Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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Stellino

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Stellino

 

 

Domani è il venti d’agosto! Venti d’agosto...”

La frase magica mi frullava per il cervello, mi scendeva sulla bocca; e le labbra adagio adagio, finivano per iscandirla, accordandola al passo duro del povero Bistecca, che dopo un anno preciso ero tornato a noleggiare per arrampicarmi fino alla casa di Beppe, su in cima al monte.

Venti-da-go-stò... venti-da-go-stò...” e tran tra, tran tra, su per l’erta, rinsaccandomi sulla sella dura, tastando il fucile davanti all’arcione, che non cascasse di sotto; il suono degli zoccoli sul galestro del viottolo di montagna m’accompagnava e mi cullava in quella mia ascesa verso il sereno e la libertà; perché il venti d’agosto rappresenta quel giorno consacrato e... divino il quale non ha [97] che due soli giorni nella vita che lo equivalgono: quello in cui uno ottiene la laurea o l’impiego, dopo molti anni d’attesa; e quello in cui uno butta via lo zaino e il fucile e si mette l’uniforme di tela e il berretto per ritornare a casa: il venti d’agosto significa l’indipendenza sconfinata, la dimenticanza assoluta, la suprema di tutte le felicità della terra!

Ecco la cappella de’ boschi, ecco il castagno sventrato, ecco la prata, dove le lodole scintillano a centinaia, cantando a prova il loro tirulo trio, ecco la torre diroccata, ecco la palina verde, il pagliaio giallo... ecco finalmente, la casa di Beppe!

Tirai le redini, fermai il cavallo, e, respirando a pieni polmoni, detti un’occhiata all’ingiro, ai monti del Valdarno, dove il sole cadente suscitava riflessi di porpora e profonde ombre violette.

Ah, se Dio vuole ci sono! Ma come mai Stellino non mi corre incontro, abbaiando? E i ragazzi?

Una folla di ricordi m’assaliva, insieme con un senso doloroso che non sapevo spiegarmi: era come il presentimento, che so io? d’una disgrazia accaduta o per accadere...

Smontai, con una mossa energica, quasi a scacciare la melanconia, di cui ora incolpavo la languidezza del crepuscolo... o dello stomaco, dopo quattr’ore di cavalcata; e, infilate le briglie nel braccio, presi a scendere adagio verso il casolare di Beppe.

[98] A metà del viottolo, mi fermai, e detti la voce:

— Beppeee!... O Beppeee!... —

Nessuna risposta: non un latrar di cane, non un belo di pecora, non un garrir di bambini: nulla. Ora, nella valletta dove mi trovavo, l’ombra, caduta rapidamente, cominciava a fondere le cose d’intorno, dando loro un’aria misteriosa, che contribuiva non poco ad aumentare il mio turbamento; sicché, dopo avere urlato e chiamato a perdigola, girai, traendomi dietro la bestia, il fianco della casa, e giunsi sull’aia, davanti all’uscio di cucina; ma l’uscio era chiuso. Allora, impensierito sul serio, attaccai il cavallo alla campanella d’un pilastro della loggia; poi mi diressi, scendendo il lieve declivio erboso che ricorreva sotto il muro dell’aia, alla volta delle stalle, chiamando sempre disperatamente:

— Beppeee! O Beppeee!... —

La notte ormai era scesa; sentivo le raganelle chiamarsi sommessamente e borbottare, nel piano: qualche grillo vicino si provava a lanciare un cri acuto, a cui un altro rispondeva, più basso, dal buio; io stavo, in orecchi, cogli occhi sbarrati sulle tenebre delle paline, sull’albeggiare nebuloso degli olivi tra la foschia silvana che li circondava, quando alla fine, come un’eco fievole, mi parve rispondesse una voce, e raddoppiai di lena:

— Beppeee! O Beppeeee! —

E la voce, come se zampillasse dall’invisibile, rispondeva:

— Chi èeee?... chi mi voleeeee?

[99] — Beppeeee!... Son iooooo!... sono il sor Ferdinandooo!...

— Vengooooo!... —

Poi fu silenzio di nuovo; e a me, accosciato sull’erba fresca, al margine del campo, i minuti parvero secoli.

Il concerto dei grilli e delle rane s’alzava pieno e vibrante da tutti i punti dell’orizzonte; le voci bianche tremule rispondevano alle voci squarciate e aspre sopra un unico tema diviso in due tempi, uno lungo, l’altro breve, che lo facevano apparire quando vicinissimo, quando perduto quasi nella immensità infinita — craaa... cra, criii... cri...; — e il corno rosso della luna spuntava obliquo dalla montagna, allorché il fantasma di Beppe con la pala in ispalla mi scaturì improvvisamente dinanzi e:

— Signorino! Oh, signorino, la gran disgrazia!...

E giù a piangere, come una vite tagliata.

— O che t’è successo? Ma già me l’ero figurato che era successo qualcosa...

— Ma grossa così? Oh grossa così non ve la potete figurare!

— Ma che t’è, forse, morta la donna?

— Peggio, signorino! Ma non lo vedete? non ci avete fatto ammirazione, ancora, che lui non c’è?...

— Lui, chi?

— Stellino, che Dio vi benedica! E io son qui per miracolo... Ma venite su, venite su... Credete a me: è un romanzo... Sta’! sentite? avete sentito? son loro... Bettaaa!... O Betta, vien su! C’è il sor [100] Ferdinando... Salutate, voialtri costì... E te, Cencio, porta Bistecca nella stalla; mettigli un po’ di crusca davanti e non gli dar bere... Ci avete un fiammifero, signorino? grazie... Guardate, guardate qui la Betta com’è ridotta... guardate come gli trema la mano a reggermi la lucerna... ma anch’io, credete, non so cosa mi fo... Vai! mi s’è spenta! ce l’avete un altro zolfino? O dunque statemi a sentire... Dove l’avete messo il fucile? leviamolo da quell’angolo, ché la Rosina non ci avesse a inciampare... datelo a me... attacchiamolo al gancio... è sicuro... Eccola qui, la Rosina, gua’! com’è cresciuta, eh? guardate che polsi, che gote... e che occhi! Insomma io, se son qui a ragionare con voi, lo devo a questa creatura... ma intanto mangiate e bevete, e state a sentir me che discorro... ecco, Cencio; diglielo te: è un miracolo che io sia qui con voialtri?

— È la Madonna dell’Impruneta — rispose per Cencio la Betta — che ci ha fatto la grazia... Cotte poco o di molto, signorino, quest’ova?

— Poco... ma non tenetemi più sulle spine... dunque come è andata di Stellino?

— È andata che io vi aspettavo, voi, anche unguanno, come al solito, e dissi alla Betta: «Il sor Ferdinando è vago di ritornare a casa con [101] la lepre...» Si sa, passare per le strade, attraversare il paese con un bel leprone in carniera fa sempre piacere... e sicché la settimana scorsa detti l’aìre a Stellino, giù per i boschi dov’è libero a tutti, e non sentii neanche uno scagno.

»Ho capito, dissi: il venti, lo lascio andare dalla parte della bandita, poi lo fischio, al solito... ma intanto un par di animali li scova; e noi a uno, su alla cipressa, gli si fa la festa di certo.

»Invece Stellino (lo sapete com’era... la bramosia, la rabbia d’essere stato tanto a catena... insomma c’entrò) entrò in bandita, come sto dicendo; e non aveva finito di metterci i piedi, che... baiii! baiii! e poi il solito urlo: uah! e una canizza lunga che non finiva mai; e, su per il viottolo, a orecchi ritti, vidi venire un leprone, ma che leprone! un ciuchino... un cammello...: a quel modo non n’avevo mai viste! Signorino, ve lo giuro per quell’animale che in vita sua non mi dette mai un dispiacere: era tant’alta da terra, così.

»A me il sangue mi fece un tuffo; pensai subito a voi... Ma intanto Stellino ricacciava la lepre al piano, la riportava al monte, empiva d’urli tutta la conca de’ poggi... Nel mentre stavo attento, dall’abetina, dove andasse a finir quella giostra, ti vedo il guardia, che saliva su, lemme lemme.

»Vai, dissi dentro di me, ora ci siamo!

[102] »Invece quella volpe vien su diritto, mi saluta, si ferma e si mette a accender la pipa...

Scusate, — gli fo io, — abbiate pazienza, mi ha rotto il guinzaglio; non l’ho potuto più reggere...”

Richiamatelo, Beppe; — mi fa lui, calmo — richiamatelo, perché il padrone, se no, vo’ lo sapete, se la rifà con me... Anzi, guardate di non mi far entrare in bandita i cani da lepre, e io vi prometto di lasciarvi fare ogni tanto una girata nel bosco”.

»Cosa vuole? a sentirmi discorrere così mellifluo, rimasi imbecillito, cascai nella trappola pari pari come una talpa... E m’azzardai a domandare: “Se entrassi un po’ laggiù per riacchiapparlo?... Ha la fune rotta al collo; non vorrei mi si strangolasse a un querciolo... Lo lego, lo riporto a casa. E vi fo questo patto: io tengo il cane a catena, e non lo sciolgo altro che distante qualche chilometro dalla bandita; ma voi mi lasciate portare, all’apertura di caccia, un signore mio amico, insino al masso della Civetta!” Capirete, avevo pensato subito a lei.

Il guardia accetta; e io, via, come il vento; scavalco il filo di ferro, corro alla selva, e mi butto a strillare: «Stelliiiino, toh! toh! qui qui qui!... tih! Stelliiiino, tih!...» E fischi e boce e urli, che pareva il giorno del gastigo.

Non per vantazione, ma, per esser da lepre, dei cani obbedienti come Stellino non ne avrò più... La sera, quando ritornavo a casa, stracco e sudato, [103] lui mi correva incontro sull’aia, e , salti, corse di su e giù; e poi, con un lancio, m’appoggiava le zampe davanti, qui sullo stomaco, e cercava di leccarmi nel viso... e io: “Giù, Stellino! bono, Stellino! Smettila, Stellino!” ma gli era lo stesso che dire al muro, finché non aveva fatto quel che voleva. La domenica, invece, quando tornavo dalla Messa con quel po’ di vestituccio marrone, veniva di carriera a incontrarmi; ma appena gli gridavo: “Stai fermo, sai che ho i panni boni...” — s’acquattava tutto, scopriva i denti, da parere volesse mordere (ma invece lo faceva dalla contentezza; era il suo modo di ridere); poi principiava a mugolare, piangeva... capite? piangeva come un ragazzo; si strascicava un po’, restava a guardar me col dito ritto che gli dicevo: “bada, sai!” Alzava gli occhi, quegli occhi rossi tutti lacrimosi, e, adagino adagino, posava il muso in terra, con le quattro zampe allargate, tutto schiacciato a uso di lucertola, e rimaneva così... Allora io, a un tratto, abbassavo la mano, gli davo il ‘via!’ e lui, di galoppo serrato, schizzava in cucina, e aspettava, scodinzolando, che gli porgessi la pappa... Quello, signorino, non era un cane!» —

E Beppe s’asciugò un occhio col rovescio della mano; poi, senza darmi il tempo di finire un gesto che avevo abbozzato, né d’aprir bocca, continuò:

— Io dunque, mi spolmonai per mezz’ora buona, ma Stellino non si vedeva. Capirete che, se avessi sempre sentito la canizza, potevo immaginarmi che [104] il cane non si volesse staccare... ormai l’aveva infilata!... ma il male si è che la canizza non si sentiva più. Se fosse stato un cane che avesse avuto il vizio di straziar l’animale, avrei capito anche meglio, ma Stellino! Stellino, seppure l’aveva strozzata da sé, era capace di mettersi a far la guardia a una lepre per due, per tre, per dieci, per ventiquattr’ore! Figuratevi che una volta... ma è meglio che ritorni in carreggiata. Dunque, fischiai, fischiai, fischiai; e di Stellino... nemmeno l’odore! Allora mi prese una paura terribile, un presentimento... non lo so neppur io... e, a precipizio, mi detti a correre fra le scope, lungo i macchioni, dentro la palina... A un certo momento mi venne un’idea: che si senta male e sia andato all’acqua? E via, su per il borro de’ Cerri, fra tutti quegli ontani fitti, andavo come le saette; due o tre volte inciampai; da tutte le parti mi frullavano i merli d’intorno... chiò! chiò! chiò! chiò!... a bacìo a quel modo, capirete, era pieno; ma io non ci potevo badare; appena arrivo alla fonte del topo, proprio alla svoltata, dove c’è quel masso grande con la borraccina, ti veggo Stellino sdraiato sull’erba. Il sangue m’andò ne’ calcagni; e mi toccò a fermarmi per non cascare; ma appena mi riebbi, corsi laggiù e: “Stellino, cosa tu fai costì?”

»Stellino, sempre sdraiato di quarto, aprì un occhio (ve ne ricordate che occhi? quello, signorino, non era un cane!) aprì un occhio e mi guardò — campassi millanni non sarà mai possibile che me [105] ne scordi — mi guardò, e batté a fatica la punta della sua codina. Intorno al muso ci aveva, rigirato tre volte, un filo di bava... Positivo, dicevo fra me e me, per via della gran corsa gli è schiantato il core. Ma, cos’è, cosa non è, Stellino si rizza a un tratto; si rizza sulle quattro zampe, coi peli sopra la schiena irti che parevano fili di ferro; spalanca gli occhi, li sguscia, e caccia fuori le pupille, sicché si vedeva tutto il bianco; poi fa un passo innanzi e mette un urlo... ma un urlo in quel modo, signorino, io non l’ho mai sentito e non ne sentirò più:... era come quando l’uomo, che Dio ne liberi, volta e comincia a farneticare... E tremavo peggio d’una vetta, provandomi a chiamare il cane: “Stellino toh! Stellino, vieni!” Ma Stellino alzava il muso, tremando tutto, e con la stummia alla bocca, rifaceva quell’urlo. Io, adagino, adagino, battendo i denti dal ribrezzo, m’arrampicai sopra il masso... Che fosse arrabbiato!?

»Passò un minuto, che mi parve un’eternità; poi Stellino si chinò verso la pozza, e si provò a bere... Soltanto allora m’accorsi che aveva la pancia come un barile, dalla grande acqua che aveva ingollato... Si provò a bere e non gli riesci; alzò la testa, da capo, per cercare di me, e m’avvidi che non mi trovava, brancolando di qua e di , picchiando il muso ne’ tronchi d’albero... Non ci vedeva, capite? non ci vedeva più.

[106] »Intesi ogni cosa, e mi battei la fronte. Vigliacco! Di certo il guardia aveva seminato le polpette col veleno, per i viottoli del bosco; e Stellino ne aveva abboccata una!

»Scesi dal masso, tolsi il cane sulle braccia, corsi verso casa, pazzo, disperato, fuori di me... Sull’aia ci si mise tutti d’intorno a Stellino sdraiato in terra, cogli occhi soccalati, le zampe distese, la bava che gli colava giù dalla bocca... Eppure, ogni tanto, si provava a batter la coda...: di quegli strazi!

»La Betta piangeva; i ragazzi volevan sapere cosa era successo; e il cane, ogni tanto, cacciava quell’urlo!...

»Allora, senza pensare a quel che dicevo dalla gran pena, dal gran tormento che provavo a sentirlo sberciare in quel modo, mi venne detto: “Sta’ zitto, !...” Oh, signorino, signorino!... E il cane non guaiolò più, capite? per paura di darci noia non fiatò più... Poi, piano, piano, si distese quanto era lungo, fece un gran balzo, ricascò di fianco, mi dette un’occhiata, di quelle che sapeva dar lui, l’ultima, e s’irrigidì.

»In quel momento, come se non ne sapesse nulla, calmo calmo, accendendo la pipa, comparve il guardia...

»Vederlo, saltargli addosso (capirete non se lo aspettava) e levargli lo schioppo di mano fu un punto solo.

»La Betta, i ragazzi, mi s’aggraticciarono addosso; ma io m’ero bell’e imbracciato... quando, [107] a un tratto, la Rosa, poverina, con la su’ voce di grillo, strillò tre volte: “Babbo! babbo! babbino!...”

»Allora scaricai tutt’e due le canne per l’aria, buttai il fucile per le terre, e rientrai in casa, come se fossi ammattito. Capite, che roba? E l’ho seppellito stasera, con queste mani, alla proda del campo, di faccia al cartello dove c’è scritto: ‘Bandita’. E sopra ci ho messo tre sassi, perché li veda bene chi li ha da vedere... E sapete perché l’ho seppellito in quel punto? Perché ci ho seminato il trifoglio, e, da ora in su, basta che ci sia un barlume di luce, voglio farci il balzello! Tutte le sere una lepre! E si comincerà da stanotte... Su! signorino, pigliate due cartucce, ma di quelle infallibili... Affacciatevi sull’uscio, fatemi il piacere...; guardate che luna!» —


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