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Mia moglie mi chiamò, spaventata, e mi fece vedere che il salottino da pranzo della nostra modesta casetta di campagna era stato invaso dalle formicole.
Il solleone ardeva in tutta la sua forza feroce e le pareti della piccola abitazione bianca, lampeggiante in cima a un cocuzzolo tra la nebbia violetta degli olivi, pareva tremassero al frenetico scampanellare delle cicali esultanti.
Le formicole, evidentemente, avevano da varii anni tracciato le loro ingegnose gallerie fra il pavimento e il principio delle fondamenta, traverso le commettiture delle pietre e dei mattoni, e soltanto quel giorno, abbattuto l’ultimo velo di calcina, di sotto al gradino della soglia, erano sbucate nel salottino da pranzo.
Una catastrofe; perchè c’era il caso di veder la dispensa invasa dal piccolo esercito vorace.
Si trattava di quelle formicole, rosse e piccine, che, stuzzicate, arricciano il dorso come fanno con la coda gli scorpioni; e sono le più forti, in confronto della loro statura, fra le diverse razze conosciute, e le più veloci; formicole guerriere e capaci di ordinamenti sociali cooperativi e di piani tattici da sbalordire un generale; intelligenze, insomma, che parrebbe inverosimile potessero albergare in teste così microscopiche.
In casa mia l’abitudine di uccidere le bestie, benchè io sia, a tempo perso, anche cacciatore, non è molto radicata.
Mia moglie piuttosto che schiacciare un ragno o una mosca preferirebbe subirne il contatto; ma io sono molto meno francescano e, quando posso, libero i cantucci dagli ospiti importuni. Com’è naturale, questa mania di eliminare i parassiti dai pavimenti e dai muri non si estende egualmente nei riguardi di tutti gli insetti...
In verità c’è troppa differenza tra un’irsuta scolopendra e un languido grillo del focolare, perchè io non spiaccichi coscienziosamente la prima e non rispetti il secondo. Eppoi la scolopendra rappresenta la creatura che bisogna sopprimere, il grillo quella che bisogna aiutare. Io ho sempre sperato che i poeti veri e le persone buone dovessero un giorno esser mantenuti a spese dell’erario il quale, data l’assoluta rarità del genere, non anderebbe di certo in rovina.
Ma su quale piano di valori avrei dovuto classificare le mie formicole rosse?
Meno male si fosse trattato di formicole coll’ali; in tal caso, data la parentela con le mosche, la spiaccicatura diventava legale. Però, trovandomi dinanzi alle classiche formicole operaie, così affaccendate, così previdenti, così instancabili, tutti i luoghi comuni, imparati fino dalle scuole elementari, sul rispetto dovuto alle così dette «creature del buon Dio» affiorarono alle nostre labbra e, pur senza ripeterli, io e mia moglie, colle mani in mano, perplessi di fronte all’andirivieni di quella folla in miniatura che entrava, usciva, si fermava a confabulare, accettava ordini e ne impartiva, spariva, con un grano di miglio tra le mandibole, sotto il pavimento della stanza, e ne riusciva per lanciarsi ancora in cerca di buona preda, ci si guardava in faccia senza pigliare un partito.
Di dove saranno venute quelle formicole? Certamente le gallerie si incrociavano in tutti i sensi sotto il pavimento che garantiva la colonia dal pericolo dell’umidità, ma non bastando alle colòne l’ingresso, esse erano pervenute, a furia di zampe e di mandibole, a tagliare una strada la quale finalmente, mercè una impercettibile apertura praticata sotto lo scalino, aveva sboccato nella mia stanza da pranzo.
Ora le bestioline trovavano la via, libera: una specie di sentiero circolare che permetteva loro l’accesso dal giardino ai magazzini invernali, donde senza l’incomodo di tornare indietro e di dovere, per conseguenza, tracciare altre strade, uscivano comodamente per quel corridoio che sfociava, come si è detto, nella mia modesta stanza da pranzo. Intanto mentre stavamo guardandole, le indemoniate formiche parevano moltiplicarsi, e constatammo come della schiera facessero parte anche certe formicole, più grosse e più scure, alle quali tutte le altre obbedivano.
Seguimmo la traccia che in pochi giorni aveva fatto, per lo spessore di un breve nastro, impallidire lievemente il pavimento di rossi mattoni e constatammo come dal salotto, attraverso l’atrio, le formicole si sparpagliassero per la cucina e, scendendo due gradini, in giardino.
La traccia del giardino, però, non continuava tra le aiuole, ma piegava essa pure dove la mèta suprema era costituita dalla cassetta della immondezza, vera miniera aurifera di cui le formiche rosse, nere ed alate di tutta la regione si contendevano il possesso. Ma le rosse la tenevano saldamente ed ogni volta che qualche pattuglia rivale giungeva in avanscoperta, veniva immediatamente presa d’assalto e, dopo brevissima lotta, le sue componenti ingombravano, morte, il terreno o fuggivano zoppe e sdrucite.
Mia moglie ed io stavamo scambiando le nostre osservazioni senza nulla decidere, quando arrivò il muratore, col quale dovevo far certi conti, e lo invitai subito a cercar rimedio all’inconveniente.
Il muratore si mise a ridere e disse:
– Ora ci penso io, a liberarli da questo flagello.
– Ma – interruppe mia moglie – non vorrei che soffrissero..... sono bestioline così intelligenti.....
– Le crede intelligenti, lei?
– Diamine! mi par chiaro, no? Ammazzarle potrebbe portarci disgrazia.
– Disgrazia gliela porterebbero se le lasciasse moltiplicare..... non salverebbe neppure le frutte che tiene in cantina, a maturar sulle stoie... Dieno retta a me, si rimettano a quel che fo io..... Hanno, per piacere, un poca d’acqua di ragia?
Corsi a pigliar la bombola nello studio dove tengo gli arnesi per dipingere e la porsi al muratore; questi, intanto, sdrusciò il piede sullo scalino e spiaccicò un centinaio di formicole.
Io mi curvai per vedere quel che avvenisse.
Ancora non avevano capito; qualcuna andò addirittura, seguitando a percorrere la sua strada col chicco e colla festuca fra le mandibole, a cacciarsi sotto la scarpa micidiale.
Infine, come videro i mattoni seminati di cadaveri, parvero accorgersi che intorno a loro si moriva e presero a scappare alla rinfusa, urtandosi e accavallandosi l’una sull’altra..... ma dovunque il piede inesorabile le raggiungeva e ne cancellava il ricordo.
Qualcuna ne vidi stecchita, serrando ancora la preda tra le mandibole chiuse.
E il muratore, in bilico sopra una gamba ripiegata, come è costume degli operai, mi chiese che gli porgessi la bombola dell’acqua di ragia, dicendomi:
– Loro credono che queste bestie abbiano capito qualche cosa? Ma nemmeno per idea! L’animale non capisce il pericolo che per lui si rappresenta noialtri, come noialtri non si capisce il pericolo che per noi rappresenta la vita stessa..... insomma l’animale non vede noialtri, troppo grandi perchè lui possa arrivare a distinguerci, come noi non si vede la morte che ci sta sopra, troppo grande perchè noi si possa arrivare a distinguerla. Non so se mi sono spiegato.....
– Anche troppo! andate avanti, andate avanti.....
– Può darsi che sbagli..... io sono un ignorante... ma, a me, mi fa l’effetto che anche noi si sparisca quando, generalmente, si comincia a dar noia... a chi non saprei dirlo... Ma insomma arriva un momento nel quale qualcuno dice: basta! e ci spiaccica.....
» Vede, queste formicole erano tutte contente, avevano tracciato le loro strade, avevano riempito i loro magazzini, cominciavano a sperare un’invernata coi fiocchi..... Dicevano fra loro: La provvidenza ci assisterà... si lavora... si prospera... si è previdenti... non si dà noia a nessuno...
» Nossignori! Davano noia a lei! e a un tratto si son sentite spiaccicare e, come non sapevano di dar noia a lei così non hanno saputo chi le ha levate dal mondo».
– O chi vi ha insegnato a filosofare così?
Il muratore con un sorriso bianco tra le labbra rosse, sotto i baffi pepe e sale, prese dalle mie mani, senza rispondere, la bombola dell’acqua di ragia e ne versò un poca, con precisione matematica, nel buco delle formicole; aspettò alcuni istanti, poi, vedendo che più nessuna affiorava di sotterra, con un pizzico di gesso spento nell’acqua chiuse la microscopica apertura e si alzò in piedi.
– A me nessuno mi ha insegnato nulla – riprese – e non so neanche leggere..... ma ho fatto il soldato a Napoli e ho visto gli scavi di Pompei, e poi da richiamato, la guerra sul Carso e costì ho capito che cos’è la morte.
» Che differenza ci trova, scusi, lei, fra quelle formicole che ho murato nelle loro abitazioni dopo averle bruciate con l’acqua di ragia e quei disgraziati sepolti dalla lava?
» Così successe a quelli di Pompei. A un tratto, tanto qui, come laggiù, è battuto il terremoto, una forza soprannaturale ha scosso e sovvertito ogni cosa, dentro le case è colata la lava ardente. Anche le formicole son crepate stringendo i loro tesori, tentando di mettere in salvo le loro ricchezze, come quella famiglia di cui si vedono gli scheletri, rovesciati, a bocca aperta, colle braccia davanti alle occhiaie vuote, dietro una lastra di vetro.....».
L’ora si andava facendo caldissima e su ogni fronda cinerina d’olivo una cicala ubriaca di sole scoteva il cembalo senza respiro; tutta la campagna vibrava e squillava mentre l’aria tremante di calore sapeva di pòlline secco e di terra bruciata.
Il muratore ci condusse fino all’ingresso della galleria delle formicole rosse, affacendate, alacri, tranquille.
– Le vedono? anche loro, come noialtri; tali e quali. Chi è rimasto vivo, chi è venuto dopo il cataclisma, hanno continuato a lavorare, a fabbricare, a metter da parte, a vivere sopra ai morti. È il nostro destino.
Nè io nè mia moglie si seppe che cosa rispondere: si seguitava a star lì, guardando, come se fosse la prima volta che si vedevano, le formicole intente a trasportar chicchi di frumento, grani di miglio, briciole di pane.....