Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
Lettura del testo

IL CAPPONE DI CEPPO

«»

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

IL
CAPPONE
DI CEPPO

Stava , ancora appollaiato sulla sua pertica, quando sentì aprirsi l’uscio dello sgabuzzino.

Siccome era sempre buio e i galli avevano già cantato una volta, il cappone che aspettava il secondo «chicchirichì», non si mosse.

Il piccolo cuore gli batteva con violenza nel petto sotto il collare di piume fagianate, perchè immaginava, a bruzzico in quel modo, che fosse entrata nel pollaio la volpe o la faina, ma non tentò di fuggire.

D’altronde non l’avrebbe potuto, perchè ancora lo occupava quel torpore notturno che nelle bestie della sua razza si dilegua soltanto quando la prima striscia di luce s’affaccia dietro le cime turchine dei monti e l’aria rabbrividisce.

Allora gli uccelli tentano qualche accordo, l’acqua del ruscello si ferma, quasi ascoltasse, e le cime degli alberi hanno un brevissimo fremito.

I galli scendono dal bastone o dal ramo dove hanno dormito sognando distese di granturco, e poi, stendendo prima una gamba e poi l’altra e scuotendo la cresta livida, slanciano una serie gioconda di squillantissimi chicchirichì, mentre il mondo intero sembra destarsi allo schioccare d’una frusta e allo squillo d’una campana.

Il cappone, dunque, non si mosse e aspettò, covando il teporino notturno e la paura.

Ma quando una mano violenta e callosa fece per afferrarlo, starnazzò l’ali e si buttò giù dalla pertica.

Inutile.

La mano violenta e callosa riuscì a trattenerlo per un’ala, a mezz’aria, e a condurlo via, fuori, nella luce violetta d’un crepuscolo nuvoloso, che gli faceva girare la testa ancora insonnolita.

Però il dolore fisico che provava all’attaccatura dell’ala dove una morsa di ferro pareva gli lacerasse il tendine, e quello morale che provò torcendo il collo, e vedendo, così in tralice, il pollaio che si allontanava nel turchino caliginoso dell’aria, furono capaci di risvegliarlo.

E cominciò a urlare come una persona viva, dallo spavento, a gemere dall’angoscia, a raccomandarsi con lamenti da cristiano condotto alla strage.

La massaia si affacciò sull’uscio e come, in quel momento, il sole comparve dai monti con un dardo lucido che la colse sulla fronte rossa e la sbigottì, disse attorcigliando il grembiule intorno alla vita: Sbaglierò, ma te l’alba di domattina non la rivedi.

– Qui no di certo, rispose il contadino; a Firenze sì, perchè questo ormai l’ammazzeranno la vigilia di Ceppo. Scommetto che grassi così non ne hanno mangiati mai neanche loro.

Le bestie ci sono inferiori in tutto, ma in una cosa sola ci superano: che esse intendono il nostro linguaggio, mentre noi non possiamo intendere il loro.

Al cappone, a sentirsi sciorinare la sentenza fra capo e collo in quel modo non rimase una stilla di sangue addosso; la cresta gli diventò color cenere e gli occhi spauriti, simili a un bersaglio con un pallino nel mezzo, gli s’empirono d’amarissime lacrime.

Intanto il contadino senza dir altro prese un pezzo di nastro e legò strette le zampe gialle del cappone che poi, col capo ciondoloni, attaccò a un ferro del barroccino, il quale fermo sull’aia, a stanghe ritte, contro il cielo sempre più chiaro, pareva una forca.

Faceva un freddo da gelare le parole in bocca e il povero pollo, a testa in giù, vedeva per tutto un luccichio argenteo di brinata su cui passava ogni tanto, rapida come un soffio di vento, l’ombra di un passerotto in cerca di cibo.

Il sole era già sorto, e tutta la pianura fumava al contatto della luce che la sfiorava, quando il passo del cavallo risuonò pesante sui mattoni del portico sconquassati.

Il disgraziato cappone pensava ora a quello che gli sarebbe successo quando il barroccino si fosse mosso! Già le caviglie gli dolevano terribilmente, il sangue circolando a fatica gli dava un senso di torpore molesto, un informicolamento diffuso, mentre era costretto, per non farsi andare il sangue al cervello, ad alzare il collo con uno sforzo innaturale.

Quanto sarebbe durato quel supplizio? E perchè mai era possibile che animali come gli uomini, creduti, comunemente, i più intelligenti fra tutti, non comprendessero che neanche le bestie possono vivere a capo all’ingiù?

Per fortuna la massaia, quando il cavallo fu attaccato, venne avanti, mentre tutta la frotta dei polli, uscita ormai dallo stambugio, le si affaticava, pipilando, d’intorno, e, dopo averli scacciati con un sciò, sciò, energico, stese una mano e staccò il cappone dal gancio, borbottando: Bei lavori concluderesti, se non ti tenessi d’occhio! Ora tu andavi col cappone ciondoloni e ti moriva per la strada, povero animale! Ti pare il modo codesto di portare un pollo ai padroni? Gli avresti regalata una bestia livida, colla testa gonfia e colle carni tutte maltite.

– Costì tu hai ragionerispose il contadino (e salì sul barroccio) – ma l’idea di staccarlo ce l’avrei avuta.....

– Di buone idee è lastricato l’inferno..... ma ora va’ via perchè se no, chissà a che ora tu arrivi.

La donna posò con un certo garbo il cappone sul piano del barroccino a due ruote, sotto il sedile, sopra una coperta da cavalli ripiegata, nel mezzo a due cestelli di mele e di fichi secchi e il cavallo si mosse.

Ad ogni crocicchio, dove, nonostante la brinata d’argento e gli aghi del freddo che entravano nelle cicce e nelle ossa con mille punte, il contadino incontrava dei gruppetti di gente avviata alla prima messa, era la solita storia:

– Ti sei tirato su il bavero, eh? avevi paura che ti cascasse il naso dal freddo?

– E il cappone?

Dove tu l’hai messo il cappone?

– Fammi vedere il cappone!

E , qualche mano s’allungava a tirar su il cappone spaurito, di mezzo ai panieri, a soppesarlo, a soffiargli nelle penne per guatare, tra la peluria e i pidocchi pollini, il giallor della pelle.

Il cappone a quei discorsi si sentiva gelare; subiva le medesime emozioni che provava, anticamente, il condannato a morte quando lo portavano al patibolo sulla carretta.

Poi il barroccino tutto sgangherato ripigliava il suo passo traballante, mentre la gente, per le strade, raffittiva e il terreno rimbombava tutto, dal gelo, come fosse vuoto e il sole montava sempre più in alto sino a raggiare proprio in mezzo al cielo, pulito come un’ostia.

Il cappone, ormai disperato, ripensando alla morte vicina, coi bargigli e la cresta paonazzi, abbandonato sul piano del barroccio traballante, chiudeva gli occhi per non vedere, disperato di non poter chiudere gli orecchi per non sentire, quando, tutto d’un tratto, che è, che non è, un rumore assordante, un urto spaventevole..... buio, faville, degli urli tremendi...

Il cappone, ansante, colle zampe legate, era stato sbalzato sopra un argine erboso.

Rintontito dal colpo, giacque per qualche minuto senza comprendere, poi aprì gli occhietti rotondi con l’iride gialla e un pallino nel mezzo, e non vide che distese di campi; si rigirò faticosamente, e..... sì!..... , sopra i ciottoli, fra due verghe di ferro..... che cos’era quella roba sparpagliata per terra?

Il cavallo?..... il.... contadino? Quella roba senza forma, impossibile a descrivere?

Il tempo passava; il pollo, immobile, colle zampe legate, tutto paralizzato dal freddo, collo stomaco attanagliato dai crampi della fame, dubitava una morte anche più straziante di quella che si sarebbe aspettato; quand’ecco avvicinarsi qualcuno..... una mano si stese, raccolse il pollo, lo soppesò.

La povera bestia, ormai più di che di qua, non aveva forza nemmeno per emettere uno di quei gemiti dolorosi che tutti i polli ammodo cacciano fuori dalla strozza appena si sentono preda dell’animale uomo il quale, senza dubbio, è il più feroce fra tutti gli animali della creazione.....

– Chi glielo riporta? – disse una voce. – Chi si sentirà tanto coraggio?

Davvero! – rispose qualcuno – di un cavallo; d’un barroccino, d’un uomo e d’un pollo, riportare il pollo solo..... è un po’ poco...

Seguì un silenzio, alto, penoso. Poi la prima voce riprese: – Datelo a me..... glielo butterò io sull’aia, passando.

Di nuovo una mano di ferro agguantò le zampe doloranti del cappone, come in una morsa, di nuovo la bestia provò l’ineffabile supplizio del sangue al capo e del torcicollo spasmodico per cercare un po’ di sollievo.....

E il viaggio di ritorno fu interminabile perchè questa volta il contadino lo fece a piedi e perchè, ad ogni piè sospinto, s’incontrava con dei gruppi di gente desiderosa di conoscere i particolari della sventura.....

Sballottato a quel modo, colla testa riversa, il cappone vide adagio, adagio i monti tingersi d’arancione, di violetto, di turchino cupo. E invocava la notte ad affrettare il carnefice, a terminare il supplizio, temendo d’arrivare già morto.

Ma ecco il campaniletto aguzzo stagliarsi nero con i cubi e i triangoli di poche case, contro un cielo diviso in due zone, l’una rosea, l’altra verde..... e in questa cullarsi una cerea falce di luna, affacciarsi tremando una stella d’argento.

Il cappone, ansante, giacque, finalmente, sull’ammattonato gelido dell’aia (mentre il contadino s’allontanava coi suoi passi gravi che risuonavano in modo strano sul terreno ghiacciato) e spaurito dall’imminente notte, cominciò, fiocamente, a lamentarsi.

Allora una striscia di luce tagliò l’ammattonato del portico, già inzuppato dal turchino freddo della notte, la mano della massaia, raccolse la bestia, la portò in casa, al tepore d’un camino acceso, sciolse i legami delle gambe intorpidite.....

Che dolcezza, che piacere, vicino alla fiamma rossa sulla quale il paiòlo brontolone si crollava, fumando, col coperchio sulle ventitrè!...

La massaia, raccattato il cappone, era tornata a sedere davanti alla tavola.

Un ragazzo piccino le si era addormentato in grembo, uno, più grande, era andato, ciondolando, a coricarsi da .

Il fuoco, non più attizzato dall’uomo vigile nel canto del camino basso, illanguidiva, spegnendosi.....

Il cappone, avendo steso prima una gamba e poi l’altra, salì sul piano del camino e cominciò febbrilmente a beccare in un tegame, dimenticato, pieno di pappa rifredda. Poi, vista la seggiola, vuota, con un volettino montò sulla spalliera, e vi si accoccolò.

A un tratto, di fuori, nella notte rigida, esplose un suono di campane velato.....

La donna cadde col capo sulle braccia incrociate e scoppiò in singhiozzi.

Il cappone, poichè il fuoco s’era spento ed aveva il gozzo pieno, sonnecchiava quietamente assaporando la felicità d’esser vivo.


«»

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on touch / multitouch device
IntraText® (VA2) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2011. Content in this page is licensed under a Creative Commons License