Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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IL “CALAFATO„

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UOMINI, BESTIE, PAESI

 

IL
CALAFATO


Come gli esploratori raccontano d’aver udita prima la voce, simile al rimbombo del tuono, dell’orango, così io udii, prima di vederlo, la voce del «calafàto».

Ascoltavo una messa cantata nell’antica chiesetta, che poi diventò caserma ed infine ripostiglio d’ogni rifiuto, all’isola del Giglio.

Il prete attaccò: «Credo in unum Deum...».

E, di dietro l’altar maggiore, un boato di mare in tempesta fece tremare la volta settecentesca, e poi si distinsero le parole che pareva scendessero dagli empirei, scaturendo dallo stomaco a bollore d’un profeta: «Patrem omnipotentem...».

Il tenente di vascello che mi stava al fianco, impettito nell’uniforme bianca sgargiante, mi dètte nel gomito.

– Che voce di basso! o chi è?

– È quello che vorrei sapere anch’io!

Le note s’alternavano, terribili. Pareva che l’isola intera ne fosse squassata, a furore.

Girai, dietro le spalle quadrate dei pescatori, fino all’altar maggiore e vidi il miracolo, e feci segno al tenente di vascello, perchè venisse a vederlo anche lui.

Un uomo alto circa un metro e settanta, con delle braccia lunghe quanto tutta la sua persona e nerborute come quelle di un prigione di Michelangiolo, si bilicava su due gambe ercoline uguali alle vòlte di un «tunnel» che sorregga solidamente una montagna, palleggiando sulle palme di due mani color noce, larghe quanto messàli, un antifonario spaventevole sul quale cercava, colle pupille grosse armate di occhiali doppi sotto due sopracciglia di peli irti, i càpperi salienti e discendenti del canto fermo.

Le vene del collo erano simili alle corde di aliga che trattenevano i grossi barchi-bestia ormeggiati nel porto, e la voce, come il tuono da grotta a grotta, si srotolava, reboante, facendo oscillare le fiamme dei ceri.

Appena finita la messa corsi in sagrestia e, senza dar tempo al parroco di svestirsi dei paramenti sacri: Don Francesco, dissi coll’alito mozzo in gola dalla commozione, voglio veder l’orso!

Il parroco mi sgranò in faccia due occhi spaventati credendo che mi fosse per dar volta il cervello.

– L’Orso? che orso?

– Quello che cantava!

– Ah! stavo a sentire! il «calafàto» forse?

– Il «calafàto»?..... sarebbe a dire?

– Quello che calafàta i barconi da pesca, il più dabbenuomo dell’isola, la perla dei miei parrocchiani..... ma, giusto! eccolo.....

Il «calafàto» coll’antifonario sulla spalla, dondolandosi come un bastimento che abbia girato una punta e cominci a ballonzolare sui flutti, coi cernecchi grigi scompigliati sul cranio quadrato, entrò, e posò il formidabile volume rilegato in legno e cuoio colle borchie di ferro battuto, con la stessa lievità che se si fosse trattato d’una piuma.

Allora vidi bene, nella sua completa essenza umana e divina, codesto fenomeno.

Un troglodite capace di puntellare la chiesa col groppone se un terremoto l’avesse sconquassata!

Si fece conoscenza, mi prese la destra, me la tenne prigioniera dieci minuti fra le sue mani dove spariva quasi inghiottita dalle mascelle d’un mostro, mentre mi dava il benvenuto parlando liberamente a nome di tutta l’isola. Poi m’invitò a bere a casa sua.

Mi scusai perchè ero digiuno, ma accettai per la mattina dipoi, quando avrebbe «dato fuoco alla Clementina».

per non capii chi fosse la Clementina perchè dovesse darle fuoco, ma promisi a lui, e a me stesso, d’andarci.

Se il vecchio Omero fosse stato , presente e pizzicante la sua lira quale è rappresentato in tante balorde statue accademiche, non avrei creduto di più di essere stato trasportato in pienissimo mito.

Il «calafàto» nudo fino alla cintura, col torso tutto bitorzoli e nòccioli e muscolature barocche guizzanti lampi di sudore sotto il riverbero, s’agitava davanti alle fiamme che mordevano sapientemente la vecchia pece bituminosa d’un barcone, sdraiato sur un fianco, come un cetaceo arenato.

Ogni tanto il «calafàto» distendeva le enormi braccia e correggeva le fiamme, insensibile alle lingue azzurre e gialle agitate dal maestraletto.

Intorno a lui, in ordine digradante d’altezza, sette giovinotti, tutti ignudi, salvo un par di calzoncini bagnati aderenti alle natiche e alle cosce, aspettavano gli ordini.

E ora si tuffavano in mare e, a forza di spalle, modificavano, tendendo i muscoli, la positura del barcone, ora agguantavano bracciate d’alghe secche e le disponevano, muovendosi incolumi, come deità marine stillanti acqua dai ciuffi neri dei capelli spioventi sulle fronti al pari d’erbe salmastre, intorno e sotto il pancione del mostro che sudava rivoli puzzolenti di catrame tenebroso.

A un tratto il «calafàto» mise in bocca le sue due dita della mano grossa, a forcella, e cacciò un fischio.

Immediatamente la turba degli ignudi si slanciò lungo la spiaggia lunata, girò dietro il cerchio delle barche in secco, e si scagliò coi piedi scalzi, insensibili, sulla scogliera irta, granitica, del frangiflutti.

Correvano, con metodo, come fossero sull’arena, coi gomiti ristretti ai fianchi, i pugni chiusi, le gambe statuarie, bronzee, che s’alternavano in ritmo uguale, le chiome ciondolanti e oscillanti e gocciolanti giù dalle tempie uguali ad alghe stillanti.

A un tratto si voltarono con un «fronte a destra» perfetto e si buttarono in mare.

L’acqua, al settemplice colpo dei corpi schiaffati nei flutti, sciabordò schiumeggiando alla base dei macigni, sconvolti ed immobili fra l’erbe galleggianti adunate dalla risacca.

Nello specchio tranquillo e verde sudicio del vecchio porto galleggiava una trave di «principain» enorme.

Sei vi sedettero sopra colle braccia sui petti ansanti e le gambe penzoloni, mentre il settimo spingeva il legno e il suo fremente carico umano, nuotando.

E nuotando, fumava una sigaretta.

Non potei mai sapere di dove l’avesse tirata fuori e come l’avesse accesa.

Giunti alla scogliera v’ingattarono sopra in un baleno e la pesantissima trave fu issata in secco; poi, bilanciata da quattordici braccia, venne appoggiata sopra sette òmeri di cui i deltoidi splendevano come fossero d’oro sotto il sole chiaro di quell’aria trasparente e salata; quindi la favolosa corsa riprese e i sette giovani ignudi, gravati di quel peso, premevano più duramente le scaglie dei graniti.

Ma era tale la loro agilità che pareva non poggiassero le piante dei piedi.

Così, di corsa, arrivarono al centro del porto dove stava il barcone e, con una scossa sola, si liberarono del trave maestro che rotolò sotto la chiglia fumante e gocciolante.

Allora grosse funi d’alga circondarono il mostro e le mani nocchierute del «calafàto» tentarono solidamente e rafforzarono i nodi. Tutte le funi vennero congiunte in una la quale formò un solo enorme canapo rigirato tre volte intorno a un àrgano tozzo di ferro, piantato fino a mezzo corpo nella terra sabbiosa.

In ogni buco dell’àrgano fu cacciato un tronco di legno durissimo, poi il «calafàto» incurvò il dorso, tutto luci ed ombre, sopra uno di codesti tronchi, vi appoggiò le mani colossali, distese le braccia lunghissime e, quanto potè, le gambe arcuate.

I pantaloni per lo sforzo gli discesero fino al fesso delle natiche, in cui la tensione scavava due fosse azzurre, e la cintura di cuoio, tempestata di bullette di rame, si schiantò e rotolò per terra dove rimase assaettata come un serpente a cui sieno state spezzate le reni con un colpo di bastone.

I sette figlioli agguantarono ciascuno, e anche due e tre insieme, un legno, e qualche pescatore si levò la camicia, la scaraventò lontano, e li imitò. Ora, col «calafàto» ammontavano a sedici.

Il «calafàto» disse con la sua gran voce: Ooo!

Gli uomini, col capo curvo, coi capelli che ciondolavano spazzando quasi la sabbia, risposero: Ooo!

Poi l’argano scricchiolò orrendamente, i legni si curvarono, simili all’arco teso di Ulisse, e la bestia umana a sedici dorsi a trentadue gambe e altrettante braccia, si mosse.

Non s’udiva una parola.

Il porto bruciava, più dell’erbe allontanate dalla ghiglia del barco-bestia le quali finivano d’ardere senza fiamma facendo tremolare l’aria afosa, sotto il gran sole della mattina che suscitava tumulti di pietre preziose sull’acque agitate da una tenue vela di maestrale.

Le donne avevano smesso di rappezzare le reti, i vecchi di fumare la pipa, i ragazzi di giocare colle barchette di sughero e le vele di cambray che deponevano sulle sbavature del risucchio divertendosi a vedersele portar via; tutti, ansiosi, seguivano, trattenendo il respiro, l’argano che girava, gonfiandosi di corde, come un immane serpente si gonfia di spire, acciambellandosi per vibrare un colpo, turgendo di forza compressa pronta a scattare.

A un tratto s’udì un gèmito strano.

Il barco-bestia si lamentava.

Le fibre del suo legno stagionato, imbevute di sale e di pece, sospiravano raucamente nello sforzo di sollevarsi dalla terra; loro, use a ballonzolare sul dorso dei flutti, a prova coi «foròni» i delfini agili che bucano le reti dei pescatori nei plenilunii e li deridono, allontanandosi, col suono schernitore di Barbariccia.

Finalmente, quando l’argano fu gonfio di canapo sino alla capocchia, e le funi tese da schiantare, il barco-bestia sussultò, si crollò, si sollevò sul trave maestro e venne avanti, come un pachiderma, protendendo la prua nuda da cui si sporgeva la figura carnicina d’una sirena dalla coda dipinta d’azzurro, inquieta di non vedere agitarsi sulla sua fronte l’ombra del bompresso.

E il «calafàto» disse «Stòp!».

Quindici gole risposero: «Stòp!».

E le statue di bronzo tornarono a raddrizzarsi nel sole, immobili e ferme come deità Egizie.

Il «calafàto» si tirò su i calzoni, se li portò sopra l’ombellico e li ricinse colla cinghia di cuoio, e respirò forte, con un gran respiro di bufalo.

Una giovine, tipo bruno di Saracèna dalla pelle bianca, forse la sposa d’uno dei figli, portò il fiasco dell’ansonico aspro color dell’oro, e bevemmo, tutti.

Il «calafàto» non bevve.

Mi spiegò: Ne bevevo tre fiaschi al giorno, di questo..... finchè mi prese una malattia di stomaco, tremenda. Il medico di Santo Stefano mi disse che si trattava d’un cancro e mi spacciò. Ma io feci voto a San Mamiliano benedetto che, se guarivo, non avrei più toccato vino. Son guarito e mantengo la promessa.

– Alla salute!

– Alla vostra!

Il «calafàto» dette una spalmata possente nella pancia del barco-bestia:

Ora, disse colla sua voce tonante, ti ridarò il catrame e ti richiuderò le ferite. Potrai andare anche in Tunisia! Tutte queste barche, qui intorno, le ho guarite io, le ho rimesse a nòvo io.

Il prete appariva dall’angolo della «Cala dei Saracèni» facendosi vento col nicchio.

Don Francè...! un bicchieretto!

Volentieri. E... quando si ribenedice questa barca?

Lunedì mattina si vara e si ribattezza.

– A denti asciutti?

Diavolo! Guardi, c’è qui Momo da .....

Il padrone della barca, vecchio, rubizzo, rosso nel collo e nel viso come lo sverzino, aprì le braccia a un gran gesto di muta protesta.

– Farò fare un cacciucco alla mia vecchia, che lei non ne avrà mai gustati in quel modo. Cacciucco di murène, zi prè..... e di palàmita, di musdèa e di pesce prete.

– Quel pesce che non muore mai neanche fuori dell’acqua?

– Di quello!

Il maestrale rinforzava. Le barche ancorate nel porto sussultavano, strusciando i fianchi, impeciati e protetti dai cuscinetti d’alghe, l’una con l’altra, e il «calafàto» le contemplava soddisfatto, colle braccia incrociate sullo stomaco immenso, le manòne spietate aggrinchite sui bicipiti nudi grossi come teste di ragazzi. Tutte quelle barche, le aveva curate lui, ad una ad una, dalle ferite invisibili del mare; ed era come se le avesse fatte, come se fossero tante sue figliole dilette. Era , sovrano, in mezzo alla sua doppia famiglia, di ragazzi, di giovanetti, d’uomini, di nuore, di nipoti, e di velieri. Io lo guardavo, umilmente e con un po’ di stupore; come un avanzo preistorico, come una cosa favolosa, piovuta dalle lontananze omeriche, per un incantesimo nòvo, e sentivo bene, accanto a lui, vivo eroe inconsapevole e felice, la disgrazia e la povertà della mia morta, tronfia letteratura impotente. Il maestrale cominciava a far sibilare le sartie, mentre tutti i velieri s’alzavano e s’abbassavano sempre con maggior forza, tra lo sciacquìo delle ondate, ed egli pareva passarli in rivista, prima di scioglierli dalle catene e abbandonarli, superbi, alle vicende del mare.


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