Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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La cornacchia

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La cornacchia

 

 

Finalmente! quello l’avevo colto: era caduto, me n’ero avvisto benissimo, a piombo, con la coda aperta, l’ali distese.

E subito mi venne una gran rabbia per non aver preso un buon cane da padule, che, dopo aver puntato il beccaccino, fosse stato capace d’andarmelo ad abboccare e riportarlo di mezzo alla poltiglia dell’acquitrino; quanto a Miseria era scomparso.

Giravo l’occhio intorno, imbarazzato, senza decidermi a nulla. Il padule era basso, guadabile da per tutto, lo sapevo; non mi ero scordato d’infilarmi i calzettoni e, sopra, le scarpone bucherellate; la distanza era breve, di faccia avevo l’argine, e sull’argine una capanna tutta accesa dal tramonto; tuttavia restavo immobile in mezzo all’acqua.

Egli è che questa, sotto i raggi del sole morente, era diventata tutta di sangue; mi circondava un [199] paesaggio incredibile, che nessun pittore oserebbe mai di ritrarre e d’esporre, senza tema d’esser beffeggiato; sangue schietto, sangue scrio, sangue vivo! Erbe, ninfee, tronchi d’albero marciti, il forteto, tutto pruni e barbe e ramaglie asserpentate, che si chinava su quel lago dantesco, un silenzio straordinario, opprimente, pauroso e, annegata per metà in quel bagno insanguinato, la carcassa enorme, spolpata, d’una bufala, col suo cranio aguzzo e cornuto, dalle grandi orbite vuote, appoggiato a un tallo di musco color di ruggine.

Distinguevo a venti passi il beccaccino morto, a pancia all’aria; e avevo paura, lo confesso, avevo paura a smuovere quel liquido cruento, a tuffarci la mano, che mi pareva di dover ritirare tutta stillante di gocciole rosse.

Nondimeno feci un passo, poi due, chiudendo gli occhi, perché lo scintillio rosso dell’acque tinte mi dava alla testa; mi avanzai malamente verso il buio del canneto, dove era cascata la preda; la giunsi, l’afferrai in fretta come una cosa che scotti; feci ancora qualche metro verso l’argine, verso la casetta incendiata dal sole morente, e udii tragico, acuto, ben distinto, un grido terribile, un grido umano di disperazione e di morte:

— Aaah! aaah! aaah! —

[200] Che cosa succedeva? Nessun dubbio possibile: qualcuno soffriva; qualcuno, certo una donna, agonizzava vicino a me, dentro a quelle mura screpolate.

D’un balzo fui sull’argine, grondando acqua dal ginocchio in giù; e chiamai con quanta voce avessi in gola:

— Miseria! Miseria! Ohe! Miseria.

E subito, di dentro alla capanna, risposero chiari, vicinissimi, più terribili di prima, i tre gridi femminili:

— Aaah! aaah! aaah! —

Stavo per islanciarmi verso la finestra della capanna e schiantarne le imposte con una calciata di fucile, quando Miseria apparve, simile a un fantasma lacchigno, contro la raggera rossa del sole ormai tuffato dietro la lama, che incupiva, come se tutto quel sangue si coagulasse e si raffreddasse.

L’ombra del bracconiere si allungava enorme sul padule, interrotta dalle vibrazioni dell’onde smosse in cerchi concentrici; e l’uomo alzava le mani, agitandole con dei gran gesti disperati, che non capivo; ma la voce umana, nei silenzi disperati delle paludi morte, ha sonorità inattese; e a un chilometro di distanza udivo le parole, come se Miseria mi fosse stato accanto; e le parole, rotte, affannose, dicevano:

— State fermo, signorino; state fermo, per carità!

[201] — Miseria, — rispondevo — corri; ma corri, per amor di Dio! Qualcuno muore in questa casa!

— State fermo... Ora vengo... Pur troppo, in cotesta casa non muore più nessuno. —

E si avvicinava a gran passi, tuffando le gambe in tutta quella schifosa poltiglia sanguinolenta, che diventava violetta a vista d’occhio, mentre sopra di noi s’addensavano e si chiudevano, dai lati opposti dell’orizzonte, due spettacolose nuvole color di cenere, come fossero le cortine della notte.

Finalmente Miseria mi raggiunse; era livido, affannava un po’; mi chiese da bere; poi mi disse, con voce che non dimenticherò mai:

— Non ci volevo venire da queste parti; ve lo avevo sconsigliato... anche a voi... ma sì! chi li tiene i cacciatori? Ecco, l’avete sentita? È una cosa che non ci regge nessuno. —

Mi volsi a lui, stupefatto, mentre seguitava, ripigliando a camminare:

— L’avete sentita? avete avuto paura anche voi? e ora... — e saliva sull’argine e si avvicinava alla capanna, mettendo una chiave nella toppa sgangherata dell’uscio — guardate pure; è ! —

E spalancò la porta con una pedata. Mi apparve una stanza nuda, senza letto, senza una seggiola, senza un panchetto: nulla, tranne una croce attaccata al muro: nel barlume, qualcosa di mostruoso si moveva qua e , a salti strani, per la stamberga: un grande uccello nero, simile a un corvo, che trascinava l’ali spuntate, come un par di grucce.

[202] La spaventosa bestia trasse, al rumore, a balzelloni verso di noi, e, aprendo il becco massiccio, cacciò tre volte il suo gemito tetro:

— Aaah! aaah! aaah! —

I miei nervi, già turbati dallo spettacolo precedente e dalla foschia temporalesca, che s’addensava gravandomi sulla nuca come una mano vigorosa, non ressero più; agguantai per un braccio il bracconiere e gli dissi:

— Andiamo via! andiamo via!... subito... —

Udii il tonfo della porta che si chiudeva, le grida ripetersi una, due volte, sempre più fioche, e camminai a lungo sull’erba soffice che smorzava i passi, stringendomi a Miseria, che fumava senza parlare, mentre la notte, ravvoltici ormai nella sua nebbia, sospirava sul padule invisibile, svegliando fremiti di piante e frulli d’uccelli, così tetri, nella quiete, che il bracconiere sentì il bisogno di rompere quel silenzio opprimente.

— Stavo , prima; ci stavo di casa fino a un anno fa, con la mia donna, che era buona, e bella era, signorino, bella da parere il ritratto della salute!... Basta! Lei s’ingegnava; io, come era tempo di caccia, mi piantavo vicino alla stazione, e, quando scendevano i forestieri, li portavo nella tenuta. Il Ranca (quel broccione, avete capito quale? ve ne siete servito anche voi...; stana la selvaggina peggio dei cani... dove entra lui, nemmeno i cignali!) dunque lui correva dal guardia, l’avvisava, e quello faceva un giro dall’altra parte... voi mi capite... [203] insomma, si faceva a mezzo... che volete? se non ci s’industria onestamente....

»L’anno che mi sposai fu annata buona, e mance se ne fecero a bizzeffe; l’autunno poi... una cuccagna vera! Io stavo come un papa; a vespro, dopo una giornata di macchia, tornavo in quel tugurio, e ci trovavo un boccone di minestra calda e un po’ di compagnia; infine, si campava; alla meglio, signorino, ma si campava.

»Quand’eccoti che, un brutto giorno, scendono alla stazione tre signori, ma signori proprio di quelli cofiocchi... Figuratevi un po’ voi, signorino, erano tre ‘milordi Inghilesi’! Senza tanti preamboli, mi fanno: “Noi volere ammazzare cinghiale...; noi non badare spesa!...”

»Pensate un po’ se mi ci misi di voglia! Il Ranca mi dice: “Porta cotesti signori alla posta; al guardia ci penso io” e sparisce. Io piglio i cavalli, bell’e sellati: si monta su, e via nel forteto. Era una giornata cattiva, come oggi; voleva piovere, e non s’aveva la canizza completa, come quando si caccia liberi... Il Ranca frugò, rifrugò; si sentivano i cani abbaiare lontano, fiochi, fiochi,... ma di cignali neanche l’idea! Io avrei battuto il capo nelle querce, dalla gran bile! Si faceva sera, e s’era sempre a mani vuote. Allora io propongo a quei [204] signori di trattenersi, che all’indomani si sarebbe messa su una caccia in tutte le regole. Fu come dire al muro. Non ne vollero sapere. Capite? Venire in Maremma per un giorno a quel modo, coll’idea d’ammazzar subito un cignale! È come dirla! Fatto sta ed è che vollero tornare addietro, borbottando fra di loro chissà che cosa (non mi riusciva di capirci un ette); si ridussero alla ferrovia, e , prima di salire in treno, mi messero in mano due monetine d’oro, e chi s’è visto, s’è visto!

»Il Ranca era graffiato, pesto, faceva sangue da tutte le parti: pareva, col dovuto rispetto, un ecce homo... Sapete com’è: non è un cristiano, è una bestia; e poi, quella volta, aveva ragione, sicché si prese una moneta, e batté il tacco. Io rimasi con l’altra in mano; ed eccoti il guardia, che la vuole tutta per sé.

Rifammi il resto” gli dico io.

“E chi mi garantisce — ribatté lui — che non te ne abbia data una terza anche per te?”

»Io mi difendo; quello m’accusa; e si viene alle conseguenze serie..., signorino! Com’è vero il sole, il fegato di sdraiarlo l’avrei avuto anche subito, perché soprusi a me non se ne fanno; ma avevo troppa ragione, ero in territorio suo, e non volevo pigliarle io... Sicché, lo guardo, lo guardo bene nel bianco degli occhi; mi metto il fucile armacollo, e me ne vo, lasciandogli la moneta mia. Non dubitate, lui aveva bell’e capito, non c’era bisogno di altri discorsi:... dove lo trovavo e dove gli [205] consegnavo una fucilata nel capo! Ma intanto ero alla fame; dove avrei portato i cacciatori da allora in poi?

»S’immagini la bile, s’immagini il rodio, qui dentro, mentre tornavo a casa lungo l’argine, come ora. Ve l’ho detto: era una serata d’inferno, e sentivo il mare che urlava e sciacquava lontano, mettendomi addosso una melanconia da morire; per di più, tutt’a un tratto, proprio sopra la mia testa, si ferma sull’ali, reggendosi col vento, una cornacchia, e stride una volta, poi una seconda, quindi una terza, finché io, arrabbiato, agguanto il fucile e semino una schiopettata alla bestiaccia.

»Ma perché mi venne quell’estro? Me ne pentii subito, badate; ma ormai... era tardi! La cornacchia cascò viva, con un’ala stronca, nel mezzo all’argine, urlando come una dannata; capii subito che quella fucilata m’avrebbe portato disgrazia; ma appunto per questo non ebbi core di finire la bestia, e, facendomi beccare a sangue, la presi e la portai via con me.

»Almeno, pensavo, farà ridere la mi’ donna, quand’è sola!

»Eh, signorino, altro che ridere! Quella sera avevo segnato la mia condanna. Arrivo a casa e ci trovo la Ghita a letto con la febbre da fare [206] spavento, una febbre come non se n’ha un’idea! Butto la cornacchia in un cantuccio, le do un po’ di carnaccia, la lego per una zampa alla tavola e corro per il dottore. Non c’era, oppure gli pareva lontano... insomma non venne che il giorno dopo. Visita la donna, tasta il polso, scuote la testa; ordina riguardo, carne di pollo, chinino...

»Per un po’ di tempo s’andò innanzi; la Ghita a letto, io per la casa; e intanto i quattrini sparivano; guadagni novi non se ne facevano, e di più c’era da dar mangiare alla cornacchia; poco, ma infine mangiava anche lei. Io me ne volevo disfare, però la Ghita ci s’era abituata, la serviva di compagnia, e qualche volta la vedevo ridere, quando la bestia girava per la stanza zoppicon zoppiconi, beccando minuzzoli e rifacendo la nostra voce.

Alla cattiva stagione, la donna peggiorò; non me lo volle dir mai, ma, un giorno che venne fuori un po’ di sole, pare uscisse a trafficare; l’umido... quella nebbia che si leva quando riscalda l’aria... la febbre riattaccò con un furore!... Quando tornai di fuori (ero stato a cercare inutilmente di buscar qualcosa), la Ghita andava via, con certi sbalzi da smuovere il letto; io mi strappavo i capelli, piangevo, mi raccomandavo alla Madonna, ai Santi... e la cornacchia gracchiava! Non avevo un centesimo in tasca, nemmen uno! Il chinino era finito; alla [207] farmacia me lo davano senza spendere; ma arrivarci al paese!... Son sette chilometri, signorino! sette a andare, sette a tornare fanno quattordici, ed era la notte alta, e io non avevo mangiato nulla! —

Sentii la voce del bracconiere lacerarsi come un singhiozzo; poi Miseria, scordando ogni rispetto, mi attenagliò il braccio con una mano che pareva un artiglio, sibilandomi all’orecchio:

— Fui vigliacco, fui vigliacco; ma come avevo a fare?

»Sì! andai dal guardia, picchiai al su’ uscio, mi raccomandai come l’anime purganti, in ginocchioni, capite?

»Fu gentile; mi dette perfino il cavallo... Come andassi non ve lo so dire; parevo la versiera; ma prima che fossi arrivato, che avessi avuto le medicine e ogni cosa, la notte aveva camminato, e s’era messo un tempo peggio di questo. Da qualche mese non faceva altro che piovere; il padule era gonfio; il canale correva come un demonio, e io dovevo adoprare il barchetto. Al ritorno, il cavallo s’impuntava, durava fatica a superare gli scrosci e le raffiche che ci buttavano indietro; la strada era un fiume; e dovevo raccapezzarmi alla peggio al baleno dei lampi, mentre nel cervello mi martellava quella brutta parola detta dal farmacista: «la perniciosa...»

[208] »In quel modo, ridotto come non se ne può fare un’idea, buttai le briglie della bestia al primo che mi capitò, e via di corsa, per l’argine, nel mezzo alla bufera! L’acqua ogni tanto sboccava dal canale con una grande ondata viscida, e mi scaraventava nel fango lungo disteso; ma io avanti! finché vidi il lume rosso della capanna, in mezzo alle tenebre fitte, e... per poco non mi precipitai nel baratro che mi s’era spalancato ai piedi.

»Sotto la violenza dell’acqua, l’argine aveva ceduto in quel punto; s’era sfondato; la corrente, rugliando, si buttava nella palude, piegando le canne già mezze coperte; il picchetto e la corda della barca erano scomparsi.

»La mezzanotte doveva essere trascorsa da un pezzo, forse era anche il tocco; di passare non c’era da discorrerne; m’inginocchiai sull’argine sfiancato, e protesi lo sguardo al di sopra della corrente che passava con un muggito continuo: il lume brillava, fisso in quell’ombra, e, in una sosta del vento, sentii distintamente la voce della Ghita che si raccomandava in un modo da fare strazio alle pietre!

»Allora io, con le mani alla bocca, le gridai con quanto polmone potevo: “Ghitaaa! son quaaa! coraggioooo!...”

»E lei dopo un pezzo mi rispondeva a quel modo.

»E io daccapo, con quanta n’avessi in canna: ”Son quaaa! coraggiooooo!...”

»E via e via e via: un lamento, un’esortazione, un gemito suo, una preghiera mia!... Tutta la notte, [209] signorino, tutta la notte durò quel supplizio! Io la chiamavo; lei si lamentava; io la sostenevo così, con la voce: avrei voluto cogli urli bucar le mura di quella casa maledetta; mi pareva di poter riuscire a reggere, a rianimar quella martire col fiato che ci consumavo... E la corrente fuggiva con certi muggiti... quasi mi pare, quando ci penso, di sentirli ancora rintronarmi dentro il cervello!

»Finalmente persi la voce; mi mancò la forza; cascai giù nella mota come uno straccio... Quando mi riebbi, il cielo diventava turchino; distinsi bene l’acqua gialla abbassata, che, scemando di furia, passava davanti a me con dei rigurgiti rochi, come bollisse; e il lamento seguitava, a intervalli, sempre uguale... Era viva!

»Allora mi buttai nel fosso; fui sbatacchiato contro la sponda; agguantai una barba fradicia, un ciuffo d’erbe; ruzzolai, mi rialzai, corsi come un pazzo, e aprii la porta... Signorino, signorino,... mi par di vederla! Mi par di vederla come fosse ora, la mi’ Ghita, fredda rigida su quel letto! Morta, morta chissà da quanto; e la cornacchia, legata a un piede della tavola, che gridava a quel modo! Voi lo sapete come sono codeste bestiacce... La sua voce, signorino, la stessa voce! L’era rimasto in gola quell’urlo; e lo ripeteva, lo ripeteva... Tutta la notte, signorino, credendo di parlare con la mi’ Ghita, avevo discorso con la cornacchia! —

C’investì una vampa di luce: eravamo arrivati in paese. Miseria spinse l’imposta del caffeuccio, mi [210] cedette il passo, poi si mise a sedere di faccia a me, con la testa abbassata sul petto, e, mentre fuori l’acqua, scrosciando alla fine con violenza, picchiava e rimbalzava sonoramente sui vetri, concluse:

— E ancora, vedete, che sono scappato dalla casa maledetta, non ho cuore d’ammazzarla, quella bestia; tutte le mattine, a giorno chiaro, vo a portarle da mangiare... poi m’imbraccio... ma la cornacchia starnazza l’ali, caccia fuori quel verso... la sua stessa voce, signorino!... E io abbasso il fucile. —


[211]


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