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Alla punta estrema del paese di San Casciano in Val di Pesa, un colle amenissimo circondato da uno scenario di montagne superbe e punteggiato di ville splendide, là proprio dove le ultime case finiscono, e comincia a snodarsi la ripida via maestra ferrata da una linea di tranvai, c’è un caffè piccino, piccino, ma sempre affollato di gente che parte e di gente che arriva.
Costì, in un bel pomeriggio, mi pare di settembre, il signor Aurelio Frattigiani sostò un momento, invitato da alcuni amici a sorbire una bibita, prima di montare sul carrozzone che stava per partire.
Appena lo videro, gli rivolsero la solita domanda che gli facevano ormai da vent’anni:
— Nulla di nuovo?
— Nulla di nuovo, pur troppo. —
Il sor Oreste atteggiò il viso alla più gran compunzione, alzò gli occhi al cielo con atteggiamento [49] ieratico, e mormorò un «chi sa!», che voleva dire un mondo di cose sibilline.
Per un momento un gran silenzio regnò nella botteguccia; si sentiva distintamente il ronzio d’un moscone, che alla fine andò a sbattere, rabbioso, nei vetri.
— Badate, — disse il sor Oreste — la Russia è grande!
— Lo so, e per questo ho perduto la speranza ormai di rivedere il mio povero fratello. —
Sonò la campanella del tranvai; il signor Aurelio bevve in fretta, si congedò, e salì in vettura; contemporaneamente un altro carrozzone infilava il binario doppio, e si fermava, mentre il convoglio partente scompariva alla svolta, con un cigolio di freni tremendo.
Gli avventori si fecero sulla porta del caffeuccio; alle finestre comparve qualche testa fra due vasi di basilico; un monello sgambettò, cantando.
Dal tranvai scesero quattro persone solamente, lasciando delusi gli spettatori, per i quali gli arrivi e le partenze costituivano il lecito ed economico divertimento della giornata: un frate, una contadina, con un ragazzo e un fagotto, più grande del ragazzo, e la guardia comunale.
Gli altri sviottolarono alla svelta; la guardia, invece, si toccò la visiera del berretto, e, avvicinandosi al sor Oreste, gli disse con voce concitata:
— State attento, e sappiatemi dire che mistero è questo... —
[50] L’interpellato, alla parola ‘mistero’, diventò di porpora, rientrò tutto in se stesso con una scossa, assunse un aspetto grave, e mormorò col tremito nella voce:
— Guardate quello che scende ora; guardatelo bene, mi raccomando, e ditemi se vi riesce faccia nuova. A me, francamente, no! Eh! credete, io sarei stato un gran delegato; ormai è tardi, ho sbagliato carriera... —
Ma già il sor Oreste non ascoltava più; si era avvicinato con precauzione al tranvai, fingendo di non riuscire ad accendere un sigaro che tirava invece meravigliosamente, scrutando di sottecchi un vecchio alto, un po’ curvo, che, con fatica, aveva messo piede a terra e si guardava d’intorno, reggendosi a un bastone.
Il sor Oreste si fermò, colle pupille dilatate, l’arco del pensiero teso, fino a spezzarsi; ora il vecchio si era mosso, e si avviava pian piano verso il caffè.
— Lasciamolo entrare! — suggerì la guardia.
— Sì! Lasciamolo entrare... — rispose il sor Oreste — dopo... — e dette alle sue parole un indefinibile tono di doppi sensi nascosti — dopo... entreremo anche noi!
Il vecchio si mise a sedere a un tavolino, e ordinò una gassosa. Nessuno batteva palpebra; il momento era solenne; si sentiva benissimo il solito moscone, che si disperava contro i vetri.
[51] Il sor Oreste si dimenò sul panchetto, tossì, si soffiò il naso; poi, non potendone proprio più, si accostò al tavolino dello sconosciuto, dicendo:
— Permettete?
— Fate pure! — quello rispose.
La guardia alzò la testa, e i suoi occhi s’incrociarono con quelli d’Oreste, che, preso il suo coraggio a due mani, diceva con aria indifferente al vecchio sconosciuto:
— Voi siete del paese?
Che momento fu quello! Il sor Oreste, quando se lo ricorda, trema ancora.
— Eppure — replicò l’interpellato — mi son toscano!
— Toscano, toscano:... all’accento non parrebbe...
— Eh, signor mio, se sapeste quanto ho viaggiato! Non lo so neppur mi che lingua parlo, perché le parlo, se pol dir, tutte.
— È di molto, dunque, che mancate di Toscana?
— Lo lascio imaginare a voi! —
Si chetò, e bevve un sorso di gassosa. Ora il proprietario del caffeuccio, gli avventori, la guardia, il sor Oreste non discorrevano più che con gli occhi. Era un incrociarsi continuo di sguardi espressivi in un’atmosfera satura d’ansia addirittura ineffabile.
Il sor Oreste raccolse tutte le proprie idee, scosse la cenere del sigaro, e seguitò coraggiosamente:
[52] — Deve fare effetto rivedere, dopo tanto, i propri posti, i posti dove uno ha abitato, dove uno, per esempio, è nato... —
Lo sconosciuto, con la testa chinata sul petto, non rispondeva; e tutti tacquero, rispettando quel raccoglimento doloroso; ma non così il sor Oreste, che, pavoneggiandosi, deciso a veder la fine della faccenda, seguitava:
— Eppure, vedete, non abbiatevene a male, ma voi non mi siete viso nuovo! —
Il vecchio alzò il capo, lo riabbassò; la guardia si torceva i mustacchi grigi, dando nel gomito al sor Oreste; tutti i cuori battevano col medesimo ritmo.
— Non mi siete viso nuovo, proprio; e me, vi pare d’avermi visto mai? —
La botta era andata! La guardia, dalla passione, non poté più stare a sedere; si levò su; si appuntellò coi pugni al tavolino, curva sul nuovo venuto; e, dietro, tutti quelli altri, accatastati, che pareva lo volessero soffocare.
— Francamente, — rispose il forestiero — a me pare che ci siamo incontrati, ma chi lo sa quanto tempo fa; forse... si era giovinetti tutti e due... —
Il sor Oreste, che non ne poteva più, si decise, e:
— Ditemi la verità! A me lo potete dire... sono Oreste. Venite dalla Russia? —
[53] L’interpellato guardò in faccia il sor Oreste, e, dopo una lunga pausa, disse con molta semplicità:
— Ebbene? se venissi dalla Russia? cosa ci sarebbe di straordinario?
— Viene dalla Russia! — esclamarono tutti, urlando come belve ferite — viene dalla Russia!!!
— Ma allora voi...
— Dite! raccontate!
— Voi, — gridò Oreste, dominando il tumulto con la sua voce stentorea — se venite dalla Russia, dovete averci conosciuto un certo Antonio Frattigiani! Pensateci bene! Avrà, ora, l’età vostra, press’a poco; è toscano come voi, e anche — e calcolò bene le parole — vi somiglia molto! —
Il vecchio era visibilmente commosso: bevve ancora, poi accennò di sì, finalmente sciolse la lingua:
— Se l’ho conosciuto? Ma siamo amici... come fratelli!
— Allora vi avrà parlato di noi? di suo fratello Aurelio, ve ne parlava mai? e di quell’altro, d’Agenore? Ha preso moglie, sapete? La Gina morì, invece; morì subito dopo che fu partito; son vent’anni che Aurelio è vedovo. E di me se n’è ricordato mai? d’Orestino! Si giocava a palla insieme! E di Cecco, qui, la nostra guardia, e del Sermini, e di Pilletta? Ma cosa n’è stato? quando tornerà? Voi lo dovete sapere, voi lo sapete... —
Il vecchio, con la testa appoggiata al muro, [54] cogli occhi semichiusi, ripeteva, come macchinalmente, fra sé:
— Agenore, Aurelio, la Gina, Cecco... Orestino, Orestino! — E i singhiozzi gli sollevavano il petto.
— Orestino! — e alzò la testa, e aprì gli occhi — Orestino, ma non mi riconosci più, dunque? — E si levò in piedi teatralmente, le braccia aperte, gli occhi lucenti di pianto, la barba che gli tremava.
— Son io; sono Antonio! Qui sul mio petto! —
S’abbracciarono, di sopra al tavolino, rovesciando la bottiglia della gassosa. Si sentiva, fra i singulti, Oreste ripetere:
— L’avevo detto io!? l’avevo detto io!? —
Il caffettiere si asciugava gli occhi col tovagliolo; gli altri ripetevano in coro:
Non sapevano dir altro; la guardia si masticava con energia la punta d’un baffo, mormorando:
— Ma che delegato, ma che delegato, eh? —
Calmate l’espansioni, si misero tutti a sedere.
Il sor Oreste era divenuto un fiume d’eloquenza. Si sarebbe incaricato di tutto, lui. Sarebbe andato a preparare la famiglia con le dovute cautele, perché c’era da far pigliare un colpo a qualcheduno. Avrebbe subito telefonato ad Aurelio, a Firenze, dal Paoli, perché venisse via col tranvai delle [55] due. Chissà Agenore e sua moglie! Ah, già, Antonio non la conosceva. Avrebbe visto che bella sposa, ancora. Stavano sempre laggiù nel solito villino isolato, fuor delle mura, con lo stesso orto... nulla era cambiato; soltanto il fico, quel bel fico dottato, non c’era più.
La notizia del fico parve rattristare notevolmente Antonio; si ricordò delle scorpacciate, delle scappatelle, delle gridate del babbo buon’anima; ma, già, quel benedetto fico aveva durato anche troppo; non poteva fare a meno di cascare; nonostante, gli dispiaceva, proprio, gli dispiaceva.
Poi si mise a raccontare dei viaggi e delle ricchezze accumulate; avrebbero visto! casse e casse di roba! Le aspettava di giorno in giorno; le aveva fatte spedire col piroscafo...
— Col piroscafo? O non avete detto?...
— Sì, perché, proprio dalla Russia, direttamente, non vengo; ho fatto un giro; insomma, ho finito per imbarcarmi in America; ora non ve lo posso spiegare.
— Già, noi non ci se n’intende!
— Bisogna aver viaggiato! —
Intanto una folla immensa s’accalcava davanti al caffè; un ragazzo aveva propalato la notizia per tutto il paese.
— È tornato il sor Antonio! — Dov’è? — Eccolo lì, nel caffè. — Lì dentro? — Sì. — Non lo vedi, col sor Oreste? — Quello? — Qual è? — L’ho visto! — È invecchiato. — È proprio lui. — [56] È un po’ cambiato. — Ma ha gli stessi occhi. — Il medesimo viso. — Ma è possibile, azzardò uno, che sia cresciuto? —
Non l’avesse mai detto! L’ebbero a subissar d’improperi.
Come in trionfo, il redivivo fu portato fuori le mura, al villino solitario dei Frattigiani. Il sor Agenore era sul cancello, pallido come un morto.
Appena il corteggio, tumultuando, sboccò sulla strada, gli corse incontro, senza riuscire a veder nulla in quell’abballottio, gridando con voce strangolata:
— È lui! è lui! —
Finalmente Antonio si liberò della gente; la mano robusta del sor Oreste lo spinse innanzi, lo mandò quasi a ruzzolare fra le braccia aperte del fratello.
Ci fu un lungo silenzio, nel quale si sentivano soltanto dei singhiozzi; finalmente la moglie d’Agenore esclamò:
— Ma cosa dicevano che era il più basso di tutti?
— Eh! — sentenziò una comare — il tempo fa di questi scherzi, cara voi!
— O che fa crescere anche i vecchi? — ribatté la solita voce.
— Non dico questo, ma ci si ricorda delle fattezze, ci si può scordare anche delle stature! —
[57] Frattanto, Antonio si era precipitato nel giardino, esclamando con voce fioca:
«Tale e quale! tale e quale!» e cercava intorno, con gli occhi rossi dalla commozione.
— Eccolo qui, — urlò il sor Oreste — battendo sur un pezzo di muricciolo scalcinato — eccolo qui, dov’era; ve ne ricordate? —
Antonio parve fosse lì lì per cadere.
Si ributtò al collo del fratello, gemendo:
— Il nostro fico, Agenore; te ne ricordi?
— Si ricorda del fico! — balbettò Agenore, singhiozzando più forte; e nella folla corse un frèmito d’ammirazione e di pietà. Tutti ripetevano piano piano fra loro:
— Si è ricordato del fico! — Ha riconosciuto il posto! — È corso subito lì. — Povero sor Antonio! —
Entrarono in casa, si ristorarono con del vin santo, con de’ biscottini, con del caffè. Adagio adagio la gente sfollò.
I ragazzi avevano fatto amicizia col nuovo venuto; gli saltavano sulle ginocchia; lo chiamavano zio; e lui prometteva loro mille cose; avrebbero visto, quando sarebbero arrivate le casse! Ci aveva messo dentro tante rarità: ninnoli, frecce, dei revolvers magnifici, e, per la cognata, delle penne, vere, di struzzo!
— Questa è la volta — esclamò la moglie del sor Agenore, tutta commossa a tale notizia — che [58] quella spocchiosa della ‘dottora’ schianta addirittura dalla bile! —
È inutile raccontare quel che accadde, quando, dopo poche ore, arrivò da Firenze il sor Aurelio, con un pacchetto di pasticcini comprati apposta. Certe scene di dolci intimità familiari si somigliano tutte, ed è ozioso ripetersi. Antonio non si scordò di nessuno, e versò la sua brava lacrima anche per la povera Gina.
Allorché l’orologio a cuccù del salotto suonò la mezzanotte, erano tutti ancora lì, intorno alla tavola, estatici, a sentire certi racconti che parevano romanzi. E di quando l’arrestarono in Russia e lo tennero un anno in carcere per ‘nikilista’; e di quando, in America, aveva fatto il mercante di bovi; e degl’Indiani selvaggi; e delle cacce al leone, al leopardo, alla tigre... si anche alla tigre. Del resto, in quelle benedette casse ci aveva le pelli delle belve ammazzate da lui, e avrebbero visto che bellezza!
Il sor Oreste si congedò a malincuore; e per la strada pensava che bisognava organizzare dei festeggiamenti, invitarci il sindaco ed escludere i consiglieri di parte avversa; che lui, proprio lui, avrebbe fatto un bel discorso; e gli pareva d’esserci, e ci si provava con la chiave in mano, declamando davanti all’uscio di casa: «Signore e signori!...»
[59] Dio buono! Che momenti indimenticabili nella vita d’un uomo! E dire che tutto questo sogno crollò, come un castello di carte...
* * *
Quando, alcuni giorni dopo, il sor Oreste entrò nella caserma dei carabinieri, dove il maresciallo l’aveva fatto chiamare, e ci trovò anche i Frattigiani, e si sentì dire da loro: «Ma cosa ci avete fatto fare? Quello non è nostro fratello!» il sangue fece un tuffo, tutta la sua coscienza d’uomo si ribellò.
— Piglio la responsabilità io! — urlò, con una mano sul cuore e cogli occhi fuori di testa.
— Ma non pigliate nulla, per carità! — interruppe il maresciallo. — Voi e anche questi signori siete vittime d’un’allucinazione; vi siete suggestionati... O non vi siete accorti che è più alto dieci centimetri del Frattigiani scomparso; o non sentite che parla veneziano?
— Scusate, prima d’asserire — ribatté il sor Oreste — bisognerebbe aver viaggiato...
— Ma che viaggiato! Quello ha viaggiato soltanto... a spese dello Stato! Ecco qui le carte, la fotografia, i rapporti dei vari penitenziari... È un truffatore pericolosissimo! Insomma, ora l’ho in custodia io; e, non dubitate, lo tratterò come si merita. —
Uscirono mogi mogi. La gente li guardava e rideva; qualcheduno anche, poco persuaso, [60] sussurrava che i due fratelli l’avevan fatto apposta per non dare la sua parte al terzo; e discorrevano di già d’andar a tirar le sassate nei vetri del villino!
La guardia comunale s’avvicinò al sor Oreste, e gli disse in un orecchio:
— L’avevo detto io che era un mistero! Ma che delegato, eh?
— Fatemi il piacere! — urlò Oreste, stizzito davvero — voi mandate in galera un innocente; ma la dirò io la verità all’udienza... O come poteva fare, se non era lui, a ricordarsi del fico? —
[61]