Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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La morte della strega

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La morte della strega

 

 

M’ero sempre messo a ridere e a proverbiarli, quando mi avevano discorso di streghe e di stregonerie; ma, sentendoli arrivare trafelati a quel modo, di notte, alla mia casuccia, e ardire svegliarmi, bussando colpi indiavolati alla porta, pensai che qualcosa di più d’una semplice fantasia dovesse nascondersi negli strani racconti che mi avevan fatti da due giorni a quella parte, o che fosse successo un guaio grosso davvero.

D’altro canto riflettevo al pericolo che correva la vecchia Betta, incolpata di malia, e ripetevo a me stesso che m’incombeva il dovere di proteggerla da quegli esaltati.

Non sarebbe stata la prima volta, anche nella dolce Toscana, che i contadini o i boscaioli, ebbri di superstizione, avessero, per avventura, malmenata o anche uccisa qualche povera vecchia sospetta [164] di maleficio; e che un’esemplare condanna, troppo presto dimenticata, fosse discesa suglincoscienti colpevoli, piombando nella miseria le loro famiglie.

Per quanto mi trovassi da tre giorni soltanto in mezzo a quei boschi, tra gente ingenua e primitiva, avevo saputo amare e farmi amare; non esitai, dunque, neppure un secondo.

Balzato dal letto, apersi la finestra, gridando a quelli di sotto d’aspettare un momento, e principiai, febbrilmente, a vestirmi.

Non ebbi neppur bisogno d’accendere il lume. Dalla finestra entrava un chiaro di luna così limpido, che mai avevo visto il più bello, sì che in due battute fui pronto, e tornai ad affacciarmi per avvertire che sarei disceso.

— Pigliate il fucile! — gridò uno.

— Ma no!... — rimbeccava qualcun altro.

— Ma sì!

— Pigliatelo! Pigliatelo! —

Detti retta, come si fa sempre, alla ‘maggioranza’, mi posi lo schioppo a tracolla, e cominciai a scender cautamente la scala sbocconcellata, affibbiandomi sul ventre la cartuccera pesante.

— Eccomi; — dissi, ridendo — e armato fino a’ denti! Se, invece di spiriti, fossero persone... poveri loro!

— Voi scherzate, — interruppe Antonio, il vecchio capoccia, dalla bella testa rasata di romano antico — voi scherzate; ma badate!...

— A che cosa ho da badare? Sentiamo un po’...

[165] — Non tirategli; date retta a me; perché tirare allo spirito è pericoloso di molto...

— O che cosa può succedere? — domandai incuriosito...

— Può succedere che il fucile, invece di sparare, scoppi, e ammazzi voi: ecco!

— E non canzono! Ma allora si tratta di spiriti maligni?

— Eh, capirete... se girano di notte, del bene non ne fanno di certo. —

Frattanto si saliva, su per la via sassosa, scavata torno torno alla montagna, opaca di castagneti così folti, che, sotto il lume lunare, la facevano parere, in distanza, tutta fasciata da un morbido, cupo, mobilissimo velluto verdone.

I macigni, gli scheggioni, le quarziti, il galestruccio, sparsi qua e lungo l’aspro sentiero, davano sprazzi come di brillanti, in mezzo all’ombre interrotte che screziavano il suolo; il torrente rombava sordamente giù in basso, invisibile fra le due sponde alte del burrone a picco; e il cielo immenso, d’una chiarità pallida e fredda di nebbia luminosa che nascondeva le stelle, pareva ascoltasse stupito le voci della notte.

Le ‘Panche’, il luogo dove da due giorni appariva la strega, si alzarono, cumulo di muraglie nere e arcigne, avanzo d’un vecchio castello medioevale, in bilico sulle antichissime controscarpe [166] puntate sdegnosamente contro il fianco del monte, come una dimora abbandonata, sotto il lume della luna che vi batteva in pieno, formando di quel fabbricato, e di tutta la costa ripida che lo sopportava, un solo punto, in cui gli olivi, i muri di sostegno, le zolle, le arcate d’una loggia imbiancata e i vetri delle finestre mettevano una nota abbagliante di chiarezza, in mezzo al cupo e maestoso silenzio delle montagne crinite, che vigilavano intorno altissime, disuguali, impenetrabili, buie.

Alle svoltate della via, la visione pareva inabissarsi, e davanti a noi non erano che le tenebre dei castagneti e la sconfinata profondità del cielo; poi il gran colle rilucente riappariva quasi scaturisse dalla terra; e un effetto acustico, dovuto forse a’ miei nervi eccitabili, mi dava l’illusione che il torrente si chetasse quando il castello spariva, e, non appena si riaffacciava allo sguardo, ricominciasse a cantare.

Io salivo, innanzi a tutti, con quel passo svelto, naturale a chi è come incitato dal favore d’una meditazione interna; dietro di me era uno scalpiccio sordo e confuso, uno stridor di bullette su qualche sasso levigato, un rispettoso parlottare, seguito da qualche pausa di silenzio, che permetteva di distinguere il respiro ampio, un po’ affannoso, de’ petti capaci...

Dopo un quarto d’ora, la voce del torrente si era allontanata; e il cielo, avvicinato di molto. Stavamo per imboccare la gran viottola diritta, [167] chiusa da due alte muraglie verdi di paline fronzute, tutta quadrellata, per luci e ombre, di bianco e nero, come il pavimento d’una cattedrale, allorché un suono di voci concitate arrivò fino a noi, seguito dal rumore caratteristico d’una corsa, d’una fuga pazza, disordinata.

Ed ecco venirci incontro due contadini, senza cappello, senza scarpe; delle contadine discinte, col collo e le braccia nudi, gli occhi sbarrati, i gesti nervosi, le parole smozzicate sul labbro.

— È passata!

— È nel castagneto!

— Ci ammazza tutti!

— Questa volta l’ho vista bene!

— Vergine Santissima! —

Ci si fermò a domandare spiegazioni, mentre nuovi rumori e voci si levavano da tutte le parti, e da’ viottoli nascosti sotto lo spessore del frascame sbucavano, quasi per incanto, altri uomini, altre donne, altri ragazzi.

In poche parole fummo informati di quello che era avvenuto.

Tutti giuravano d’aver visto passare la strega, e precisamente, chi più su chi più giù, proprio dalla viottola detta delle Carbonaie, perché mena a quei cumuli di terra sotto la quale ardono lentamente, senza consumarsi, i tronchi del castagno destinati a trasformarsi in carbone; cumuli di terra disseminati un po’ da per tutto, nelle radure della boscaglia.

[168] E, fin qui, nulla di straordinario, perché ciascuno, pure passando da un punto diverso, poteva aver avuta negli occhi quella visione che evocava il suo cervello pauroso e frastornato di leggende; tanto più che il lume di luna è ottimo propagatore di chiaroscuri e conseguenti fantasmi, i quali, solo che un alito di brezza agiti una frasca, o un uccello, mutando posto, commova i cortinaggi della verzura, paiono, fugaci, trasvolare, sulla montagna addormentata, dall’una all’altra sponda d’un borro, dall’uno all’altro lato d’una via. In una parola, ombre!

Ma la cosa grave si era che tutti, proprio tutti, tanto quelli che venivano da destra, quanto quelli che venivano da sinistra, erano concordi nella precisa, identica, esatta descrizione dello stranissimo spettro.

Si trattava, in sostanza, d’una creatura orribile, immonda, grossa poco più d’una lepre, di fattezze umane, con in testa un cappuccio bianco, indosso un vestito mezzo chiaro e mezzo scuro (una specie di sottana tutta sbrendoli e tutta buchi), con in mano, non si capiva bene, o in bocca, uno strumento infernale che faceva un rumore di sonagli e di catene, e dotata d’una velocità addirittura portentosa!

Che cosa diavolo avrà potuto essere?

La mia intelligenza ci si smarriva, tanto più che non c’era chi non asserisse che la strega era seguita [169] da un’altra, sotto forma d’animale nero e peloso, di cui nessuno era riuscito a raccapezzare esattamente le forme; e tutti e due volavano con la velocità del vento, sfiorando le macchie, stroncando i rami dei quercioli giovani, come sollevati da una forza invisibile a due palmi d’altezza dal suolo.

Anche il vicario, che, levatosi dal letto al baccano, era corso già per il monte in fretta e furia, anche lui, rispondendo con grande cortesia al mio saluto, s’affrettò a confessarmi la sua perplessità.

Prima d’ogni cosa, badava a persuadere quei montanari rozzi e incaponiti che lasciassero bene avere la Betta, la quale, in questa faccenda, non c’entrava proprio per nulla e non poteva rispondere del caso che aveva fatto nascere qualche disgrazia, per l’appunto mentre la povera donna girellava per il borgo!

Quelli sentivano; ma negli occhi miti passavano dei lampi di ferocia insolita, dei bagliori di collera repressa; nello scrollare silenzioso delle teste era quasi dell’incredulità, mista a un desiderio acerbo di vendetta.

Intanto la paura, mitigata da quel sentirsi stretti insieme nel pericolo, faceva sbocciare sulle labbra dei vecchi i racconti; e una folla di larve, di fate, di stregoni, di capre, di nottoloni, e di megere, a cavallo della scopa tradizionale, pareva, animata dall’eloquenza ingenua, ma colorita, dei campagnuoli, [170] e dai loro gesti vivaci, sbucare dall’anfrattuosità del bosco, affacciarsi dai dirupi, dileguare nell’incommensurabile infinito.

In quel mentre, a un tratto, era apparso nel cielo un cirro, un di quei fiocchi di nuvola che non si sa donde vengano, come si formino, e che hanno virtù di richiamarne, dai recessi invisibili dello spazio, tanti e tanti, uno dietro l’altro, a frotte; era apparso simile alla prima stella improvvisa nel crepuscolo, e ora, tranquillo, s’avviava verso la luna.

In quel momento Tonio raccontava di quando una notte sentì remolare il vento dentro la cappa del camino, con una specie di vagito continuo di lattante disperato:

— Mi levai; mi posi in ascolto. Il castagneto s’era quetato un tratto, per ricominciare, di a poco, a torcersi, a sfrascare, quasi bruciasse! Io mi metto le scarpe, stacco lo schioppo dal muro, spalanco l’uscio e m’affaccio col fucile in pugno. E vedo, nel barlume, un’ombra nera che passa più veloce del vento, il quale, all’improvviso, ripiglia; e la casa, ecco, un crollo come la notte, ve ne ricordate? quando tutto il borro fu pieno di lampi, e gli olivi si piegarono, storcendosi e arruffandosi come i dannati nel quadro di chiesa. E l’ombra mi ripassa, fra due gemiti di tramontano, ratta, [171] rasentando terra. Io mi fo il segno di croce, m’imbraccio, stringo, e meno, così alla cieca... Indovinate? Da un’altra parte mi viene incontro la Betta col grembio pieno di rosmarino e di ruta; e la canna mi s’era aperta vicino a’ grilletti! Un po’ più in su che mi scoppiasse e ci rimettevo la faccia! Cos’è questa!? Ditelo voi, signor priore: è stregoneria o no?

— Codesta è una combinazione, caro Tonio; adoperate certi fucilacci!...

— E la Betta, cosa faceva ? a quell’ora a coglier l’erbe?

— Ma non glielo domandaste voi?

— Mi seppe rispondere che faceva l’impiastro per il figliuolo della Santa, ammalato di bachi! capite? a quell’ora!

— Sfido! Se la vedete coglier l’erbe di giorno, siete capaci di saltarle addosso come cani arrabbiati!

— E perché la Betta, qui con noi, ora non c’è? perché non è venuta?

— Perché ha paura di voialtri, ecco! —

Tonio scoteva la testa, poco persuaso. In quel momento il cirro vagabondo passò davanti alla luna: tutto il paesaggio circostante si velò d’ombra; contemporaneamente uno strucinio di rami e di foglie, una specie di furia pazza tra il fitto della palina, addiacciò tutti dallo spavento; e dal risvolto del [172] viottolo delle Carbonaie, dove questo, venendo dal dirupo sottostante, ripiglia al di del sentiero le sue giravolte capricciose verso la cima del castagneto, passarono come un baleno due cose indescrivibili, informi, una specie di bambola volante e risonante come un timballo, seguita da un batuffolo di pelo nero; e s’inabissarono nei misteri del bosco.

La luna, riaffacciandosi agli orli del cirro veloce, illuminò dei volti lividi, contratti, pietrificati.

Ma dentro di me, nel tumulto della sorpresa, si fece strada un lampo d’intuizione, e, prima che qualcuno m’avesse potuto dire una sola parola, mi ero slanciato col fucile in mano per la scorciatoia che porta a metà del bosco, a una infallibile posta della lepre, dove, le mille volte, avevo aspettato che la canizza mi ci respingesse, per il lungo viottolo delle Carbonaie, la preda.

Salivo in mezzo a fantastici intrichi di luci e d’ombre, tra una duplice fila di giovani tronchi lisci rilucenti sotto la luna, come traverso a’ corridori e agl’intercolonni d’un palazzo incantato; saltavo di sasso in sasso, sdrucciolando sulle foglie cadute, rialzandomi, affondando tal volta nel moticcio giallo, incespicando in qualche barba fradicia nel terreno umido; finalmente, dopo trenta secondi di corsa faticosa, vidi la grande carbonaia nera e come tempestata di gemme sotto il chiarore lunare, a’ piedi del vecchio ceppo di castagno sventrato e gocciolante: d’un balzo fui sul cumulo di carbone, che [173] stridé sotto i tacchi ferrati, col fucile che mi tremava nelle mani, per i palpiti affannosi del cuore.

Ed ecco la luna velarsi di nuovo (tutto il cielo veleggiava ormai di nuvolette errabonde); e dal sentieruolo della lepre, precisamente come la muta, sbucare i due strani esseri fuggenti dalle forme bizzarre.

Senza mirare, d’imbracciatura, diressi le canne contro il primo, che correva per l’erta con la velocità della vertigine, e che mi offriva un bersaglio biancastro.

Il colpo partì, enorme nel silenzio profondo della notte, moltiplicato da tutte le insenature della montagna.

E si rifece la luce.

Un gatto, un soriano stento, intignato, giaceva attraverso il viottolo, con la testa frantumata, insanguinando una berretta da bambino, che mani crudeli gli avevano stretto intorno al muso: quelle stesse mani, certamente, che gli avevano infilato un camiciolo da lattante e un sottanino da ragazzi, quelle stesse mani che gli avevano legato alla coda tre o quattro pezzetti di latta, provocando la furia, la fuga, il terrore della povera bestia.

Quanto al batuffolo di pelo nero, era scomparso. Discesi, tenendo tristamente per la coda il sudicio trofeo della mia caccia notturna; e lo gettai ai piedi di quella gente, mentre il prete esclamava, tutto contento:

— Capaci d’una birbonata simile, non conosco altri che il Marchesino...! —

[174] Ma Tonio scrollava il capo, e mi avvertiva che le streghe hanno facoltà di trasformarsi anche istantaneamente, e che lui ne aveva le prove, e che mi avrebbe fatto toccar con mano la verità.

E la verità gli parve luminosa, la mattina dopo, tanto che non potei più nemmeno azzardarmi a scherzar su certe cose; e mi parve che perfino il vicario cominciasse a tentennare...

Perché la Betta, fulminata da un colpo, press’a poco nell’ora in cui io uccisi il gatto mascherato, era stata trovata morta stecchita nel proprio letto!


[175]


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