Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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I ‘forzaioli’

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I ‘forzaioli

 

 

All’imbocco del paese la comitiva romorosa dei ragazzi si fermò; tenne conciliabolo.

S’erano sparpagliati sul gran prato, vicino alla vecchia cappella secentesca scortecciata e cadente, fra mezzo ai coppi enormi di terracotta rossa, resa dura, dalle intemperie, come il porfido.

Si arrampicarono a fatica sui vasi colossali, puntellando i piedini scalzi sopra i manici aggraziati, sulle sporgenze lievi degli stemmi medicei; stettero , seduti in giro sui fondi lucidi degli orci, come un piccolo parlamento improvvisato, vociando tutti insieme, senza riuscire a raccapezzare una frase che volesse dir qualche cosa.

I più vicini, armata d’un ciottolo la manina bruna, picchiavano disperatamente sulle pance enormi dei grossi recipienti oleari, che mandavano un suono fesso, profondo e lontano.

[30] Gigi del Beccaluci, il più grandicello, ritto in cima a una conca tutta rabescata a grossi festoni di frutta e fogliami, chiedeva silenzio con una voce stridula come quella delle ghiandaie.

Intanto il tempo rincupiva sempre di più, il tuono rombava sordamente in lontananza, e gli olivi del monte di Sant’Antonio ristavano, curvi, come per difendersi dalla raffica vicina, e avevano rovesciate le foglie dalla parte bianca.

Era una vigilia di festa, e il postino, arrivando in piazza al trotto sghembo del suo magro cavalluccio, aveva sparso la voce che poco sopra al Cantagallo s’arrampicava faticosamente per l’erta un carrozzone di ‘forzaioli’ tutto carico di bertucce e di pappagalli.

Motivo per cui i ragazzi del borgo, con uno slancio unanime, erano fuggiti di sotto ai loggiati della Colleggiata, dove stavano, come sempre, esercitandosi al bersaglio contro un pregevole bassorilievo di marmo attribuito all’Orcagna; ed erano corsi, gridando come uno stormo di passeri, su per l’erta del prato, incontro ai saltimbanchi, purulente piaghe sociali, di cui i monelli sono le mosche necessarie, in tutte le parti del mondo.

Ma un tempo spaventevole, un cielo greve, afoso, torbido, proprio sul principio della via principale, rara di case, fiancheggiata da cipressi altissimi, già provati in parte dal furore dei fulmini, de’ quali serbavano le tracce in qualche tronco scheggiato e sanguinoso come una ferita viva, aveva [31] paralizzato lo slancio birichinesco, con la prospettiva d’un diluvio asfissiante.

E l’acqua non si fece aspettare, davvero.

La si vide venire da San Casciano come un gran velario disteso dal cielo davanti ai poggi da Mercatale e Cerbaia, guadagnante rapidissimamente terreno, nascondendo, uno dietro l’altro, i monti, i boschi, gli oliveti via via sempre più prossimi, finché stampò nella polvere l’impronta silenziosa di goccioloni grossi come soldi; poi, preceduta da un tuono lungo, che parve rimbalzare su tutti i tetti, si scaraventò sull’Impruneta con un sordo romore, mentre i ragazzi scappavano, rasente i muri, dentro gli usci o nelle stalle, e si vedevano le donne, coi grembiuli in capo, correre a rinserrarsi in casa, spingendosi avanti le galline, che starnazzavano.

Sotto questo diluvio, avendo superata l’erta del Cantagallo, calava da Gagnolo verso Quercione un veicolo strano, una specie di casotto di legno, poggiato su quattro ruote sbilenche, e che, col proprio peso, pigiando sulla carcassa d’un ciuco male in gambe lo spingeva a un passo inconsueto, il quale avrebbe finito per costringerlo a inginocchiarsi nella mota, se un uomo ispido e giallo, vestito d’una sudicia casentinese spelata, di sotto a cui spuntavano due gambe magre ballonzolanti in una maglia di colore indefinibile, tutta sbrendoli e rammendi, non l’avesse sorretto per la cavezza di corda, [32] picchiandolo disperatamente, nella pancia tumefatta, con certo suo bacchetto, per dargli animo e tenerlo su.

Il carrettone o casotto di legno doveva essere stato, in qualche epoca lontana, dipinto di rosso; aveva di dietro, a sinistra, una porta chiusa, alta da terra un buon metro, e un finestrino aperto, che gli davano l’aspetto curioso d’una faccia vista di profilo; sul tetto di lamiera, da cui l’acqua si rovesciava, piangendo, sulla strada, rimaneva l’avanzo d’un camino di ferro; sul davanti un pappagallo verdastro chiudeva gli occhi e arruffava le penne bagnate, rannicchiandosi sopra un trapezio, mentre due bertucce, legate a una piccola scala, si grattavano vicendevolmente con aria malcontenta.

Come eran giunti vicino a un portico, e il cancello era aperto, l’uomo vi tirò dentro per la briglia il ciuco e il casotto traballante; mise sé e la bestia e le robe al riparo da quegli scatarosci screanzati, che facevano una casa del diavolo su tutti i campi circostanti.

Al rumore delle ruote sull’ammattonato sconnesso un cane legato al muro, fra la paglia, abbaiò furiosamente, e le scimmie strillarono a perdifiato, mentre il pappagallo starnazzava; ma nemmeno una finestra s’aprì; l’uscio del portico rimase ermeticamente chiuso; i contadini, sorpresi dalla tempesta mentre erano tutti intenti al lavoro, dovevano [33] probabilmente essere rimasti rinserrati nei capanni sparsi qua e per i poderi.

Allora l’uomo tirò giù, contendendola alle scimmie, che s’attaccavano stridendo ai pioli, la scaletta, la montò, l’aprì, l’appoggiò alla porticina posteriore del cassone; salì su, aperse, tuffò la faccia aguzza di faina nel buio e nel lezzo di quell’antro immondo.

Da principio non vide nulla; mugolando apri uno sportello laterale, donde un soffio di pioggia e di luce grigia investirono una povera cosa sudicia e palpitante, disfatta, sul fondo di legno coperto di paglia e di stracci, una donna livida, cogli occhi sbarrati, la bava alla bocca, il petto sollevato da un respiro aspro, irregolare e fischiante.

Un enorme calore emanava da quel mucchio di miseria; un alito di puzza ardente, crassa, occupava sensibilmente l’angusto spazio; ma lo spruzzo di acqua fredda, che dal finestrino piombò sulla giacente, non ebbe virtù di riscuoterla, di provocare neppure un brivido di ribrezzo su quella pelle risecchita e arsa.

Ora l’uomo, appoggiandosi a una palla di legno dipinta di turchino con delle stelle gialle, incastrata fra due capre schiodate e una ciambella di cerchi fioriti di carta, si chinava sulla malata, trascinandosi carponi sulle ginocchia, ne spiava il respiro, la stringeva per le mani, chiamandola, tentandola in tutti i modi.

Poi si chetava, immobile, affannando, cogli sguardi fissi in quelle pupille disperatamente [34] sbarrate e vaneggianti, mentre non gli rispondevano che quel respiro fischiante, mozzo, insopportabile e i ritornelli, ora vicini ora lontani, dell’acqua fitta, regolati dal vento.

Allora scese, barcollando, la scaletta, cogli occhi senza lacrime, dilatati e fissi, colle mani che tremavano e tremavano; rinchiuse lo sportello e l’usciolo; ripiegò lo scalèo; lo ributtò con ira sorda accanto alle scimmie, che urlarono saltando; prese il ciuco per la cavezza; rifece il giro del portico col casotto tentennante; imboccò il cancello, badando di non urtare il mozzo alle colonne; si ricacciò sotto il diluvio, sempre più curvo, sempre più tristo; riprese a trascinarsi dietro la soma grottesca dei suoi mali, scrutando disperatamente, tra il ballonzolare degl’innumerevoli fili d’argento che senza posa, dal cielo, si dipanavano davanti alla sua povera vista abbacinata, se di mezzo al verde opaco dei campi e dei boschi biancheggiassero le case del paese, si profilasse, finalmente, la sagoma del campanile!

Andò avanti così per qualche ventina di metri, flagellato dallo scirocco, accecato dalla pioggia, sdrucciolando sulla mota liscia e crassa; ma la furia dell’uragano rinforzava, l’acqua raffittiva, il vento, fischiando con rabbia fra gli olivi, che arruffava e sbatacchiava sinistramente, pareva schernire quegli sforzi inutili e faticosi; una serie continua ininterrotta di lampi abbarbaglianti s’incrociò nel cielo, illuminando il sentiero luccicante come [35] uno specchio, dove si rovesciavano le sagome degli alberi agitati; uno schianto secco, un fragore altissimo fecero fermare il ciuco, a un tratto, cogli orecchi bassi, il pelo irto, che gocciolava; le scimmie smisero di stridere e di grattarsi, tremando come foglie; il pappagallo agitò l’ali nei conati folli di rompere la catena; poi tornò il buio, un buio trasparente di cenere, opaco, torvo, spaventevole, mentre il silenzio pareva ripiombar sulle cose con un ultimo scroscio.

Allora l’uomo si gettò sull’asino, con tutto il proprio peso, strascicò la bestia e il carrettone fino a una cappella rossa, con un piccolo chiostro davanti, accanto a una quercia gigantesca dalle cento braccia possenti, che porgevano da mille rami festoni di foglie sparpagliati per aria, sì che, sotto, il terreno era quasi asciutto; vi spinse, vicino, il ciuco; lo fece accostare al tronco immane; poi buttò via la frusta, e, colle mani nei capelli, chiamò, chiamò a lungo, con grida folli, con frasi senza senso.

L’acqua soltanto rispondeva, scrosciando nei campi e tamburellando sul fogliame della querciona; le scimmie, rinfrancate, imitavano, con le mani schifosamente rosee, cacciate dietro i crani appuntiti, il gesto desolato del padrone; il pappagallo chiedeva con voce monotona e chioccia: «Biscotto! biscotto

Il saltimbanco strappò la scaletta, s’appoggiò all’usciolo, lo spalancò, salì su, tornò a spiare le [36] labbra verdi, gli occhi sbarrati, il petto ansante della giacente.

Non s’udiva quasi più il fischio della sua gola.

Singhiozzando, pregando, cercò da per tutto qualche cosa, e trovò una bottiglia, semi vuota, puzzolenta di rumme e di spirito; l’accostò alle labbra livide, tentò versarne due stille fra i denti stretti convulsamente, chiamando la sua donna per nome, maltrattandola anche, perché non rispondeva; ma i denti non si disserrarono, ma le labbra livide non risposero, e il liquore gocciolò lungo il mento aguzzo con una bollicina di bava verdastra.

Il rantolo ricominciò; lo sterno si alzava e si abbassava come uno stantuffo; le mani annaspavano nell’oscurità; poi si portarono verso la gola, chiedendo aria, aria...; afferrarono, nella convulsione spasmodica, il lembo d’un costume da pagliaccio, che penzolava da un chiodo; il vestito cadde, coprendo quel corpo coi suoi colori sfacciati, avviluppandolo come in una bandiera indegna.

Il tremito della moribonda scoteva tutto l’enorme cassone, pericolante sulle sale malferme, da cima a fondo; le scimmie ridevano, tossicchiavano, litigandosi; il pappagallo chiedeva: «Biscotto!»,

Per mezz’ora durò l’orribile scena; poi il rantolo andò affievolendosi in un con la pioggia, che diminuiva di fuori; già non si udiva più che il ticchettar monotono delle gocciole dalla tettoia di lamiera sconnessa, quando un raggio di sole, forzando le nuvole, accese ogni cosa d’un miracolo di [37] luce, e dal finestrino aperto scivolò lentamente nell’interno dello stambugio.

La moribonda volse lo sguardo a quel raggio; poi ciondolò il capo sul petto, di schianto, come se le avessero spezzato l’osso del collo; e non si mosse, mai più.

Il marito sdrucciolò giù per la scaletta, come un sacco, battendo la testa; e rimase inebetito, seduto in terra nella fanghiglia, cogli occhi vitrei fissi dinanzi a sé.

Il sole, trionfalmente, sbaragliò tutte le nuvole e percorse vittorioso i campi, i boschi, risuscitando ogni cosa, svelando il bianco delle case fra gli olivi, e i lembi d’azzurro limpido fra le nebbie cineree, che disfacevano in brandelli gli estremi soffi del vento.

Adagio, adagio, il saltimbanco si scosse; si tastò lo stomaco che ardeva; si strappò di dosso il pastrano, rimanendo con la sola maglia violetta; poi, per istinto, brancicando, trovò la pipa, se la cacciò in bocca, guardò intorno a sé e riabbassò la testa, come se la gran luce gli desse noia, gli facesse venire le vertigini.

Il ciuco, che aveva trovato un po’ d’erba umida, avanzò d’un passo, facendo traballare il cassone, dove il cadavere rimbalzò; poi, alzando le lunghe orecchie, ragliò di piacere.

Gli rispose un urlare, un vocio confuso, un tintinnio di voci argentine, come un fracasso di vetri rotti; e la frotta implacabile dei ragazzi, ebbra del sereno, richiamata dal raglio, esaltandosi alla vista [38] delle scimmie, del pappagallo, del carrozzone, sbucò sulla strada in una corsa veloce, fantastica, circuì la carretta, urlando:

— I forzaioli!, i forzaioli!, i forzaioli! —

Il saltimbanco in piedi, allibito, tremante nella sua maglia scucita, faceva cenno, cogli occhi piangenti, con le mani tremanti, che tacessero.

Ma i monelli, diventati come pazzi dalla gioia a quella vista grottesca, fra gli strilli delle scimmie, le apostrofi del pappagallo e i ragli del somaro, s’eran presi tutti per mano, e, urlando in coro:

 

E giro giro tondo

un pane e un pan tondo,

un fascio di viole

le do a chi ne vole...

 

giravano vertiginosamente da un lato all’altro della capanna ambulante, senza saper di ballare intorno a un carro funebre.


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