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L’
AQUILA
Il mio ottimo amico Aristide poteva essere contento di sè.
Le sue teorie sulla necessità e sulla bellezza dell’eroismo, non solo mi avevano interessato, ma entusiasmato e convinto.
E quando egli ebbe concluso: «È meglio vivere una settimana da aquila che cento anni da polli!» non seppi far altro che assentire con tutti i mezzi di cui potevo disporre.
Si era da due settimane in villeggiatura su quelle montagne, dove io mi raccoglievo, dopo un’invernata e una primavera, infernali per il lavoro snervante, in un meritato riposo, e lui dipingeva, con la sua maniera larga e comprensiva, vette smaglianti di gemme contro cieli d’una luminosità bizantina, ed ogni cosa contribuiva a sollevarci l’animo, ad esaltarlo.
Ambedue, per lunga consuetudine fra i nostri dissimili, conoscevamo a puntino i risultati dello sfibramento intellettuale delle razze moderne disperatamente in traccia di qualche cosa al di fuori di loro, e si sapeva che ognuno cerca di gridare più forte dell’altro per nascondere la propria impotenza, che il nuovo non è che un travestimento del decrepito, il mondo un vaglio dove i chicchi sani non si discernono da quelli bacati altro che quando ne sono schizzati fuori e l’eroismo puro e vero non può essere che solitario e sdegnoso.
– È per questo – seguitava accalorandosi Aristide – che io, nel vecchio adagio citato poco fa, ho sostituito l’aquila al leone.....
– Già... non ci avevo posto mente... e perchè?
– Ma perchè il leone s’addomestica, caro mio..... l’aquila no! È per questo che mi fanno ridere i pulcinella dell’arte nuova quando gridano contro il simbolismo così necessario alle «masse»..... Che cosa vorrebbero sostituire alle decorazioni delle bandiere e dei vessilli? Vuoi qualche cosa di più espressivo dell’aquila?
Eppure se tu leggi gli articoli di tutti questi critici, che il Governo dovrebbe mandare a colonizzare piuttosto l’Eritrea, non senti che frasi di questo genere: Basta con le aquile! Basta con le Italie turrite, e via dicendo. E invece io ti dico che la forza degli ideali, per le moltitudini è nel simbolo e che non solo non si può farne a meno, ma non giova neppure cercare delle sostituzioni, tanto più che il popolo capirà sempre che cosa vuol dire un’aquila, mentre non si entusiasmerà mai per un pellicano.
– Però il pellicano.....
– Meraviglioso simbolo d’eroismo cristiano, che sta bene sulle crocifissioni di Luca della Robbia, ma non starebbe bene sulle bandiere dei reggimenti. Il soldato deve dare, sì, il proprio sangue per la terra che l’ha nutrito, ma, se è possibile, deve prima cercar di versare quello del nemico!
– È giusto. Ma con codesta teoria, tu, artista di fine buon gusto, vieni in certo modo a giustificare tutti i mediocri monumenti che da ogni parte s’innalzano ai nostri grandi caduti...
– Niente affatto, perchè io affermo che non si debbono mutare i simboli dell’eroismo, ma affermo anche che bisogna artisticamente trovare una loro espressione, nobile, pura. Un’aquila egiziana od assira non somiglia mica all’aquile di terracotta che starnazzano sui cancelli di certe ville! Eppure si tratta dello stesso animale! Vedi, io voglio dipingere un’aquila; ma ho bisogno di studiarla da vicino, di penetrare nella sua grandezza istintiva, di osservare, minutamente, la ferocia aristocratica di questa bestia che si solleva sul volgo degli altri animali. Voglio, insomma, comprendere i caratteri essenziali della bestia più nobile del creato.....
– Ma è un assassino.....
– Ma il guerriero uccide un nemico armato come lui, mentre l’aquila uccide animali deboli, indifesi.....
– Si nutre di serpenti (ecco un altro simbolo!) schiaccia la testa alle gazze ciarliere.....
– Sgozza gli agnellini... i cerbiatti...
– Si batte col cervo padre, quando ha fame...
– S’adatta ai coniglioli, ai polli.....
Adagio, adagio, come succede a ragionar troppo, le nostre idee cominciavano a cozzare fra loro, pure essendo concordi sul tema fondamentale della bellezza e della necessità dell’eroismo; ma in quel mentre, dalla terrazza della trattoria dove s’era finito di pranzare, scorgemmo una folla di gente sullo stradone dei cipressi e precisamente vicino alla villa del Conte F.....
– Se si andasse a vedere che cos’è successo? proposi per troncare la discussione.
Il fattore, che aveva chiusi i cancelli, vedendoci confusi fra moltitudine vociante e pigiata contro i ferri, ci fece, cortesemente, cenno d’avanzare e, socchiuso uno dei battenti, c’introdusse nel parco.....
– Vengano pure.... tanto il signor Conte non c’è e per quest’anno pare non venga più... è all’estero con la figliola e col genero.....
» Si tratta di una rarità..... un boscaiolo sul Monte Aguzzo ha trovato un’aquila viva.....
– Un’aquila? – urlò Aristide con la voce stroncata dalla commozione.
– Sì, era stata ferita all’ala da un cacciatore il quale probabilmente non l’ha più potuta ritrovare per quei burroni e deve essere stata colpita parecchio tempo fa perchè la piaga è mezza cicatrizzata. Ma ha un tendine spezzato e l’aquila, non potendosi più rialzare, moriva di fame.
– O..... non s’è ribellata?
– Altro che! Per quanto estenuata dal digiuno, ha voluto la sua parte, e il montanaro ci ha rimesso un dito.
– Meno male! – non potè fare a meno d’urlare Aristide, e, perchè il fattore lo guardava sorpreso, seguitò terminando d’esprimere, e correggendo il suo pensiero: – Meno male! perchè se no, avrei dovuto credere che invece di un’aquila si trattasse di una gallina.
– Eccola, guardino. Per fortuna ci s’aveva questa gabbia, dove prima che morisse stava una lupa.....
– Feroce?
– Oh! no..... io le porgevo il cibo sopra il palmo della mano.
– Vedi? anche il lupo si addomestica..... ma l’aquila, neppure per idea! Bella, bellissima... esemplare stupendo..... veh, come irrigidisce le penne..... e si sbatacchia, e guarda bieca, e soffia, e drizza quel ciuffo sul cranio che pare la cresta del cimiero d’Achille! È superba. Senta, fattore, mi permette di disegnarla?
– Si figuri! Venga quando e quante volte le pare.
– Mille grazie; profitto subito.
Aristide volò via e ritornò subito armato di una gran tela e di carbonella, e mi disse, strizzandomi l’occhio: – Oggi la schizzo... domani ci ripenso e se la linea è quella che cerco, la grande linea eroica, la dipingo e la mando al Salon.
– Al Salon?
– Tu, vedi, per tua regola, non hai un’idea di quello che voglio fare. Il solito eroe, il solito soldato, il solito gladiatore, il solito genio? niente! un’aquila sdegnata d’esser prigioniera, così, affamata, sparuta, arruffata, feroce, invincibile, irriducibile e grande. E intitolerò questa tela simbolica e verista: Eroismo.
Tutte le volte che si accostava per studiar meglio la bestia, questa batteva zuccate nella gabbia, s’aggrappava ai ferri con gli artigli formidabili, roteava l’occhio in modo impressionante, era bella.
A metà del lavoro, scusandosi molto, il fattore venne a portare all’aquila un gran pezzo di carne fresca.
Ci si buttò con furore, la divorò sbattendo l’ala stroncata e quella buona, poi, rinvigorita, s’agitò di nuovo fra le sbarre, come un demonio, col becco aperto da cui si vedeva la gola rossa, infuocata.
Aristide si sdilinquiva alla guisa di un’isterica; tanto da poterlo credere (chi non l’avesse conosciuto) insincero..... Pareva una dama intellettuale nell’atto di ammirare un quadro o un pezzo di musica dove non ha capito nulla.
Io chiesi, imprudentemente: E..... da bere non glielo date?
– Bere all’aquila? – urlò Aristide, dandomi un’occhiata che mi fece arrossire fino alla radice dei capelli. – Sei pazzo? Il simbolo dell’eroismo si disseta col sangue.
Non parlai più: ma il giorno dopo mi munii d’una sportellina piena di carne cruda e per tutto il tempo che Aristide disegnò (perchè aveva ricominciato il lavoro avendo veduto l’aquila sotto un nuovo aspetto) non feci che buttare pezzi di ciccia al volatile feroce.
Il terzo giorno il rapace fu quietissimo e si sforzava tanto a tendere il collo fuori dei ferri del gabbione per chiedermi la ciccia, che m’azzardai a porgergli qualche pezzo di carne sul dorso del mio pugno chiuso. Il quarto giorno, Aristide, aprendo la sua cassetta, grande come un organino di Barberia, mi disse: Oggi metterò mano ai pennelli: la linea è giusta, ci manca la dinamica, ma quella me la darà il colore.
E cogli occhi fuori di testa, sotto l’impulso dello spirito che, interiormente, fiammeggiava d’eroismo facendolo sprizzare da tutti i pori del fantasioso pittore, il mio amico cominciò a mescolare sulla tavolozza le tinte.
Quando alzò gli occhi per posare la prima pennellata cacciò un grido e rimase a mezzo gesto, paralizzato dal terrore e dall’indignazione.
L’aquila, con tutto il collo allungato fuori della gabbia, a guisa di cappone, beccava un brincello filamentoso di carne sulla palma della mia mano destra, aveva le penne raccolte, lisce come quelle d’un corvo, tanto da parere avessero perduta perfino la lucentezza, il capo senza il solito ciuffo ritto e gli occhi lustri d’una bramosia la quale non aveva nulla che vedere colla ferocia.
Aristide prese più cappello di quel che potessi avere immaginato.
Chiusa la cassetta con rabbia, dopo averci riposto i pennelli, e agguantata la tela dove aveva schizzato l’uccello a grandezza naturale, se ne andò a gran passi.
Io stentavo a seguirlo, mortificato e in silenzio, dolente di avergli dato un dolore.
Si oltrepassò così il cancello e, invece di batter lo stradone, Aristide prese da una scorciatoia per i campi, da tanta era la sua furia di arrivare all’albergo e di sfogarsi, naturalmente, con me.
Ma arrivati all’aia di un contadino, ci arrestammo tutti e due colpiti da uno strano spettacolo.
Sopra uno spiazzo deserto di gente, un branco di polli, rannicchiati l’uno contro l’altro a piè d’un pagliaio, starnazzavano le penne, come tremando, e gemevano con suoni di voce quasi umani.
Nel cielo si librava, ma ad una altezza relativamente bassissima, un enorme falco, un vero «falcone» col petto macolato di giallo e di nero come la pelle d’una pantera.
Sotto al rapace, una grossa chioccia con l’ali spalancate, cuopriva i pulcini d’oro che facevano capolino dalle piume gonfie, e aspettava l’assalto col becco aperto.
E come il falcone piombò, a un tratto, a guisa di una palla abbandonata al proprio peso, la chioccia sostenne l’urto, anzi lo prevenne, balzando, con uno sforzo, incontro all’aggressore che beccò, disorientandolo.
Poi ricadde ad ali spiegate sulla peluria dorata che palpitava sotto di lei.
Aristide, paralizzato dall’ammirazione, lasciata cadere la tela, mi stringeva un braccio sino a farmi male, ma poichè il falcone rinnovava l’attacco, io spezzai l’incantesimo lanciandomi innanzi e liberando la gallina.
– Ecco! – gridai ad Aristide, trionfante: – ecco il vero «eroismo» senza pose guerriere, l’eroismo dell’infinitamente debole contro l’infinitamente forte..... dipingi questo soggetto e mandalo al Salon con quel titolo!
Aristide con il capo ciondoloni e il ciuffo spiovente, pareva il crocefisso del Chiacchiera, a cui cadevan le braccia!
Rispose con un fil di voce: Impossibile! Soltanto quel che non è vero è bello, e soltanto quel che è bello può essere esaltato. La goffaggine della gallina, la quale difende così valorosamente il suo nido, la mette in sottordine all’aquila maestosa la quale, invece, mangia il fegato di Prometeo, pagata da Giove.
E il giorno dopo cominciò a dipingere un’aquila a memoria, ma per quanto facesse la bestia pigliava un’aria di pollo talmente ridicola che dovè finire col non farne di nulla. E non me l’ha più perdonata.