Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
Lettura del testo

IL NAUFRAGIO DI GIACOMONE

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

IL
NAUFRAGIO

DI
GIACOMONE

Quando si scese, giù alla marina, dopo avere visitato minuziosamente la miniera, abbandonata, di marcassite, per rimontar sulla nostra barca, questa ballava sopra le creste dei flutti come se, all’improvviso, fosse stata presa da un attacco d’epilessia.

Il mare, che appariva, quando si poneva piede nella prima galleria della miniera, di un bel color smeraldo chiaro punteggiato appena, qua e , da qualche fiocco biancastro, era divenuto, ad un tratto, di un colore turchino cupidissimo il quale si rompeva moltiplicandosi in marosi innumerevoli capricciosamente frangiati d’argento.

Codesti flutti impennandosi e correndo sospinti da un improvviso soffio di tramontano, parevano davvero cavalli bizzarri scaturiti per incantesimo dalle favolose lontananze del mare. Spettacolo, come ognuno intuisce, bellissimo; ma intanto a noi toccava di rimanere dove s’era perchè di salpare non si poteva neppure discorrerne.

Per fortuna non lontano dalla miniera, lungo la riva lunata di un piccolo golfo, esisteva un gruppetto di case dove si sarebbe potuto trovare da rifocillarci con facilità; quanto al ricovero per la notte io proposi senz’altro d’acconciarci all’addiaccio, in un punto riparato della macchia sul mare.

Nessuno di noi aveva per fortuna dimenticato, come si costuma sempre in Maremma, il mantello; sicchè, tirata in secco l’inutile barca, ne togliemmo fuori coperte ed indumenti di lana e si risalì poi la pendice del monte, sopra la marina, in cerca del punto dove potere accampare.

Una punta rocciosa, come uno scoglio dallo schiaffeggiar dei marosi, s’alzava dall’intrico verde della macchia bassa tosata dal respiro ardente del libeccio, formando una radura gialliccia in mezzo a una siepe di specie circolare che pareva tagliata dalla mano dell’uomo.

Il fuoco del sole si spegneva lentamente in fondo all’orizzonte pulito come un cristallo, incendiando il terreno metallico dell’immenso squarcio franato giù in mare in chissà quale cataclisma preistorico, quando, in seguito ad uno sconvolgimento mostruoso, smisurate piramidi di granito si staccarono forse dal continente diviso da una furia improvvisa d’acque, e le loro cime, emergendo dalla grande distesa, formarono le isole. Era un disco rosso che, tuffandosi nell’onda, pareva mandar faville e fumare, come fosse di ferro incandescente. E noi di fronte a codesto gigantesco pezzo di metallo in fusione s’ebbe l’audacia d’accendere un focherello di sterpi sui quali gettammo dei grossi rami di macchia alzandoci intorno una specie di focarile di sassi.

Ma il nostro modesto fuoco, rapida calando la notte, apparve subitamente immenso, le macchie sembrarono più opache e più formidabile il fragore del mare.

Illanguidendo la vampa, fu cotto quello che si potè sulle braci ardenti e dalla capace fiasca di bordo spillammo a turno il vino dell’isola che fa serpeggiare una fiamma viva dentro le vene.

Poi fu dolce, adagiati sul cubito, guardare, senza pensiero, l’incommensurabile volta nera punteggiata di misteriosi luci tremanti, mentre d’intorno la voce del mare invisibile empiva furibonda la notte e il vento pareva tentare con frenesia i fianchi dell’isola che non si crollava.

Ancorata in fondo agli abissi con propaggini di pietra alzava a fior d’acqua il vertice del suo triangolo sul quale passavano lente le stelle, e il mare da secoli urlava di rabbia, ora da una parte ora dall’altra, finchè spossato dalle inutili collere, si adagiava in formidabili calme esalando in mezzo al languore del crepuscolo violetto il respiro affannoso del risucchio contro le sponde di granito.

Il vento soffiava dalla parte opposta a quella dove eravamo accampati e non ci dava molestia, ma nelle pause di silenzio dal nostro chiacchiericcio, la voce del mare che si scagliava ritmicamente contro il fianco a nord dell’isola appariva, per la distanza, così maestosa da mettere quasi sgomento.

Ormai il fuoco era estinto e dal buio fitto le storie e le leggende narrate dai vecchi lupi di mare, che avevan condotta la barca, pareva assumessero parvenze e forme di realtà.

Giacomone, il più vecchio, raccontava di quando naufragò sulle «formiche» di Grosseto e passò quarantotto ore nel canale agguantato a un rottame.

Gli altri ascoltatori (tutti «marini», come dicono loro) si limitavano, accompagnando coll’animo sospeso le peripezie del naufragio, a soffiar sospiri nelle barbe ritrose e a gridare al compagno, toccandosi col pollice della mano destra, traversalmente, la fronte «Così ce l’avete fatta, compà», ma a me premeva di farmi un’idea dello stato d’animo d’un individuo in quelle condizioni.

– Come vi passava il tempo, compare?

– E chi lo sa?..... Per un poco provai a recitare il rosario; ma poi mi accorsi che mi indebolivo troppo e risparmiai anche il respiro.

– E in che modo faceste a resistere, a non lasciarvi vincere dallo sgomento, insomma a non vi abbandonare?

– Si naufragò sul tramonto..... il mio compagno, un vero pesce, dev’essersi abbandonato per aver battuto la testa in qualche frantume perdendo i sensi..... Io, rimasto solo, riuscii ad agguantare un pezzo d’albero..... e quando potei cacciarmelo fra le gambe ed ebbi trovato a tentoni un pezzo di fune della vela, mi ci attaccai come la rèmora al bastimento e mi sentii più sicuro.....

«La notte fu lunga; una volta salivo su, verso le stelle e vedevo sotto tutto il mare, nero come l’inchiostro, che bolliva soffiando, una volta ripiombavo giù, in fondo ad una voragine con certe pareti a picco pencolanti che guai se si fossero richiuse!... ma quando ebbi capito che il colpo da cui era tirato giù era il medesimo da cui venivo ributtato su, ci feci l’abitudine e non ebbi più tanta paura.

» Avevo paura invece che non mi facesse qualche brutto scherzo lo stomaco..... verso l’alba sentivo un’uggiolina, un languore... poi quando si fu levato il sole e il mare prese a calmarsi, tutto quello scintillio di brillanti cominciò a farmi abbagliare gli occhi, a darmi delle vertigini, compresi che stavo per svenire.....

» Allora, senza lasciare la corda, di cui, anzi, mi annodai, accuratamente, un pezzo al polso sinistro, mi lasciai scivolare sull’acqua facendo il morto.

» Fu la mia salvezza! Piano, piano, con quel movimento di culla, ripresi un poco le forze... e credo perfino d’essermi addormentato... o quasi!

» A lei questo parrà impossibile..... ma pensi che noi siamo nati (si può dire) nell’acqua.....

» Verso il tramonto si rimise un po’ di mare e lo stomaco si rifece vivo con dei crampi da piegarmi in due: non potendo più star supino, trovai un refrigerio rimontando a cavalcioni sul pezzo di legno, a cui, come le ho detto, ero rimasto attaccato per la fune e sul quale mi potevo curvare durante gli attacchi dello stomaco.

» Ma la seconda notte fu terribile, e mi sarei, davvero, lasciato andare se, improvvisamente, non mi fossi avvisto che la corrente mi spingeva, per quanto adagio, dalla parte di terra.

» La terra, si capisce, non si vedeva, chissà a che distanza era! Eppure servì codesto pensiero a farmi entrare addosso una specie di frenesia, un’eccitazione, la quale ebbe forza di sorreggermi ancora quel tanto bastante a farmi resistere.

» Mi ricordo che ogni poco mi veniva in mente qualche cosa di nuovo e poi la medesima idea, che mi aveva dato il coraggio, me lo toglieva...

» Per esempio, pensavo che, di , dove ero io, poteva passare qualche transatlantico e scoprirmi col riflettore o col lume di prua... ma subito m’assaliva la paura che il vapore mi sfracellasse colla chiglia o coll’elica urtandomi senza avvistarmi.....

» M’ingegnavo di scorgere l’attrezzature d’un veliero, ma poi mi rammentavo che nella scia dei bastimenti navigano i pescicani colla mezzaluna della bocca aperta e armata di denti aguzzi come coltelli, e un brivido mi percorreva la schiena.....

» Insomma, più d’una volta, sfinito, senza più fiato, mi raccomandai a Dio e mi lasciai piombare nell’acqua guardando, sopra di me, il cielo come se non dovessi vederlo più...

» Lei, veda, signorino, sarebbe andato giù come un pezzo di ferro, a dormire su quelle belle praterie d’alghe del fondo! io, invece, appena l’onda mi pigliava nelle sue braccia, pareva diventassi di sughero, e non c’era più versi (l’istinto!) che potessi affondar d’un capello. In una parola, gliel’ho a dir come sta? Mi sentivo morire e non mi riesciva di morire.

» Quando, finalmente, una barca sardignola mi trovò sul tramonto della seconda giornata e mi tirò a bordo, ero senza fiato e tutti dissero che, ormai, più di qualche altra ora non avrei potuto reggere. Mi sarebbe mancato, ad un tratto, anche quel filo di resistenza istintiva il quale mi ributtava a galla ogni volta che qualcuno invisibile mi tirava giù per i piedi, e sarei colato a picco senza avvedermene, morendo come in un sogno».

Nel buio brillò la fiammella d’uno zolfino illuminando i triangoli rossi d’un naso e d’uno zigomo, e il vecchio Botte, accesa la pipa, raccontò di essere stato straccato, dopo un fortunale, su certa insenatura Còrsa, dove, riavutosi in una grotta, aveva visto venire a ricoverarcisi un bove marino che tutta quanta la notte urlò dalla bocca dell’antro, senz’accorgersi di lui più morto che vivo, chiamando sul mare sconvolto la sua compagna perduta.

– O voi che cosa facevi, in quel mentre?

– Mi raccomandavo l’anima ai Santi! Aveste sentito che muggiti! Tali e quali come quando il mare, a tramontano forte, entra dentro le buche fatte dal vento nelle scogliere. Ma allorchè la spuma dei cavalloni doventò color di rosa e fu prossima l’alba, di mezzo al mare rispose un muggito compagno e il bove con un salto magnifico si buttò a capofitto e scomparve.

Un altro disse di quando navigò di conserva colla sua barca a vela, per più di un chilometro, nell’acque di Montecristo, accanto alla mole d’un capodoglio, colla paura che questi si voltasse rovesciandola d’un colpo di coda.....

– O come vi poteste salvare?

Bordeggiando adagio, adagio, come piacque al Signore; perchè il mostro dormiva.....

L’ultimo, invece, raccontò di quando la barca dove navigava lui fu presa dal raggio d’una tromba marina e fu salvata, giusto l’uso del più vecchio di bordo.

Io avrei voluto conoscere i particolari e, possibilmente, le parole dei famosi scongiuri, ma da quel momento non ci fu più modo di cavar nulla di bocca a codesta gente. Mi avvertirono soltanto che il vecchio, ormai, era morto e che, per quanto fosse certamente inutile, avrei fatto bene a mandare anch’io un requiem all’anima sua.

Con tutti questi discorsi il tempo era volato e la grande orsa tramontata da un pezzo.

Detto il requiem in raccolto silenzio, nessuno più aperse le labbra, finchè io, fra la stanchezza e qualche bicchieretto bevuto ascoltando, persuaso dal respiro, ormai più calmo, del mare, mi rinvoltai nel mantello a piè d’un tallo di querciolo e attaccai un sonno da prelato.

Mi svegliarono dopo due ore delle grida terribili, che ci fecero alzare e correr tutti sul luogo donde provenivano.

Nell’incertezza viola dell’alba il più consumato di quei lupi marini tornava stravolto verso di noi, accennandoci uno spazio color di rosa in mezzo al verde cupo della macchia:

Laggiù..... mirate. Si muove..... mi viene..... incontro..... prenda il fucile!.....

Io fissavo con attenzione spasmodica il posto, dove indicava quell’uomo il quale aveva sfidato tante volte la morte; ma non mi riuscì di vedere altro che un lungo stelo di lucerbolo, disperatamente agitato dal brivido freddo che precede l’aurora.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License