Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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MEDIOEVO

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MEDIOEVO

Voglion passare in casa? Senza complimenti... dovranno scusare... son catapecchie da poveri... c’è la cucina sottosopra... la massaia ha il bucato sul fuoco... ma queste mura (mi facciano il piacere di guardarle) non hanno paura di scosse!

Si entrò tutti e tre (io, il mio amico Livio e l’inseparabile Foffo) in casa del contadino che ci faceva strada col cappello in mano, e, come si fu dentro, noi ci si levò il nostro e lui si rimise il suo, poi nessuno disse più nulla perchè s’era rimasti a bocca aperta.

La stanza dove ci si trovava pareva un’immensa cucina, ma, guardando attentamente, si finiva coll’accorgerci che in origine aveva servito a tutt’altro scopo.

Il paiòlo della lisciva barcollava, appeso alla catena, sulla fiammata di castagno, sotto la càppa di un camino patinato completamente di nero dal fumo, di linea semplicissima, con uno stemma inquartato nel centro, e sostenuto dai capitelli a fior di loto di due colonnine ottagonali.

Le vòlte della cucina erano formate da otto cappucci a crociera e l’altezza, dal pavimento al soffitto, indicava i larghi ed igienici criteri di costruzione medievali.

– Che cosa ne dice?

Dicorisposi al contadino il quale m’interrogava – che, probabilmente, è stata fatta diventare cucina colonica la sala da pranzo o da ricevimento di qualche signorotto del due o del trecento.

– Lei dice benissimo; e tutti quelli che vengono quassù (s’intende gli scienziati come lei) dicon lo stesso; dunque, dev’esser vero.

– È vero, senza dubbio; ma ora bisognerebbe sapere che cosa c’era prima, dove ora sorge questo gruppo di case. Per dir la verità nei libri dove si parla di questi luoghi le rovine son descritte come quelle del castello di un messer Zate o Zati; ma chi diavolo fosse e cosa ci facesse qui questo fortilizio, non m’è riuscito mai di saperlo. Basta! andiamo fuori a vedere.

E si uscì, nel sole.

Alte mura s’aggrappavano ai macigni della collina appoggiandovisi colle scarpate oblique e alzavano il colore rossastro della pietra, dorata dal tempo, nel sole, mentre, fuori da tutte le fenditure, dalle menome crèpe, una rigogliosa vegetazione di capperi agitava al ventolino, che lassù spira sempre, le capigliature di smeraldo.

In quelle mura, dove ancora si riconoscevano le tracce delle porte e delle finestre, in quelle torri scapezzate e ridotte ad uso d’abitazione con aperture pazzesche di finestre e arbitrarî accecamenti di luci, la idiozia degli uomini moderni aveva fatto nascere delle case la cui assurdità veniva salvata soltanto dal meraviglioso colore che i secoli, artisti pazienti e infallibili, avevano steso sui mattoni e sui sassi.

Io, anzi, mi meravigliai che nessuno avesse ancora spalmato un bell’intonaco di calce, secondo lo squisito buon gusto strillo-cubista di quest’epoca ineffabile, su quegli avanzi; però il contadino fu pronto a rassicurarmi che ci avevano pensato, ma il Governo l’aveva proibito.

Mentre fra mezzo il viola freddo delle mura in ombra, sotto la curva incrollabile d’un archivolto, per una porta di pietra bigia stemmata alla sommità, si introduceva una fila di pecore i cui contorni venivano brillantemente disegnati dal raggio di sole dentro il quale passavano, io alzai gli occhi all’unica fra le torri rimaste in piedi che avesse ancora l’apparenza lontana dell’ufficio per cui fu eretta e domandai se c’era modo d’arrampicarsi sulla cima.

– Sì! fin verso la metà del novantacinque ci si poteva salire; ma poi battè il famoso terremoto e anche questa torre, che era intatta coi suoi merli e ogni cosa, fu dovuta scapezzare per sicurezza, e ora, come vede, l’hanno coperta con un tetto e noialtri si adopera come granaio.

– E di lassù, che cosa si scorgeva?

– Di dietro e dalle parti il panorama di questo monte, come lei può figurarsi, e di fronte, invece, la vista è coperta da quell’altro castello.

Difatti, affacciandomi fuori, vidi un’altra costruzione, pure d’origine medioevale, rifatta probabilmente nel seicento, colla torre di vedetta, diventata una colombaia, che s’alzava, presso a poco, all’altezza di quella sovrastante ai ruderi fra i quali eravamo noi.

Sicchè, dissi, in mezzo a queste poggiate, che sei o sette secoli fa dovevano essere dei veri deserti, c’erano due castelli, proprio l’uno di faccia all’altro! O che diavolo saranno stati? Vedette degli Aretini, dalla parte del Valdarno, o dei Fiorentini, o, magari, di qualche feudatario rimasto, sino ad una certa epoca, indipendente? Saranno stati tributarii della Badia o avranno commesso estorsioni anche a danno dei monaci? Vattelappesca!

Il contadino, dopo aver fatto qualche cerimonia, accettò un sigaro che gli dette Livio, lo spezzò, se ne mise mezzo in tasca, cacciò quell’altro in bocca biascicandolo bene bene e lo risputò fuori tenendolo fra le labbra senza accenderlo; poi disse, adagio: Per dir la verità codeste cose l’ho sentite dire anche da quegli altri scienziati come loro (il mio amico Foffo, bracconiere e ostinato analfabeta, a sentirsi dar di scienziato non battè ciglio) ma io, se gli ho a dir la verità, ci credo poco.

Sentiamo, dunque, la vostra opinione.

– Ecco..... sa, non per passare avanti alle signorie loro, che vuole? siamo dei poveri zotici..... ma, insomma, pare per via che neppure a quei tempi nessuno andava d’accordo, che due signori di questi posti avessero montato questi due castelli proprio uno di faccia all’altro per combattersi continuamente.

– O come si chiamavano codesti bravi signori?

– I vecchi ci hanno detto che si chiamavano Barbagio e Pappafico.

– E non ne sapete altro?

– Io no! So solamente che tutti quelli i quali vengono quassù dicono che questa roba è tanto bella e che darebbero qualunque cosa per tornare a quei tempi.

– E allora, galantuomini, arrivederci.

Quando si fu in fondo alla collina, dove la gora d’un mulino si getta nel torrente che divide il territorio d’un castello da quello dell’altro, ci si fermò ad osservare quei due pinnacoli minacciosi, coronati uno d’olivi cenerini, l’altro di castagni verdi e gialli, e che parevano davvero intenti a guardarsi in cagnesco; rievocando, colla fantasia, quei tempi, detti anche dolci, e remoti.

Se fosse stata vera la leggenda tramandata di padre in figlio, tra quei contadini, che razza di vita sarà stata mai quella del povero Pappafico e del disgraziato Barbagio?

Il sole ora scottava maledettamente piombando a picco sui macigni aspri di quello scoscendimento su cui fremevano chiome azzurre d’olivi e brividi dorati di castagneti; tre o quattro anitre gialle, felici, nuotavano voluttuosamente in tondo nella gora e una bella ragazza, con una pezzuola scarlatta intorno alla testa, cantava con una cadenza che ricordava vecchissime musiche, di carattere amoroso, ma di stile liturgico, lente, come, in passato, doveva essere lento a trascorrere il tempo.

Io avevo un cappello di paglia, sotto il quale colavo dal sudore, e mi sarei tanto volentieri levata la sottoveste troppo grave che avevo indossata in previsione d’arrivare accaldato sulle cime dove tira vento; e ognuno di noi portava un bastone che faceva comodo alla salita, ma di cui si sarebbe disfatto tanto volentieri alla piana.

A un tratto Foffo, personificazione del buon senso guardingo di Sancio Pancia (il quale soleva correggere con osservazioni di un realismo spietato l’idealismo cretino di Don Chisciotte capace di buscarne a morte per negare le bellezze d’una donna sconosciuta ed esaltare quelle d’una contadina deforme scambiata per una principessa irresistibile), Foffo, analfabeta metafisico, scosse la pipa sul palmo calloso della sua mano snodata di figulinaio imprunetino, e disse, quasi parlando a se stesso:

– A quel modo sarebbero stati i tempi che dicono fossero tanto belli? Gli parranno belli ora, perchè veggono gli avanzi, ma a trovarcisi doveva essere peggio che andar di notte! Che vi gira? Io non farei altro che passeggiare; mi noia anche la giubba, e queste scarpe, che mi regalò il signor capitano quando c’erano i prigionieri austriaci alla fornace, non mi riesce di portarle... E gli uomini d’allora o non uscivan di casa, o, se uscivano, bisognava si vestissero di ferro da capo a’ piedi!

» Ma ci ha pensato mai, sor Ferdinando, a quel che avrà voluto dire andar girando, con dei bollòri come questi, mentre oggi noi s’invidiano le donne, che ormai hanno deciso di dar aria ad ogni cosa, con una marmitta di ferro in capo, con un coperchio di teglia sul groppone e uno sullo stomaco, con due tegoli sulle cosce, e, mi figuro, con sotto tanta stoffa di panno o di velluto da non s’impiagare le cicce movendosi con tutti quei triboli addosso!

» E l’avete viste mai, le testuggini? Ecco; gli uomini di quei tempi si riducevano testuggini! E se uno cascava giù da cavallo, ce ne volevan quattro di quegli altri a rimetterlo sopra, come succede a Calino quando gli ruzzola dal barroccio un sacco di carbone!

» Bella vita! Barbagio, a uscir fuori, aveva paura di Pappafico, e Pappafico aveva paura di Barbagio! E se no, bisognava si bardassero come cavalli e pigliassero con tutta la sua gente. Vestiti di ferro, facendo due passi sur un mattone, sudando di verno (a risico di pigliare un malanno quando si levavan di dosso tutta quella battaglieria) e soffocando di state, dovevan soffrir mille morti. E ogni tantino, bòtte! e Dio ne liberi a chi era senz’armi!

» È vero che se ne dovevan tirar cento e chiappar nel segno soltanto con una, ma quella, dove arrivava, non lasciava ricrescere il pelo!

» E poi (badi che questa, se ci pensa, è la più grossa di tutte) mi dica un po’ lei come avranno fatto a grattarsi? Ci pensa che supplizio, di questa stagione? Già, con rispetto parlando, dovevano anche puzzare! Per forza facevan belle le case; se ci passavan dentro tutta la vita, rinchiusi! no! no! quello non era il modo di vivere.

» Invece noi siamo liberi; la mattina io scendo alla fornace, a piedi, cantando, con la cagna avanti e in tasca non porto neppure uno spillo. La sera si va al caffè..... la domenica al cinematografo. E quelli, invece, sempre in casa, chiusi come le talpe, senza luce elettrica, senza... (ma come avranno fatto a resistere?) senza fumare! E un tale, l’altro giorno avrebbe preteso di persuadermi che il progresso non c’è, che i1 mondo non ha mai cambiato! Ma io quando guardo quell’uomo brutto vestito di ferro che, dicono, scuoprì un pezzo di America, ritto come uno spauracchio sulla piazza di Greve nel Chianti, e paragono il suo vestito col mio, mi par d’essere, in confronto, il Re del Siam! Almeno se mi si sdrucisse una scarpa, la fo ricucire, ma lui bisognava che andasse dal manescalco! Insomma io che mangio, bevo, dormo, lavoro e non do noia a nessuno, in questo secolo ci sto benone e non tornerei addietro per tutto l’oro del mondo. Stretta la foglia, larga la via, dite la vostra, ch’io ho la mia».

Ma nessuno ebbe fiato di dir la sua. Il medioevo era demolito! Il successo di Foffo era stato addirittura trionfale.

Peccato che, quasi subito, se lo volle sciupare; perchè, arrivati alla bottega della vecchia Fiamma per bere un bicchiere, Foffo (il quale da quando l’ho ricordato nelle novelle ha la mania d’esser celebre) intese di far colpo sui barrocciai e sui cacciatori che affollavano la bottega e disse all’ostessa:

– Mi riconoscete?

– Io, francamente, no.....

– Eppure, mi dovreste conoscere..... mi conoscon tutti.....

– Sarà; ma io non vi conosco.

– E allora ve lo dirò io! Son Foffo!

– Ci ho piacere per voi; ma è la prima volta che vi sento nominare.

Ci fu un attimo di silenzio penoso; come nei salotti aristocratici, quando qualche personalità ha commesso una gaffe e nessuno sa più come riattaccare il discorso; ma Foffo, voltandosi a me e accennando colla punta del bastone verso Fiamma, disse con dignitoso disdegno: «Già! Cosa volete che sappia lei? Lei è del trecento.....


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