Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Novelle toscane
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Il giogo

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Il giogo

 

 

Il Rosso spalancò gli occhi verdi, a un tratto, e a un tratto li richiuse.

Una luce sfolgorante l’aveva abbacinato, ché il disco giallo di una enorme luna piena levandosi sulle colline basse di fronte, veniva quasi a empire la bocca rotonda della tana oscura e calda nella quale il bandito dormiva a metà della montagna.

Tuttavia si fece forza, aprì e serrò sbadigliando le mascelle d’acciaio, poi cacciò fuori della buca le zampe anteriori e vi si appuntellò, tornando a sbadigliare, mentre si stirava voluttuosamente, e scuoteva, con gli orecchi, il torpore del lungo sonno.

La notte era rigidissima; il cielo levigato come un cristallo e nella valle lontana dove neanche un lume splendeva, i tetti dei due o tre abituri sparsi emergevano cupi in mezzo alla neve turchina che imbambagiava tutto il gran vano racchiuso fra le [212] montagne pallide screziate di nero dalle rocce e dalle abetaie.

Il Rosso si pentì subito d’essersi svegliato. Il freddo intenso gli faceva sentire più atroci i morsi lunghi e rabbiosi della fame che gli dilaniava le viscere e, a testa bassa, cercando invano l’odore di una traccia, cominciò a calare a caso per la china senza sentiero evitando con l’istinto e con l’abitudine i burroni mascherati da parapetti di ghiaccio e cercando di riuscire a contare da quanti giorni avesse digerito il magro agnello perduto da chi sa qual branco nel rovinio di una fuga disperata davanti alla tormenta che aveva invaso i gioghi seppellendo uomini e cose sotto le sue ali sconvolte.

Ora il sereno tornava, il terribile sereno che spinge lunghe file di persone a spalare in mezzo ai piani, a rompere il ghiaccio lungo i torrenti e tappa le mandre nei presepi fumanti, che belano tutta la notte lunga dalle finestrucce rosse, in mezzo al paesaggio azzurro.

Ma non riuscì neanche a distrarsi, contando, né a determinare con esattezza uno spazio di tempo qualunque: ricordava solo che, addormentandosi, dopo il pasto, aveva visto buio e udito i boati della montagna; che aveva divorato anche gli ossi, poi i brani di pelle dura come il corno e che, infine, s’era addormentato, annullato in un letargo che pareva non avesse avuto principio e non dovesse aver fine, col naso nascosto sotto una [213] giuntura e un orecchio scartocciato verso la bocca della tana, dalla parte del vento.

Così riflettendo e lamentandosi, col pelo irto, i fianchi ansanti, le costole sporgenti come i denti d’un rastrello, la lingua penzoloni, stracco e accaldato peggio che di agosto, arrivò nella pianura e si fermò a sedere sull’anche magre, tirando di naso e leccandoselo e inumidendolo per sentir meglio.

C’era odore d’uomini, da quella parte, e odore d’uomini voleva dir trappole, bastoni, fucilate; ripensò all’eroismo di suo padre il quale piuttosto che rimanere in una tagliola s’era rosicato lo stinco, rabbiosamente, ed era fuggito su tre gambe rigando di sangue la neve per lungo tratto; ma a nulla gli era valso il sacrificio, ché il sangue aveva guidato i cacciatori fino alla bocca dell’antro dove, dopo una battaglia onorevolmente sostenuta, cadde per non più rialzarsi, mentre la vecchia lupa metteva in salvo lui, il diletto della covata, buttandoselo sul collo, con le mascelle che sapevano afferrare con delicatezza e galoppando con una velocità ignota ai cavalli.

Il Rosso, come si vede, aveva conosciuto presto le peripezie della vita errante.

Mentre riandava così la sua vita trascorsa, un odore strano lo fece trasalire e scattò sulle quattro zampe coi peli del dorso rigidi scuoprendo i denti.

Incontro a lui galoppava un altro lupo, della sua stessa razza di certo, ma più piccolo di statura e più scuro di pelame.

[214] Come furono a cento metri si riconobbero: eran fratelli! Ma quale differenza! Il nuovo venuto era grasso, fresco, assestatino, non pendeva un pelo; liscio, rotondo, cogli occhi sfavillanti, la coda elegantemente arcuata, gli orecchi diritti, l’accento cortese.

— Rosso!

— Grigio!

— Come stai?

— Male... ho una fame spaventosa, incredibile... e tu come te la ripassi?

— Ma... benone, come vedi. Ho fatto or ora una satolla di ossi con certi pezzi di ciccia fresca attaccata... e poi ho moglie, figlioli... di bei figlioli... vuoi vederli? vieni. —

Il Rosso lo guardava con diffidenza rugliando sordo.

— Ma dove mi porti? dove li hai i tuoi figlioli?

— Non ci pensare — hai paura che ti imbocchi in un tranello? Ti invito a cena con me — una buona zuppa d’ossi con degli avanzi di brodo e d’ortaggi cotti. —

Il Rosso mandò un lampo dagli occhi e fece un salto innanzi.

— Che cos’è questo che tu rammenti, proruppe con isdegno, non sai ch’io sono carnivoro? per farmene che, di grazia, della tua minestrina da convalescenti? aspetta a primavera e ti farò trovare ben io, in una grotta fresca e sicura, qualche coscia di montone dal sapore dolce e acre, il sapore del [215] sangue che inebria e mette addosso la voglia di mordere e d’assalire. E poi (e s’accostava annusandolo) tu puzzi d’uomo, maledettamente...

— Ti giuro...

— Perché hai i peli del collo consumati? chi ti ha fatto questo solco profondo, qui? È inutile che tu neghi... lo riconosco... è il segno del collare!

— E sia; è meglio dir tutta la verità. Ero stanco di andare errando per la foresta sempre nell’incertezza dell’oggi e del domani, stanco di dormire con un occhio aperto un sonno agitato e pieno d’incubi, timoroso sempre di vedermi assalito da turbe di cani furibondi o di cascare in qualche trappola nascosta sotto le frasche, e decisi di andare dall’uomo.

— Ti sei venduto?

— Ma sto bene.

— E la libertà?

— Bella libertà la tua! una morte garantita!

Ma smettila con codesta esistenza arrabbiata, vieni anche tu e facciamola finita — vedrai che bel pelame! e che cagne! Scozzesi! che somigliano tutte a noi... —

Il Rosso, sempre a sedere sull’anche angolose, rifletteva profondamente; a vederlo così, vicino al suo compagno, pareva anche più secco, più miserabile che mai; ma non istette molto a pensare e, a un tratto, rizzando risolutamente il muso, disse a suo fratello:

— Sei un vigliacco, tu tradisci la nostra razza [216] e sporchi il nostro nome; ma son sicuro che tu te ne dovrai pentire.

— Mai!

— Ah! ne sono certissimo: le catene, è storia vecchia, son catene anche dorate e non v’ha ricchezza che uguagli la libertà. Per conto mio tollero più volentieri una indipendenza mal sicura che una servitù tranquilla. Son figliuolo di mio padre, io! —

E dando al Grigio un’occhiata di sprezzo si allontanò tranquillamente col suo trotto uguale, elastico, e in un momento scomparve in mezzo alla distesa di neve.

Prese la via della foresta, perché non gli garbava di aver lasciato delle tracce così vicine all’abitazione dell’uomo, e si addentrò nel folto degli abeti tra viottoli lunghi e bui sui quali le fronde, distese come braccia che si ricercassero da tronco a tronco, sorreggevano una cappa densa di neve che faceva quei meandri tiepidi e odorosi di umidità come caverne.

Il Rosso piuttosto che risalir la montagna preferì di stabilirsi in quel bosco dove poteva sperare di raccapezzar qualche cosa da rodere e dove trovò subito una compagna magra e affamata come lui, ma fiera e decisa a tutto e, sopra ogni cosa, delle medesime idee; e così la famiglia del bandito fu formata e visse e prolificò, sola, in mezzo alla foresta, lontana dalle altre bestie e dagli uomini, insegnando ai lupatti il disprezzo della società civile come di quella barbara, ma sopra tutto l’odio [217] contro gli animali a cui un ingiusto decreto della natura concedeva l’agiatezza e il pasto senza fatica.

Bandito e cacciatore di frodo, il Rosso non capiva perché ci potesse esser della gente che gli dava la caccia, a lui, che non era buono neanche da mangiarsi! e per protestare contro la viltà del più forte insegnava ai figli le astuzie, gli strattagemmi e i modi per rubare agli usurpatori le provvisioni sovrabbondanti acciocché il corpo non oltrepassasse mai quel periodo di digiuno al di del quale è la rabbia, lo spavento delle superfici lucenti, la pazzia cieca e furibonda di mordere, il terribile castigo che vedono uscire dalle foreste o errare pazzamente per le vie gli uomini colpevoli d’aver lasciato in preda alla fame un essere vivente!

Si era sul finire di primavera; la neve si scioglieva chiacchierando nei ruscelli e disammantava i clivi che scuoprivano le prode tutte verdi d’erba novellina; un profumo acre si levava dal terreno dove pareva che il marciume delle barbe e delle ramaglie morte rivivesse d’una vita misteriosa, formicolante e larga, che pigliava tutta la selva, s’insinuava nei ciuffi, nei talli, nelle macchie, saliva lungo gli alberi sotto le cortecce madide, stillava in lacrime da’ rami e da’ fuscelli, fremeva nelle frasche, pispigliava sulle cime e s’involava nel sole.

La lupa madre, robusta, elegante, col pelame ravviato per numerose mangiate di polli strappati alle volpi, di lepri giovani, e di caprioletti inesperti, [218] insegnava ai giovanissimi figli a cercarsi il cibo a una distanza di almeno sei miglia per non tradire il segreto del covile, a mantener la parola e a dare aiuto agli altri lupi, a riconoscer le armi da fuoco dalle falci o dalle vanghe, a non lasciarsi sedurre da agnelli o da quarti di carne fresca posti troppo vicini all’abitato, a dare il cambio, l’uno coll’altro, davanti alla muta dei bracchi, a correr sempre in linea retta per moltiplicare gli ostacoli ai cacciatori a cavallo, a salvarsi dalle trappole e a riconoscerle sotto gli inganni di fronde o di zolle.

Tutte le notti la lezione si svolgeva, regolarmente, in una grande radura sul limitare della foresta, vicino a un corso d’acqua, sopra a un prato delizioso per le capriole e i salti, né terminava finché il sole dorando il cielo, dietro gli abeti neri, non ricordasse alla schiera esser tempo d’andare a pigliarsi un meritato riposo, che i lupatti s’accingevano a recarsi a godere, camminando l’uno dietro l’altro e procurando, sotto l’occhio vigile della madre, di porre ciascuno, esattamente, la propria impronta in quella dell’altro, mentre schiere gioconde di scoiattoli li guardavano dalle cime più alte, sbellicandosi dal ridere, attaccati ai rami per la coda, colla testa all’ingiù.

Quella mattina per l’appunto i cinque lupi traversavano così la parte limacciosa del prato, neri contro il piano violetto, sotto la luce diaccia d’un’alba nuvolosa, quando (prima fra tutti la vecchia lupa) si fermarono di scatto colla zampa [219] alzata, gli orecchi ritti, lo sguardo fisso, e un fremito di terrore pervase la schiera. Non era possibile dubitarne. La caccia si precipitava da quella parte.

Che fare, in tal frangente? La madre schiacciata per la fuga, già pronta al primo balzo, ascoltava attentamente, perché i lupi, come tutti i cacciatori, non perdono mai la calma; quando il Rosso saltò fuori d’una foschia d’abeti con uno slancio elegante.

— Fuggite! — ordinò — non c’è più nulla da fare.

— Oh! se questi erano più grandi! — sclamò con ira la femmina accennando ai figliuoli.

— Fuggite sulla montagna, riprese il lupo, faticando a discorrere perché i fianchi gli sobbalzavano dalla gran corsa fatta, fuggite, e tu, messi i piccini al sicuro, piantati in qualche punto da dove si possano vedere le fasi della lotta e la mia morte, per descriverla poi, a loro..,

— Ma non c’è modo d’ingannare i cani? Non potrò avere il tempo di tornare a darti il cambio?

— No. La muta è diretta da chi sa bene il fatto suo; vorrei ingannarmi, ma temo di aver riconosciuto l’odore di mio fratello.

— Impossibile! un lupo non la caccia a un altro lupo. Non s’è mai sentito dire.

— Quello non è più un lupo; abita fra gli uomini da un anno; dunque è diventato un cane. Fuggite! —

[220] Il comando fu dato con tono così imperioso che la vecchia e i piccini a galoppo serrato si persero in un batter d’occhio dietro gli innumerevoli intercolonni della selva.

Allora il Rosso, dopo essersi riposato qualche istante come riflettendo, piegò a sinistra e corse fuori del bosco, in un tratto libero, per qualche migliaio di metri.

Si sentiva l’orrendo fragore della muta lontana che cercava abbaiando qua e , ma avanti alla muta galoppavano, molto avanti, due cani enormi dal fiuto deciso, il secondo dei quali indubbiamente era un lupo.

Tal vista serrò dolorosamente il cuore del Rosso, che, nonostante, raccolse tutte le sue forze e si arrestò, facendo fronte, in posizione di combattimento.

Si avvicinavano; si distingueva benissimo le fattezze brutali di un colossale limiero di cui il sibilo, uscente dalle narici riarse per la corsa, tradiva la voluttà d’aver sentito la preda.

Dietro, il Grigio (proprio lui) ansimante, a grandi sbalzi guadagnava terreno.

A un tratto raggiunse il cane, gli si accostò, lo dinanzò, lo prese improvvisamente per la gola, con feroce disperazione, mentre il Rosso sbalordito accorreva senza saper pensare altro che una cosa: che bisognava pigliar parte alla lotta.

Sul terreno giallo fu un rotolio fulvo di pelarne, tra rantoli sordi, poi il limiero fuggì dalla parte [221] della muta, zoppicando, urlando, seminando il sentiero di larghe tracce di sangue.

— Di carriera, fratello! — ansò il Grigio — la muta vedendo il limiero ritornare in quello stato s’arresterà, non oserà inseguirci.

Ora i due lupi volavano, saltando fratte, burroni, fiumiciattoli e staccionate, sempre diritti.

— Ma, fratello — mugolò il Rosso stupito — tu ritorni a noi!

— Ritorno nel bosco. Ne ho fin sugli occhi della cuccia di legno e dell’acqua inzolfata.

— Ma i tuoi cuccioli?

— Quei bastardi? li ho strozzati.

— E... la cagna scozzese?

— Mi ha tradito... mi ha tradito per darci la caccia... capisci? ma i nostri cuccioli si troveranno di fronte ai loro in quest’altra stagione.

— Quando saranno grandi...

— Vedrai che strage! —

Erano a metà del monte, su certe rupi scoscese in fondo alle quali rombava un torrente schiumoso; e si fermarono colle gole ardenti da cui sfuggiva il respiro corto e frequente, facendo muovere in su e in giù le lingue rosse come il fuoco.

La muta, senza la guida del Grigio e del limiero, si accaniva sempre nello stesso punto, girando pazzamente avanti e indietro; si udivano i corni suonare ad un’immensa distanza.

Il Grigio dette in un riso di scherno:

— So le loro abitudini (aggiunse con un [222] fremito di gioia che gli commosse il pelame come il vento increspa l’onde), so le loro abitudini di giorno e di notte; faremo un colpo magnifico, straordinario..., agnellini di latte teneri e grossi tanto! Ah! fratel mio, che roba il cibo bell’e scodellato! ti fa un nodo qui allo stomaco come se tu avessi ingoiata la stoppa. La lezione è stata salata, ma da ora in poi...

— Basta — interruppe il Rosso che non conosceva abitudini borghesi — quand’è che rubiamo questi agnelli?

— Diamine! stanotte subito. Bisogna bene ricominciare a guadagnarci la vita onestamente. —


[223]


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