Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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L’ultima caccia dell’aquila

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L’ultima caccia dell’aquila

 

 

Quando un nuvolo di rosa ricingeva ancora la fronte aspra di Poggio allo Spillo, e, di sotto, tutta la pianura gialliccia ardeva maravigliosamente, fino ai lontani confini delle Romagne, i boscaioli, che, lenti, dietro il passo uguale dell’asino, risalivano da Badia a Prataglia l’aspro sentiero del Monte Penna per volgere poi verso la foresta casentinese, si fermavano talvolta ad ammirare, facendo solecchio di una mano bruna alla fronte alzata verso il turchino abbagliante dei cieli.

Allora la grande aquila sbucava fuori da’ vapori trionfanti, come l’augello dantesco, e, ad ali tese, in larghe ruote, si librava lenta sull’abisso vertiginoso, interrogando coll’occhio telescopico i ciuffi d’erba, le macchie, le selve sottostanti, cercando dove e di che farebbe il suo pasto.

Un giorno essa scomparve, misteriosamente come era venuta; né mai più un’aquila maestosa come [176] quella solcò, gittando il suo grido di guerra, il cielo sacro contemplato da Dante.

Il racconto, saporito di leggenda, che, asciugandomi al gran fuoco d’abete, dopo una giornata di caccia, potei ricavare dalla viva voce d’un di quei taglialegna, è, press’a poco, questo.

Era stato un inverno terribile; il novilunio aveva illuminata la campagna, nascosta completamente sotto un’infinita coltre di neve, covando i germi delle messi sotto un’insolita parvenza di morte.

I rami degli abeti innumerevoli parvero allora braccia stanche d’una cappa troppo pesante; e i grandi alberi, digradanti in fila lungo il confine aspro e scosceso della foresta, furono simili a schiere di frati minori che vanno per via, simili ai dannati tardigradi sotto le “cappe rance”.

Sulle branche nevose la luna accendeva riflessi d’oro e d’argento; non un soffio di brezza commoveva il grande esercito dei giganti pietrificati dal gelo; forse nemmeno l’alba avrebbe saputo riscuoterli.

Lastre alte di lucido vetro s’erano accostate e baciate dalle due sponde dei fiumi, incatenando sotto la loro spera le correnti fragorose; anche l’“Archian rubestotaceva immobile sotto lo stesso incantesimo.

Intanto nelle profondità della selva le coppie de’ cervi sauri bramivano a lungo nel pallore [177] lunare, rimasticando qualche barba infracidita a fior del terreno; o sitivano presso li stagni, cercando di rompere a gran colpi di zoccolo l’abbagliante specchio del ghiaccio.

In quelle notti lunghe l’aquila dormiva, col fiero capo nascosto sotto un’ala enorme o abbandonato sul petto gonfio di penne, nell’incavatura di due rupi in bilico sull’abisso, appoggiate l’una all’altra come per miracolo; e fin lassù arrivavano, così alto era il silenzio, gli urli lamentosi e strani delle volpi e di qualche lupo affamato.

Venne la primavera, e i gioghi s’incoronarono di spettacolosi ammassi di nuvole; e in grembo a quelle scoppiarono folgori secche e abbaglianti; e raffiche impetuose di venti furibondi agitarono e sbatterono, per l’anfiteatro delle montagne e per i loro crinali commossi, fitti velari d’acqua, che si polverizzava sulle frasche, nascondendo ogni cosa.

I leprotti non uscivano più dai covi; le starne rimanevano nascoste nel cavo dei grandi alberi sventrati, fra mezzo le alte barbe stillanti; i presepi, i pollai eran chiusi; persino le rare coppie de’ mufloni nascondevano i piccoli nell’impenetrabilità della macchia.

L’aquila languiva.

Per quanto capace d’un digiuno di due, di tre settimane, troppo frequenti erano ormai i periodi nei quali il colossale nido, sospeso, come ho accennato, nel vuoto formato dalle due rocce ciclopiche, rimaneva sprovvisto; un nido simile a una [178] piccola aia, foggiato a guisa di soffitta, col piano di pertiche e bastoni lunghi sei piedi, incastrati fortemente contro le asprezze del macigno alle due estremità, traversato da rami pieghevoli, coperto da spessi strati di giunchi e di eriche pigiati forte dai poderosi artigli della femmina, che sopra vi covò i suoi tre formidabili nati; de’ quali uno uccise, perché troppo debole; un altro, perché troppo vorace, mancando ormai, per l’inclemenza del tempo, la consueta provvigione di carne puzzolenta e d’ossami onde si abbelliva il coviglio feroce, come la tenda d’un guerriero selvaggio si adorna de’ teschi dei nemici uccisi.

L’aquila maschio era grande e forte, se bene non raggiungesse le maestose proporzioni d’un’aquila reale; gli occhi aveva scintillanti e lionati; le unghie, taglienti come rasoi; aspro e spaventevole il grido, che pareva un lamento dell’infinito, a udirlo perdersi in quelle solitudini azzurre; il fiato, possente; le ali, vaste e nerborute.

Nimica d’ogni società, viveva con la femmina e l’aquilotto a tale distanza dalle sue consanguinee, quanto bastava perché lo spazio prescelto a regno fornisse loro da vivere; come il leone, ch’è re del deserto, sdegnava qualunque compagnia, risparmiando gli uccelli minori; solo puniva, col romper loro il cranio d’un sol colpo di becco, le gazze o le cornacchie che avessero osato, con un pettegolezzo da donnicciuole ciarlere, d’interrompere i suoi muti colloqui coi venti o col sole.

[179] Quando calava a predare, era terribile; nessuna folgore piombò più veloce sul piano; se vi trovò delle carcasse abbandonate, anche non del tutto scarnite, seppe rifiutarle; il superfluo de’ propri banchetti lasciò generosamente agli altri animali del bosco; fiera e sprezzante, maestosa e feroce, il suo arrivo era preceduto sempre dal silenzio improvviso che indica l’avvicinarsi della morte.

Oche biancastre; gru, ridicole in bilico sulle lunghe gambe, come monelli sui trampoli; lepri dal piè di velluto; candidi agnellini dall’occhio dolce, pieno di cose oscure, come quello de’ fanciulli; capretti saltellanti oltre lo sguardo vigile della madre impettita, dalle corna aguzze; rapide starne dal volo basso e fragoroso: piccoli mufloni dal cranio protuberante, che prometteva dovizia di corna capricciosamente contorte; tutti gli esemplari delle foreste immense che s’inerpicano per un raggio di venti chilometri attorno all’alpe casentinese erano stati eletti dall’occhio infallibile, seguiti dall’alto dei cieli, raggiunti a metà d’una corsa pazza o nell’asilo fitto dove s’erano rannicchiati tremando, ghermiti dagli otto formidabili uncini, sollevati a fatica da terra, feriti, poi deposti ancora al suolo, fatti oggetto a nuovi colpi di becco, infine sollevati nell’aria in ruote larghe, sempre più celeri, finché l’atmosfera azzurra li circonfondesse e il freddo dello spazio li irrigidisse, mentre agli occhi moribondi sfuggivano l’oro, il verde, le armonie della terra.

[180] Quanto tempo era trascorso da che l’ultimo capretto aveva oltrepassato la soglia del nido funesto, e la femmina, dopo d’aver saziato l’aquilotto, che già si provava al volo, s’era divorati gl’intestini della vittima, reggendoli forte cogli artigli puntati contro il letto d’eriche e di giunchi, quasi divorasse dei serpenti vivi? Tanto, tanto tempo era passato; e ora la madre e il figlio guardavano, dall’orlo della loro piattaforma aerea, al piano velato di tempesta e circonfuso di nebbie fonde, dalle quali spuntavano i tetti lontani, piccoli punti rossi tra il verde, impennacchiati eternamente di fumo, segno certo che gli uomini e gli animali stavano chiusi dentro a quelle trappole impenetrabili ch’essi chiamano case.

E l’aquila maschio, tornando fradicia e digiuna al suo nido, ricordava, ricontando i lunghi anni trascorsi e che l’avevano fatta incanutire, come altra volta fu costretta ad assalire il cerbiatto per dissetarsi, e come le belve ne trassero terribile vendetta.

Tutti gli animali del bosco si dettero la voce; negarono all’aquila il consueto diritto di caccia; avvertirono la selvaggina giovine del pericolo che le sovrastava; le insegnarono a difendersi, la protessero in tutti i modi; anche i vecchi cervi, grossi come cavalli, contesero la sua preda all’aquila, a gran colpi di corna; la turbarono, dopo la strage, impedendole di bevere il sangue delle vittime, unico refrigerio alla sua sete; non appena ella si mostrava sopra il velluto mobile della foresta, tutte le piante, [181] tutte le macchie, ogni ramo, ogni foglia, avevano una voce, un grido d’avviso.

Ma la femmina, attanagliate le viscere acerrime dalla fame acuta, si esaltò finalmente a quei racconti di caccia e di battaglia, e, arrotando furibonda il becco ricurvo sul masso umido di pioggia, rizzava il ciuffo della testa piatta, s’irrigidiva sulle enormi gambe inflessibili, e gonfiava aspramente le penne bruno-rossastre del petto. Finché una sera, mentre l’acqua era stata un poco dal rovesciarsi soffiando e scrosciando sulla terra fumida, e il sole minacciava di calare rapido dietro a giganteschi baluardi di nuvole bigie, che parevano rovinare e risorgere sovrapponendosi continuamente nei cieli, la madre, dato uno sguardo all’aquilotto, che boccheggiava ad ali aperte in mezzo al nido, si precipitò nell’abisso, cacciando per tre volte lamentevoli urli, che parvero ferire i vapori densi e mutevoli, nei quali il grande uccello come una freccia sparì.

E subito il maschio, rispondendo con altri urli che parvero squilli guerrieri, sembrò quasi seguire la traccia aperta nelle nebbie sfioccate, di cui i lembi tremolavano al vento della notte, e che si richiusero bentosto su di lui, lasciando solo davanti agli occhi del piccolo, che s’era trascinato fino all’orlo della roccia, col capo troppo pesante ciondoloni all’ingiù, un gran mare mutevole d’azzurro, che diventava sempre più cupo.

Frattanto le due rapaci s’erano riunite sotto la volta di nubi, nel cielo libero, a poca distanza l’una [182] dall’altra roteando, cogli occhi smisuratamente dilatati, gli artigli rattratti contro i ventri poderosi, cacciando spaventevoli strida.

Poco importava loro che tutta la boscaglia sapesse che avevano fame; eran discese, spinte dalla disperazione, unicamente per predare, ed eran pronte anche a battersi, pure di poter sentire, dopo tanto, il sapore caldo e dolciastro di sangue nel becco inaridito.

Era ormai questione unicamente di vita o di morte. La sete, più che la fame, dava loro tutte le audacie; e l’aquila non può bere che sangue.

Ed ecco, la femmina, per la prima, adocchiò un cerbiatto, un delicato cerbiatto con la bocca odorosa di tiepido latte, dalle carni tenere e liscie come quelle d’un fanciullo, dal manto roseo, col petto carnicino; lo adocchiò, e, cacciando un ultimo urlo di richiamo al compagno e di bramosia insieme, si scagliò obliquamente verso una radura, incontro alla quale la vittima si moveva traballando e chiamando la madre, momentaneamente lontana.

In alto, ferma sull’ali, l’aquila maschio, lanciando a dritta e a sinistra occhiate trionfanti, sorvegliava quel lembo di foresta completamente deserto, dove si sarebbe compiuta la strage.

Ma ecco levarsi dal basso un sibilo acutissimo, e una minuscola serpe agitarsi minacciando, sfidar, tracotante, la mole enorme dei reali dell’aria, che alternavano tenebre e luce sul terreno, simili a ombre di nuvole.

[183] Una vipera, una ignuda e grama vipera, eretta fra due scope sulla coda piegata a ciambella, cogli occhi stralunati fuor della testa piatta, con la lingua bifida vibrante in tutti i sensi, gettava furibonda l’avviso di pericolo agli altri animali mal desti.

Il trascurabile rettile strisciante a fior di terra fischiò, fischiò, fischiò, risvegliando tutti gli echi intorno al grande stagno; e un formidabile cervo sbucò da un sentiero, cuoprì col gran corpo il piccino, scavalcandolo con le zampe anteriori; poi, chiusi gli occhi, aspettò, sull’intrico minaccioso delle corna enormi, l’assalto dell’aquila, che, sconcertata ed incerta, ripiegò.

Frattanto il maschio, in un impeto supremo di sdegno, accettando quella battaglia indecorosa, piombava sulla serpe, e, afferratala cogli artigli, la traea seco, levandosi a volo di nuovo oltre le punte degli abeti impassibili.

Ma subito ben diverse furono le grida, e lamentevoli, quasi folli, che il gran rapace gettò dall’alto, mentre la compagna, spaventata dal significato non dubbio di quell’accento di dolore, slanciandosi vertiginosamente dietro la sua traccia, abbandonava senz’altro il campo della lotta.

Il cielo era tutto sangue, parato d’immani velari di porpora, che parevano sospesi per un attimo all’immensa volta turchina, prima di ricadere per sempre sul sole, che scompariva, lottando, in mezzo a valanghe di cenere.

[184] E le belve, dal piano, trepidanti e riconoscenti vedevano la piccola vipera, aggrovigliata disperatamente a una gamba dell’aquila, alzare, fischiando, la testa, che aveva lasciati infissi nella coscia i denti del veleno mortale; finché l’uccello gigantesco e la serpe minuscola, dall’altezza incommensurabile raggiunta, descritto nello spazio un enorme arco di cerchio, precipitarono nella voragine d’oro e di sangue, dove il sole naufragava, gettando tutt’e due, a ogni plaga dell’infinito, i medesimi segni di vittoria e di morte.


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