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Siccome il signor Tullio e la signora Tullia (Dove, tu, Cajo, io Caja!) avrebbero potuto dirsi anche il signor Tullia e la signora Tullio (da tanto era il bene che si volevano benchè autentici pescicani) così non ci fu tra loro, come al solito, nemmeno un attimo, una pausa di discussione.
Abituati a tradurre in atto, subito, mediante denaro sonante, i progetti più audaci, i pensieri più pazzi, appena ebbero alzati gli occhi dalla carta geografica che stavano consultando insieme, e si furon dati uno sguardo scambievole, non ebbero incertezze nè esitazioni.
Tullia propose: Andiamo? e Tullio concluse: Si va!
Ed era in verità, quello dei due egregi coniugi pescicani, un caso ammirabile e, forse, unico al mondo.
Giovani, sani, immensamente ricchi, con dei figlioli, un maschio e una femmina, buoni più del pane, con dei caratteri d’oro, nati apposta per andar d’accordo, come due campane, formavano l’eccezione alla regola di questa umanità tartassata e dolorosa sempre macerata dal desiderio e turbata dall’inquietudine.
Così pensava, del signor Tullio e della signora Tullia, il mondo; ma, secondo il solito, pensava male, o, per essere più esatti sbagliava nel suo calcolo.
Al signor Tullio e alla signora Tullia mancava qualche cosa che per loro due era moltissimo e ne formava il segreto tormento.
Per mantenere l’elasticità alla loro sterminata ricchezza essi continuavano ad occuparsi d’affari con grande alacrità e, soprattutto, da gente pratica e dal colpo d’occhio sicuro, non avevano mai voluto scegliere nessuno degli infiniti postulanti al posto di amministratore, facitore, cassiere, fattore delle loro aziende, case, patrimonio e beni rurali, ma curavano da loro il vasto organismo di così cospicuo capitale, in tutti i dettagli, dai rapporti commerciali con le ditte, fino ai conticini delle spese minute.
Questo lavorio, nel quale anche, talvolta, si alternavano, durava all’incirca undici mesi dell’anno.
Il dodicesimo mese Tullio e Tullia si pigliavano il meritato riposo, ma ahimè! non erano ancora riusciti a trovare «il cantuccio ideale», la plaga davvero silenziosa e remota dove potersi isolare completamente dal mondo, riposare come avrebbero avuto diritto di riposare due esseri ai quali tutti gli elementi obbedivano, vinti dalla inesorata legge dell’oro.
Ogni anno i due coniugi si curvavano sul mappamondo, stendevano delle carte geografiche sopra una immensa tavola e cercavano...
Facile era trovare isole dove addirittura non giungeva l’eco della civiltà umana, ma quelle isole erano certamente piene di serpenti, di coccodrilli e magari di cannibali, deserte di abitazioni e mancanti di comfort.....
Tullio e Tullia avrebbero voluto un isolotto in plaghe incivilite, un isolotto tutto per loro, come Montecristo o come Giannutri.....
Ma l’isola di Montecristo, già da tempo, era stata venduta dal Marchese Ginori al Re d’Italia e il Re vi passava taluna volta, con la Regina, qualche rarissimo attimo di assoluta libertà.
Proprio come avrebbero voluto fare Tullio e Tullia; ma loro non erano Sovrani.....
Anche l’isola di Giannutri, ormai era stata acquistata da un privato.....
Eppoi, per quanto ricchissimi, Tullio e Tullia non avevano intenzione di buttar via metà del patrimonio ad acquistare una località apposta per farvi sorgere adagio adagio quelle agiatezze che essi invece avevano bisogno di trovare quasi bell’e pronte, a portata di mano, da gente la quale conosce il vero prezzo del tempo.
Così furono sempre obbligati a recarsi a passar l’agosto in luoghi dove i romori del mondo li perseguitavano fino a letto; quand’ecco compulsando, per l’ennesima volta, un atlante geografico, dopo avere scorrazzato per l’Asia e per l’Africa ed esser tornati, prudentemente, in Europa ed aver retrocesso più prudentemente costa, fino alla nostra inarrivabile Italia, si accorsero d’avere, a un tratto, insieme, messo il dito sopra un angolo (un’insenatura) della costa maremmana, dove era segnato il nome di certo paesino ignoto.
Prese le debite informazioni, resultò che in quel punto non c’erano villeggianti, nè ci andavano bagnanti, perchè ancora nessuno aveva pensato a costruirci capanne, e tanto meno un albergo o anche soltanto un’osteria, od a portarci una roulette o un mazzo di carte segnate.
Solo due anni avanti, un certo ingegnere, cliente di Tullio, capitato, viaggiando per ragioni professionali, in quella regione ed avendo notato la bellezza del luogo, ci s’era fermato una notte ed aveva ricevuto dai pescatori pulita e cortese ospitalità.
Motivo per cui, essendogli scappato di bocca il racconto di codesto piacevole incidente di viaggio, con due coniugi suoi amici, e ignorando le affannose ricerche di Tullio e di Tullia (che d’altronde in quel tempo egli non conosceva ancora) i suddetti coniugi, suoi amici, s’erano l’anno innanzi, recati a villeggiare in quel luogo coi loro sette ragazzi e con un’altra famiglia di parenti pure assai prolifica e prosperosa, e ne avevano riportata un’impressione eccellente.
Logica fu la domanda di Tullio: Senza dubbio, allora quest’anno, essi ci tòrneranno.....
Ma la risposta fu semplice: Non ci tornano, ma, d’altra parte, sono sicuro che non ne hanno fatto parola con nessuno, poichè non vogliono divulgare il segreto di un posticino così delizioso, a rischio di farlo divenire un deposito e un sanatorio, come costuma di tutte le spiagge un po’ note.
Pensò Tullio: Se noi sbarchiamo colà con la nostra servitù, affittata la casa di un pescatore, la muteremo ben presto in una reggia.....
E Tullia disse: Faremo costruire una tenda meravigliosa sulla spiaggia e vi abiteremo giorno e notte, in costume da bagno.
Su quel pensiero, davvero prezioso, si scambiarono un bacio ed un abbraccio e corsero a dar gli ordini per fare i bauli.
*
* *
Una frotta di pescatori e di donne, schierata sul piccolo golfo, divorato dal battente del mare che vi si frangeva con impressionante impetuosità, assisteva, scambiandosi sotto voce delle idee, alle complicate operazioni d’approdo di un ricchissimo motoscafo il quale ballava sui flutti (un po’ troppo capricciosi per una simile imbarcazione) come un delfino.
Ma non una, delle numerose barche e lance da pesca e da soccorso, verdi, celesti, rosse, che si dondolavano (simili a sirene col capo indolentemente appoggiato sulle palme delle mani incrociate), ventre all’aria, sui flutti e non uno dei decrepiti o dei giovani e robusti lupi marini che mangiavano coi denti anneriti i cannucci delle loro pipe rosse di coccio, si mosse per aiutare il bel motoscafo.
Come Dio volle, questo, con una manovra difficile, riuscì a buttarsi contro la spiaggia, dove il renicciolo ne accolse la prua e ne immobilizzò la carèna, mentre il risucchio scivolava via di sotto la chiglia, impotente ormai a risballottolare nell’acqua il guscio di noce a benzina.
E dal guscio di noce scesero Tullio verde come l’alghe marine, Tullia, bianca come la luna all’alba, e varii mucchi di cenci che poi si rivelarono per i ragazzi e per i servitori della coppia esemplare.
Tutti codesti avanzi umani giacquero sulla spiaggia, come detriti d’un naufragio buttati alla deriva, guardati dai pescatori e dalle loro donne con la stessa curiosità con la quale i selvaggi guardano, sulle coste della Polinesia, le casse di biscotto di qualche battello colato a picco, rivomitate dal mare.
Dopo una mezz’ora di quello stato comatoso, il robusto Tullio riuscì ad emettere un suono inarticolato, al quale fece eco un altro suono, di accento alquanto rauco, emesso dalla pallida Tullia, e, finalmente, uno dei servitori, riuscito a levarsi in piedi, chiese a un pescatore che l’aiutasse a tirare in secco il motoscafo, che lì non si poteva ancorare.
Il pescatore non aprì bocca, nè fu possibile ottener risposta da nessun altro dei circostanti, i quali, dopo un poco, si ritirarono educatamente lasciando soli i navigatori.
Tullio allora pensò che fosse giunta l’ora di ricorrere al suo infallibile metodo.
Tolse il portafogli, ne estrasse un biglietto da mille e con quello facendosi vento, si pose a girare per le viuzze del borgo, bussando alle abitazioni, nitide, fresche, civettuole, colle pareti scialbate di calce, e le persiane verdi, ritinte da poco.
Nessuno si affacciò, nessuno rispose, e (cosa straziante) Tullio non riuscì a trovare nel borgo una bottega, un negozio di commestibili, un caffè!
Il sole sdipanava senza tregua, dal cielo arroventato a bianco, matasse incandescenti sull’acciaio sfavillante del mare, il quale si stendeva, pigro, sotto la carezza feroce, placandosi con dei respiri sordi che parevano i primi accenni del lento, spaziato, russar meridiano.
Dovettero alzare l’albero del grosso motoscafo e tender la vela; sotto la quale, dopo essersi messi in costume da bagno (spogliandosi uno per volta dietro l’imbarcazione), in faccia alla deserta distesa d’acque che pareva fumigante sotto l’arsura implacabile, tentarono di rifocillarsi con della cioccolata appiccicosa e con della birra calda come la camomilla.
Alle loro spalle le quattro o cinque case del borgo, bianche come Marabutti arabi, covavano il più ermetico segreto, mute come sfingi del deserto.
Il vespero, d’un lilla estenuante, piovendo su tutto il mare, stremato di voluttà, petali di viole e di rose, trovò Tullio, Tullia, i servitori e i ragazzi boccheggianti sull’arena, coi corpi esposti al risucchio che più non arrivava a sfiorarli colla sua carezza umida, simili a pesci rovesciati allora, allora, dalle reti scintillanti, fuori del naturale elemento.
E nel vespro, finalmente, il classico puntolino nero delle novelle e delle leggende, apparve all’orizzonte, ingrandendo a poco a poco.....
Una barca!
E nella barca, in piedi, remando alla veneziana, un uomo!
I naviganti si buttarono in ginocchio, di scoppio e intonarono il coro del «Mosè» implorando che quell’uomo, quel pescatore, quel marinaro, quell’angelo, non fosse un indigeno!
Appena balzato a terra, e febbrilmente interrogato con relativi vellicamenti di biglietto da mille, spiegò l’esser suo, come Lohèngrin.
E spiegò anche che i buoni pescatori di quella insenatura ignorata sul Tirreno selvaggio erano rimasti così edificati dal soggiorno e dal contegno delle due famose famiglie di bagnanti e lor prole le quali, un anno prima avevano preso stanza sulla stessa spiaggia, che avevano giurato solennemente tutti insieme nella piccola, disadorna chiesetta del borgo, di non dar mai asilo, per qualunque somma, a forestieri, e s’erano impegnati reciprocamente a non sovvenirli, per nessun premio, d’alloggio non solo, ma eziandio di bevanda o di cibo.
Tullio e Tullia pagato lautamente l’informatore, ordinarono i preparativi, giacchè il mare era placido e sarebbe spuntata, colla notte, la luna, per la partenza.
Mentre i servi riponevano la roba, ripiegavano la vela, abbassavano l’albero, accendevano il motore, Tullio e Tullia chiesero all’informatore se, forse, il parroco del luogo non sarebbe stato un po’ meno feroce, promettendogli un lauto beneficio per la chiesa.....
L’informatore levò, in atto disperato, ambe le braccia al cielo.
Quando la luna affacciò metà del suo volto beffardo sulla cupezza del mare che tremolando s’empieva di perle, salparono, sentendosi scrutati, da sotto le griglie delle persiane, da molti occhi curiosi.
Nell’altissima calma notturna, parve, anche, ai navigatori, di udire una risatina soffocata.
Ciò nonostante io ho chiesto invano alle carte il nome dell’insenatura beata a cui avrei voluto egualmente approdare, anche a costo di morirvi di fame..... E l’ho chiesto pure, a Tullio e a Tullia; ma non sono riusciti a ricordarsene più!