Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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La quercia

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La quercia

 

 

Risalendo la collina densa di olivi mareggianti a tutti i soffi di vento, su su per l’erto sentiero scosceso, tra una duplice fila di grano maturo dalle spighe inclinate come per un muto consentimento, o tra le schiere degli olmi, a’ quali s’abbarbicavano contorte viti pampinose o azzurre di grappoli rilucenti, a seconda delle stagioni, il vecchio Michele tornava a casa faticosamente con appesa alla cintura rossa la falce bruna.

La casa, una vecchia torre rossastra, avanzo di chi sa qual costruzione feudale, in cui era accomodata una stanza a uso di cucina e, sopra immediatamente, un’altra a guisa di camera, in cui si sentivano razzolare i topi enormi nella soffitta adibita a granaio, aspettava all’ombra dei cipressi neri, lampeggiando come una fiamma contro i raggi obliqui scagliati dal sole di tra mezzo alle nuvole nei tramonti bizzarri.

[186] Ma una quercia aspra, nocchieruta, gigantesca, tutta fronde e tutta fremiti, tutta sussurri e tutta pigolii, si piegava, fino a carezzare il tetto d’embrici della torre, alle squassate che il vento della sera le dava a tratti, insinuando le invisibili dita entro la folta chioma e sbattacchiandola a sua posta di qua e di , mentre il verro nero aspettava, grugnendo e rivoltolandosi nella melma della pozzanghera, che alle scosse gli piovessero sul grugno le ghiande dolciastre.

Michele arrivava, e, attaccata la falce, come un’arme, al chiodo infisso nelle pietre della muraglia, tirava l’acqua, appendeva il paiolo di ferro alla catena fuligginosa che pendea dal camino, vi buttava su un fascio di sarmenti secchi, li accendeva, poi, come quelli principiavano a scoppiettare, usciva fuori e si lasciava cadere sotto il grande albero, cogli occhi fissi al luccichio del fiume, che brillava fra le nebbie violette della pianura, strana biscia contorta fra le due sponde selvose: guardava tenacemente, sempre nello stesso punto, col dorso appoggiato al tronco immane e scabro, come fosse anche lui parte di quel medesimo legno; e non si moveva più, finché sbocciavan le stelle.

Su quel fiume era nato, era cresciuto, aveva vissuto tanto tempo...

Ne sapeva tutti i segreti, ne aveva esplorati tutti i meandri, pescando i pesci con le mani aperte a giumella, rincorrendoli nelle tane sotto il limo, dove cercavano scampo, tuffandosi sotto l’acqua [187] alta a chiappar l’anguille, che gli sfuggivano tra le dita come serpenti.

Anche la voce del fiume conosceva, così diversa a seconda dei tempi.

Nelle grandi calme di luglio, quando tutto il cielo è veleggiato da strane frotte di nuvole colossali, e sulle montagne pare vengano buttati e tolti curiosi tappeti azzurri, stava sdraiato fra le canne gialle, immobili, con la testa appoggiata a una mano.

Fra masso e masso filtrava l’acqua con uno sgocciolio sordo, che aveva l’aria d’un chiacchierare sommesso; ma egli godeva di sapere che sotto la ghiaia passava la corrente lenta e misteriosa, la quale, da che il mondo fu creato da Dio, cammina verso il mare e non lo fa traboccar mai.

Poi veniva l’autunno, e le canne, diventate tutte verdi, cominciavano a muoversi, ad agitarsi, a baciarsi l’una coll’altra. Si vedeva qualche foglia più alta tremare, tremare, tremare, mentre l’aria era ferma tuttavia; e poi finalmente, un rotolar lungo di tuono rimbalzava di giogo in giogo sui monti, e tutto il canneto era battuto da un’acqua sorda e fitta, e i sassi del fiume da color di rosa diventavano turchini, e di a poco la corrente arrivava, da sponde invisibili, con un rumore lieve di foglie secche e di fuscelli sospinti innanzi dallo sciacquio.

Finché si faceva gonfia e maestosa, urtava contro le graticciate colme di sassi rotondi e lisci, cominciava a fluire con bizzarri attorcigliamenti di schiume, trasportando sul dorso fluitante le foglie giallicce [188] che sopra, senza posa, vi lagrimavano i lunghi alberi dal tronco d’argento.

Ma, ecco, i monti diventavano grigi, e le campagne e i prati rossi si facevano immobili, e il cielo era tutto unito, senza strappi e senza suoni, e la neve coronava le cime, scendeva a capriccio lungo la sinuosità; e la corrente rallentava, pareva fermarsi, premuta da veli di ghiaccio che si facevano sempre più consistenti.

Dopo, un letargo gelido fasciava tutte quelle cose assopite, ed era, fra le sponde scintillanti come di gemme, un silenzio altissimo che non si rompeva, finché la primavera non s’affacciava col sole tepido di vetta ai poggi, sciogliendo la neve e facendo luccicare una perla oscillante a ogni ramo novello.

Allora il fiume schiantava i suoi vincoli con un furore indicibile; la gioia della libertà riconquistata pareva dargli un’ebbrezza feroce, ed era la piena, la terribile e vittoriosa piena, che si scagliava ruggendo, dalla curva lontana vigilata dai salci, nella pianura bruscamente ridesta.

Così, quella notte, sotto un arco giallo di luna, ruppe da levante col mugghio d’una mandra di tori.

Michele balzò dal letto, semivestito, uscì all’aperto con la mano sugli occhi tesi, disperatamente a scrutare.

Non aveva mai visto il suo fiume così; s’era ribellato a un tratto, come un cavallo feroce; lo capì subito; non c’era più verso di trattenerlo.

[189] Vide agitarsi i rami curvi dei salici come nel delirio d’una raffica; un vento freddo, il respiro gelido e possente dell’acqua che corre veloce lo investì, agitandogli i capelli sulla fronte; poi i salici scomparvero sotto qualcosa di nero, di gonfio, che si moveva alzandosi e abbassandosi e gorgogliava.

Michele spalancò la stalla, sciolse le pastoie al cavallo e ai vitelli; poi, entrato in casa, ratto come il lampo, senza dir sillaba, agguantò poche robe, le scagliò con forza sovrumana dalla parte alta del campo sul tetto della casupola, quindi appoggiò la scala, spinse la moglie su per i pioli scricchiolanti, salì anche lui, stringendosi forte sul petto, che ansava, il suo ragazzo.

Di cima al tetto si vedeva una confusione folle di cose nere, che si urtavano, si confondevano, ritornavano a scindersi, a ricongiungersi,... una danza di spettri infernali!

Gli alberi alti, tutti piegati dalla medesima parte, soffiavano contro la luna sibili lamentosi e sciami di foglie.

I bovi, il cavallo, come pazzi, erano saliti sopra un promontorio di terra, che formava un isolotto in mezzo al furore buio dell’onde, che bollivano con un tumulto di vulcano; rimanevano protendendo i colli, movendosi in tondo come fossero in una gabbia, muggendo lungo, nitrendo acuto alla morte, che sentivano, con la prontezza dell’istinto, aliare fra i turbini, su tutto il piano [190] sconvolto: davanti all’arco giallo della luna bassa, ogni tanto, passava, come un uccellaccio sinistro, qualche foglia dispersa.

L’alba, sorgendo squallida sul lividore tragico dell’immenso lago gialliccio, che ora si muoveva lento, quasi trasportasse con sé le case emergenti, gli alberi, tutto, verso i monti lontani, che parevano avergli fatto siepe, ributtandolo indietro, perché compisse la strage, trovò Michele ancora vivo, ma solo. Da allora in poi odiò il fiume d’un odio feroce e profondo, come si può odiare in una persona il nemico.

Abbandonato il piano, andò a stare sulla cima più alta del monte, in quella vecchia torre, accanto alla quercia e ai cipressi, abbandonata lassù per timore dei fulmini, a disfarsi lentamente, e, , in quella rocca pericolante, la quale, senza che lui lo capisse, corrispondeva così bene alla desolazione della sua anima distrutta, si fece un nido selvaggio, come l’inutile furore che gli bruciava lo stomaco.

Non gli si avvicinava nessuno.

In paese e nei dintorni la torre era temuta: si parlava sommesso di certo delitto che vi sarebbe accaduto, quando gli uomini vestivano di ferro, e di certe voci che ci sentivano, quando tramontava la luna.

Di giorno, il cielo, intorno alla rotonda costruzione rossa, era sempre gremito dalle nere croci dei falchi, che vi svolazzavano; la notte, il gufo e la civetta si rispondevano dal tetto e dal campo.

[191] — Cuccumio! cuccumio! — Ron-ron... —

Erano le sole parole, e funebri, che sapesse gittare la torre; ma ormai Michele ci aveva fatto l’uso; e forse non le sentiva.

Nei meriggi afosi, quando l’aria trema tutta di calore, il vedovo si adagiava a piè della quercia immane, e , difeso dalla sua ombra generosa, inchiodava lo sguardo sul fiume lontano, sfolgorante sotto il solleone; e rimaneva lunghe ore nella sua contemplazione di maniaco, finché s’alzava, maledicendo, coi pugni tesi, contro il nemico lontano.

Dal basso i contadini lo vedevano agitarsi così, uguale a un fantasma, e riabbassavano il capo, impauriti, sul lavoro. Michele non era un pazzo cattivo. Lavorava per due, senza che una sillaba uscisse mai da quelle labbra contratte, mangiava, sempre in silenzio, in un cantuccio separato dagli altri; poi ripigliava il cammino aspro di casa, senza voltarsi mai indietro, finché non fosse sotto la quercia diletta.

A furia di chieder protezione all’albero solitario, a furia di piangere sul suo piede quel pianto senza fine, a furia di gemere alla sua ombra cortese quel dolore senza rimedi, Michele fini per convincersi che la quercia lo capisse e gli rispondesse.

D’allora in poi, non gli parve d’esser più tanto solo, e l’opre lo videro alzare il piccone contro lo scasso, o tuffarsi nei fieni mareggianti, con più giocondo fervore.

In quel tempo lavorò per dieci uomini.

[192] Aveva premura che la giornata trascorresse alla svelta, e, lavorando con accanimento, il tempo gli compariva più veloce; non vedeva l’ora d’aver finito, per tornarsene a casa, sdraiarsi a piè della sua quercia e discorrer con lei della felicità d’una volta.

— Eh! quercia mia, — le diceva Michele, abbracciando il tronco rugoso con le braccia nude color del bronzo — bisognava che tu l’avessi conosciuta! Ma forse l’avrai vista! Chissà quante volte è passata di qui. Te ne ricordi com’era? Che capelli neri, che labbra rosse! —

Una sottile brezza s’insinuava tra il frascame, agitandolo e commovendolo con un brusio lungo di consentimento; e subito Michele appoggiava l’orecchio contro la scorza, e sentiva, dentro, un romor vago, come ronzio d’arnie o schiantar secco di legno adusto; e gli pareva che l’anima dell’albero fremesse per entro la vasta midolla, cercando di sprigionar la sua voce per rispondergli; e finalmente la voce veniva con un frusciar più forte del vento tra i rami, che mormoravano in fretta qualche cosa di cui l’eco smoriva in un fremito lungo, come di corde vibrate.

— Te ne ricordi?... — e seguitava a discorrere, piano, con una tenerezza squisita.

E era tutto un chiedere e farsi rispondere, e: — Mi faceva questo, mi faceva quello... — e: — Il bambino allattato da lei... — e: — Credi che sia morta, o pure mi sente, o l’hai te, costì dentro, nascosta? —

[193] Adagio, adagio, Michele soffiava le parole alle bocche aperte dei larghi nodi della pianta; e questa fremeva, s’agitava e mormorava lungamente, scotendosi tutta, mentre in alto, nascosto fra i rami, un nido garrulo chiacchierava squillando, come il bambino, quando vispo e chiassoso si baloccava sull’argine.

Delle volte la quercia era lugubre.

Le notti afose d’agosto, un assiolo bianco, dalle cornettine dispettose, s’insediava sui rami crociati, nel mezzo al frascame impenetrabile, e al povero Michele, che ripeteva le sue domande, rispondeva sempre col suo più! più!, insistente, inesorato...

Ma quando il primo raggio di sole incendiava la torre tra i cipressi neri, la quercia, tutta gaia e risplendente, ricominciava subito a fremere, a pigolare, a cantare, e così per tutto il giorno, da mane a vespro, allorché Michele tornava a interrogarla e a farsi rispondere, finché l’ultimo soffio di vento vi si abbatteva con un tumulto folle di campane disperse, e si smorzava così, giocondamente cantando, dentro le sue folte chiome... In questo modo il grande albero e il piccolo uomo alternarono l’albe e i tramonti, chiusi in un cerchio di vita sempre uguale, che solo variava con l’ombra.

Sventuratamente venne il tempo triste, quando la natura si ammala.

La golpe entrò nel grano, e ne marcì gli steli; [194] nebbie rossastre coprirono il sole, che pareva un lume acceso dietro un gran vetro opaco: nell’aria rarefatta non stridevano, balenando, le rondini; i passeri pettegoli non chiacchieravano per i campi, mangiando gl’insetti distruttori delle piante; poi un vento pazzo soffiò via le nuvole, e insieme spolverò la mignola fitta dai grandi olivi contorti; i pampani delle viti arrugginivano, cascando come insanguinati dai tronchi serpentini, rosi nelle barbe da qualche germe letale; e il padrone della torre dei cipressi e della quercia era povero.

Una mattina, Michele, affacciandosi verso il sole nascente, vide venirsi incontro uomini armati di corde e scuri. Non capì, da principio; appoggiato alla soglia dell’abituro guardava trasognato l’affaccendarsi di quella gente intorno all’albero; e non disse parola, come era suo costume.

Ma poi che un canapo enorme si attortigliava, lanciato da mani robuste, al tronco rugoso; e qualcuno, chinatosi, speculava a piè della quercia il punto buono per il primo colpo, Michele balzò, come un leone, in mezzo al gruppo, che oscillò, spaventato, arretrando di qualche passo.

— Cosa fate, cosa fate? — domandò Michele con la voce strozzata.

— Ha sciolto lo scilinguagnolo, finalmente — azzardò uno, più ardito degli altri,

— Il matto parla! — sussurrarono.

— Sì! matto! — ruggì Michele, che aveva udito — e da matto vo’ fare! —

[195] E scomparve in casa, per riapparire di a un minuto, terribile, sulla soglia, con la scure in pugno, gli occhi fuori dell’orbita.

— E io vi dico — urlò — che non la toccherete! —

E fece un passo innanzi, e si parò spaventevole nell’aspetto, davanti alla quercia.

Il sole ora sorgeva adagio tra vapori rosei, dorando la cima al grande albero, che, scosso da un brivido di vento leggero, tremava tutto per mille foglie, con un mormorar sommesso che pareva un gemito lontanissimo.

Tutti ristavano, a distanza dal matto, pietrificati dallo spavento, indecisi.

Allora il padrone, buttata via la scure, s’avanzò verso Michele, implorandolo:

— Michele, ohe! Michele! Eppure mangi del mio! Cosa ho da fare? Non ho più nulla, e non so come difendermi... Questo quercione costerà duecento lire, capisci?... Come fare, santo cielo! come fare a tirarsi innanzi fino all’autunno? Mi dispiace anche a me di buttar giù quest’albero, che faceva ombra qui sul poggetto... Ci veniva la mi’ bimba a fare chiasso... quand’era viva! Oh, Michele! Son povero, anch’io, quanto te, quanto voialtri; come ho da fare? Ci ho moglie a casa, ci ho un figliolo..., Michele. —

Il matto, pian piano, smorzava il foco degli occhi, posava il ferro, poi si buttava contro la quercia, abbracciandola, sussurrandole mille cose [196] pazze nelle bocche dei nodi enormi; e nessuno rideva.

Poi, a un tratto, raccolse la scure, l’alzò a due mani, tirandosi indietro, e... tan! fece un taglio di dieci centimetri, sopra le barbe, proprio nel punto giusto.

Tutto il monte echeggiava dei colpi furibondi di Michele, mentre gli uomini, via, via, duravan fatica a fare svelti a piantare i cunei.

Si aiutarono coll’asce, colla sega; il grande albero resisteva, con la chioma agitata, cantando sempre; finalmente cominciarono a tirare il canapo!

Oh!... che momento! dalle viscere della quercia partì uno scricchiolio lungo, doloroso, aspro, che parve un’espressione di doglianza. Michele ascoltava, appoggiato alla scure, col torace scosso dai palpiti veementi del cuore; e gli uomini tiravano, in tralice, gridando a ogni strappo: oooh! E la quercia rispondeva con un gemito e uno schianto, crollando armoniosamente il fogliame, senza smetter mai, senza smetter mai...

Quanto durò il tormento?

Alfine la pianta s’inclinò; venti braccia lentarono e distesero i muscoli di bronzo nel conato estremo, con un gran grido; poi gli uomini fuggirono veloci, mentre la quercia si piegava, si piegava, si piegava...

— Bada, Michele! esci! ti schiaccia! —

Michele non si mosse; e l’albero crollò; toccò fulmineo il terreno coll’aspra fronte capelluta, con [197] un tonfo sordo, passando rasente a Michele, sfiorandolo con le foglie più giovani, senza toccarlo neppure!

Non si udì un alito.

Il matto s’inginocchiò accanto alla quercia buona, che dava pane morendo, come aveva dato consolazione d’armonie e d’ombre da viva; le ricompose le chiome arruffate, ravviandole con le mani callose, così come si compone un cadavere amato, lentamente, con una cura infinita, con una tenerezza infantile, sempre in silenzio, mentre tutti, d’intorno, guardavano e piangevano, senza sapere neanche loro il perché.

Il sole, fugate tutte le nebbie, dardeggiava feroce sulla campagna squillante e sul fiume contorto, che scintillava lontano.


[198]


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