecchiato il banchetto di Pasqua, e, raggiunto da un altro colpo, girò su sè stesso simile a un manzo annoccato, e piombò pesantemente sulla tavola, insanguinando la tovaglia, fracassando piatti, stoviglie, bicchieri, poi scivolò fra due seggiole trascinando il panno a cui s'era abbrancato nella caduta, battendo i piedi convulsi, e si irrigidì.
Grazia e Zè si guardarono esterrefatti; non si dissero una parola. Corsero giù per gli scogli, fino alla grotta, girarono il sasso, si rifugiarono dentro, s'accasciarono; essa in un angolo, l'uomo in un altro, vi rimasero, col capo fra le ginocchia, battendo i denti, tremando tutti, senza sospirare, senza piangere, senza imprecare, finchè scese la notte.
Allora, fatti più sicuri dal buio, strisciarono, simili a due serpi, fuori dal buco nella scogliera camminando carponi sulle mani e sui piedi scalzi.
Fiutarono la calma del cielo immemore di vento sotto le prime stelle fredde nel sereno sconfinato, poi si calarono, adagio, fra punta e punta.
Il risucchio, ogni tanto, baciava le basi muscose dell'isolotto, e ad ogni respiro, qualcosa, insinuatasi fra le due secche emerse dalla marea bassa, picchiava dolcemente agli scogli.
Zè scese ancora più giù, sempre carponi, scivolando col petto sul granito aspro, seguito dalla Grazia che durava fatica colla sottana a scendere in basso a quel modo.
Un cadavere supino, un cadavere di marinaio, coi piedi scalzi e la maglia blù, si dondolava come dormisse sull'acqua e, ogni tanto, colle piante ignude toccava la sponda.
L'acque dense di fosforescenze e scintillanti per il riflesso degli astri che ora formicolavano in tutto il cielo, pareva gli componessero una gran culla d'oro che il risucchio spingeva e respingeva dalla riva.
Zè, a capo fitto, le braccia abbandonate, ciondoloni dall'ultima scogliera, disse sottovoce al cadavere:
– Vàttene!... Tu venivi per il banchetto di Pasqua.... ma non c'è più nulla.... ha finito tutto Crisopolos.... ed è morto!
Le stelle del cielo splendevano in fondo al mare; tutta la gran distesa placida, chiusa ermeticamente sopra l'enorme preda, ne luccicava all'infinito, e il cadavere s'ostinava a picchiare, ma così fievolmente! per ogni respiro dei flutti, allo scoglio.
Ed ogni volta, Zè e la Grazia, disperatamente curvi in quell'ombra umida e opaca, sotto il firmamento tremolante di luci, gli gridavano colla voce strozzata:
– Vàttene!... vattene!... vàttene!...