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IL
DÒDOLO
Dòdolo, come vanno gli affari?
– Mah! quando deve andar male, che la vada sempre così, Donne, c’è il cenciaioloo! Chi ha ossi, cenci, scarpe rotte da vendere..... donnee!...
E il Dòdolo, brutto, crivellato dal vaiòlo, come un vaglio, cispelloso, sciancato, lendinoso, se ne andava via a testa alta spingendo il suo carrettino con un’aria che nemmeno il Re di Spagna.
Eppure, ogni tanto, si pigliava anche il lusso d’un desinare vero, colla minestra e ogni cosa, all’osteria.
Il povero Grillino si disperava quando se lo vedeva entrare in bottega perchè, sudicio come era, nessuno lo voleva a sedere vicino; ma tant’è, i quattrini del Dòdolo pagavano come quelli del signor avvocato e bisognava se lo succiassero.
– Dòdolo in codesto arnese non vi ci piglio!
– E io m’infilo la giacchetta..... avete ragione.
Le giacchette del Dòdolo!
Altro mistero profondo. Ogni settimana ne mutava una: cacciatore, giubbe a due petti, tuniche da militare, cappotti da fanteria o da artiglieria, giacchettine stremenzite da giovinetto, perfino «taits», e certo giorno una redingote con mezza falda che gli procurò una grande ovazione da parte di tutti gli avventori i quali, all’ingresso del Dòdolo in quell’arnese, si alzarono in piedi, come un uomo solo, quasi fossero stati precedentemente d’intesa, e intonarono a una voce, la marcia reale, accompagnandosi in cadenza coi manichi dei coltelli sopra i bicchieri.
Mai, a memoria di nessuno, da Grillino s’erano divertiti in quel modo.
Ma il mutare di buccia, per il Dòdolo, era nulla, in confronto a quello che ognuna di quelle bucce diverse rappresentava.
Ve n’erano alcune le quali potevan chiamarsi poemi. Una cacciatora lacera bisunta, scolorita dalle intemperie, ma cogli spallacci elegantemente intrecciati e i lacciòli per stringere la cintura all’inglese, narrava la storia d’un’eredità passata dal padroncino al guardacaccia, dal guardacaccia al figliolo maggiore e da questi al contadino, mentre un cappotto da artiglieria diceva come dal tumulto del reggimento e dalle gioie fanfaresche del buttasella nelle belle mattine gelide e luminose fosse passato a coprire le spalle del cieco a sedere sul pilastrino colla ciotola tesa e il cane ammaestrato accanto.
Infatti il cappotto era turchino nel groppone, difeso probabilmente da un muro, e stinto davanti, dove la pioggia e il sole avevan battuto.
C’era perfino chi aveva visto addosso al Dòdolo un panciotto scarlatto, e i vecchi sussurravano che fosse stato il panciotto del boia!
Il Dòdolo intanto s’infischiava di tutte le chiacchiere e seguitava a sfoggiare una varietà di guardaroba strapanato e bizzarro da disgradarne il principe degli straccioni.
Generalmente il Dòdolo girava alla larga dal proprio paese. Instancabile, faceva col suo carrettino miglia quanto il pensiero, ma oggi che la roba costava un occhio del capo, cominciavano a trovare strano come potesse procurarsi ancora cenci e casacche smesse in mezzo alla campagna, nei casolari lontani.
Eppure tutti i sabati, piovesse, nevicasse o tirasse vento il Dòdolo usciva dal suo tugurio con un sacco, apparentemente pieno d’ossi e di cenci, in ispalla, e a piedi, colla pipa in bocca e il suo passo stanco di bestia, se ne andava in città a convertire la sudicia merce in danaro.
Quando ritornava, a notte fatta, aveva addosso un’altra giacchetta inverosimile e in tasca tanto da poter entrare da Grillino e ordinare con sussiego le paste a sugo e un litro di quello da moribondi.
Una bella sera l’osteria era piena come un uovo, quando il Dòdolo, che da un pezzo non si faceva più vivo, entrò con aria trionfante e, spalancata la «vetràge» multicolore della sala terrena, si fermò sull’ingresso quasi pavoneggiandosi e coll’intento di lasciarsi ammirare in tutta la sua peregrina bellezza.
L’urlo che stava per scaturire dalle bocche dei commensali fu troncato a mezzo nelle strozze avvinate dallo spettacolo di quella novissima meraviglia.
La faccia camusa, forata di puntolini e pustolette verdi come da tanti pallini da schioppo, del Dòdolo, spariva sotto un «Metternich» bigio, sporco, con tutto il pelo ritto a guisa di quello dei cavalli quando si sono aombrati.
Dal collo, invece di cravatta (perchè la camicia non esisteva) pendeva una fusciacca che un tempo fu rossa, da carrettiere, e che, ripassata due volte sotto il pomo d’Adamo, serviva anche da goletto, mentre le spalle, il torace e le braccia erano insaccati in un abito a coda di rondine con due falde lunghissime, con grandi sdrusci nei gomiti da cui uscivano le sfilacciature d’una vaga rimembranza di fodere in seta e con immense sgorature, nauseabonde, oleose, da per tutto.
Ugo, impiegato alla cooperativa, scapolo e che pigliava i pasti in trattoria, fu il primo a reagire a quella specie di stupore da cui erano restati tutti paralizzati.
S’alzò di scatto, prese le falde del Dòdolo nelle mani e cominciò a cantare sull’aria di una marcia funebre:
«Ce ne avremo, ce ne avremo
lungamente, lungamente»
«Lungamente a ricordar!»
Il Dòdolo impettito, salutando la folla col Metternich, che ad ogni saluto si staccava dalla tesa allungandosi ed accorciandosi a mo’ d’un soffietto di organino, fece il giro della stanza e finì per sedersi al suo tavolo nel consueto cantuccio, mentre Ugo comicamente gli domandava: Che cosa posso servire a Sua Altezza? Che cosa comanda, stasera, da cena, Sua Altezza?
E giù risate, tutti, da scarrucolarsi le vertebre.
In mezzo a quel brusio, un contadino, padron sul suo, abitante qualche diecina di chilometri distante, venuto lassù per affari e che mangiava con padron Gosto, (povero fittavolo pien di miseria detto «padrone» per colmo di scherno dallo spirito crudele del popolino) si chinò al suo orecchio e gli disse: Sbaglierò, ma quella roba che ha il Dòdolo addosso mi par di conoscerla.....
– Non posso propriare e non vorrei pigliare un abbaglio. Ve lo saprò dire domani sera.
Padron Gosto non ebbe occasione di rivedere il contadino e a quelle parole non ci pensò più. Solamente, siccome aveva combinato un bell’affare di fichi primaticci, perdè tutto il suo tempo a fabbricare un magnifico spauracchio per via che, avanti della raccolta, non glieli beccassero i passerotti.
E lo spauracchio, di paglia, tutto vestito, con pantaloni, panciotto, giubba e un cappellaccio di feltro, s’alzò a braccia spalancate nel bel mezzo del campo.
Padron Gosto si divertì fino a buio a godersi l’effetto della sua opera d’arte.
Dietro i rami violetti del fico, contorti in atteggiamenti di spasimo come braccia di dannati, di mezzo al traforo delle larghe foglie che, contro luce, parevan nere, il sole morente abbagliava, vermiglio, e sciami di passere pettegole turbinando nell’aria finivano col tenere conciliabolo sul tetto della capanna dove parevano incoraggiarsi, vicendevolmente, a tentare un volettino verso la pianta difesa da quello strano uomo il quale, ai tenui soffii del vento serale, si crollava agitando le braccia e girando su se stesso a modo d’un burattino.
Finalmente il sole scomparve, la prima stella battè le ciglia in mezzo al turchino profondo, i passerotti furono inghiottiti dal velluto dei cipressi goffi lungo la strada azzurrognola i bovi mugghiarono, già nelle stalle, e Gosto, dopo aver buttato loro nella mangiatoia una manata di lupinella e averli abbeverati, andò a letto.
Quando si svegliò, la mattina a bruzzico, e scese nel campo, lo spauracchio era sempre al suo posto, ma ignudo, mostrando tutta la sua oscena intimità di paglia infracidita e le giunture di sarmenti annodati.
Un cappello, che, per lavorare, era sempre utile, un paio di pantaloni di vergatino, un panciotto di panno buono, una giubba di fustagno «pelle di diavolo» oggi quasi introvabile, avevano preso il volo.
Padron Gosto fece i suoi conti e concluse: A questo prezzo..... cari i miei fichi! Poi tentò d’orizzontarsi e pensa, pensa, gli vennero in mente le parole di quel contadino in trattoria...
Allora, ringoiandosi la rabbia, da bestia paziente, aspettò qualche giorno, perdendosi a scacciare i passerotti, tutte le santissime ore, colla pertica da bacchiare le mandorle, finchè una bella sera, che i fichi eran quasi in punto e facevan la gocciola, si vestì dei panni migliori, e, aspettato il crepuscolo, si piantò sotto il fico, a capo basso, a gambe larghe e a braccia aperte, nel posto preciso dello spauracchio.
Chi avrebbe potuto, meno d’un contadino, abituato alle poste e ai balzelli, resistere persino dieci, quindici minuti per volta in quella posizione sforzata?
Quando era stracco Gosto dava un’occhiata alla siepe, dalla parte della strada maestra, poi, dopo essersi sgranchito le gambe e le braccia, si ricrocifiggeva nell’aria.
Dopo l’un’ora (l’eco della campana solenne aveva appena finito d’estinguersi nel cerchio nero di monti dove gli occhi ardenti delle case raffittivano via via che raffittivano le stelle nel cielo) Gosto sentì sfrusciare verso la siepe del campo.
Per l’appunto il rumore veniva un po’ di fianco a lui, sicchè non vedeva nulla e non si poteva voltare; ma quando s’accorse che sulle zolle si posavano, lenti, dei piedi umani, s’irrigidì quasi fosse diventato di bronzo.
– Accidenti! – disse una voce sommessa alle sue spalle – Accidenti! come t’hanno vestito stasera! Panni di sposo! proprio quello che ci voleva per me!
Una mano levò il cappello di sugli occhi a Gosto, mentre l’altra gli tirava, per sfilarla, una manica della giubba, e, subito, con precisione meccanica, senza mutar posizione, irrigidito com’era, Gosto si rivoltò su se stesso e colla mancina agguantò, a caso, una fusciacca e un corpetto, mentre colla destra calava un pugno a braccio teso, a maglio, capace d’accoppare un vitello.
Che testa dura doveva avere il Dòdolo!
La mattina di poi era in piazza col barroccino, come se nulla fosse successo. Non gli si vedeva altro che un po’ d’azzurro sotto l’occhio sinistro, ma lui disse d’avere inciampato nello spigolo, rincasando briaco.
Però per molti anni non mutò di vestiti e non si permise più il lusso d’andare a mangiare da Grillino. Il segreto del suo commercio era, ormai, stato tradito.