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CHI MUORE GIACE
E CHI VIVE
SI DÀ PACE
M’ero sdraiato, bocconi, per leggere, sopra il declivio dolcissimo di un prato che costeggiava la strada maestra, non perchè fosse il posto più comodo di quei dintorni, ma perchè era il più ombroso.
Infatti una canicola feroce dardeggiava traverso le fronde del boschetto e la via pareva di lava incandescente contro la siepe incipriata dal continuo spolverare di automobili e barroccini.
Il libro però (era un libro moderno, di quelli che vogliono dire grandissime cose in una forma torturata, preziosa, pretensiosa e stiracchiata da far venire l’uggiolina allo stomaco) aveva cominciato ad annoiarmi, maledettamente, dalle prime pagine, dove certo povero signore, ricordo, afflitto dal nome melanconico di un can da pagliaio, Melampo, andava cercando, chissà perchè? Iddio; motivo per cui chiusi il volumetto o mi proposi, per passare il tempo, questo profondo problema filosofico: Quale sarà stata la ragione (s’intende «pura») che avrà mosso l’editore a stampare una simile idiozia?
Ma non ebbi tempo di rispondere al grave quesito perchè a un tratto, nel breve lembo polveroso di strada, dove i miei occhi si fissavano macchinalmente quasi per concentrare su qualche cosa di reale il pensiero, apparve un personaggio a cui subito si rivolsero le mie pupille e il mio spirito, ogni altro oggetto (e perfino Melampo e la sua storia) dimenticando.
Il personaggio di cui parlo era uno scarabeo, di quelli così ben descritti dal Fabre e che, senza voler plagiare lo stile del Dizionario dell’uomo salvatico, sono obbligato anch’io a chiamare «stercorario».
Difatti la ghiotta bestia s’era foggiata, da qualche bovina, giacente come un frammento bronzeo-dorato in mezzo al ruscello roseo del polverone, la sua brava pallottola di dimensioni due volte almeno l’altezza del proprio corpicciuolo, e se la portava faticosamente verso la tana.
Ecco, pensai, uno scarabeo che la sa lunga! Mentre i suoi compagni, scoperto l’aureo filone profumato, consumano rapidamente il pasto sul luogo egli ha riflettuto che meglio era farsi un’abbondante porzione e pascersi poi a sazietà per lunghi giorni indisturbato in casa propria.
Non altrimenti i nostri autori più saggi usano coi filoni d’ispirazione che il secolo fa trovare davanti ai loro passi irrequieti.
E quale si poppa il filone cerebrale, quale il romantico, e quale ripete, per far cosa nova, le combinazioni licenziose inventate dai popoli d’Oriente nelle loro novelle gabellandole per arte del secolo ventesimo, e quale invece imitando la mantide si inginocchia pregando e battendosi il petto mentre, d’intorno, i grilli, ammirati, cantano accompagnandosi colle antère, in sordina, le laudi del nuovo mistico!
Lo scarabeo tutto preso dal miraggio del suo buco ombroso e quieto dove per molti giorni avrebbe banchettato colla digestione d’un animale più grosso di lui (tal quale noialtri che di continuo rimangiamo e restituiamo, perchè altri la mangi e la restituisca a nuovi affamati, la materia elaborata per millenni nei capaci stomachi intellettuali degli antenati) lo scarabeo, dunque, durava una fatica inverosimile per trasportare il colossale monumento di sterco, e, a vedere quel suo corsaletto luccicante, avreste detto che sudava; ma la pallottola era così gigantesca che l’insetto, a un certo punto, si buttò col dorso a terra, senza curarsi della polvere, e si mise a spingere la palla coi piedi.
Udii quasi subito un ronzare d’ali irritate e un secondo scarabeo piombò a volo sulla pallottola e si stabilì sopra la sua cima.
Allora sentii distintamente, per un miracolo di percezione, causato forse dalla ostinata attenzione con cui seguivo la vicenda di quella materia di contenuto e d’interesse così universali, che lo scarabeo spodestato diceva all’usurpatore: – Ladro! rendimi la roba mia!
– Ma, io non sono un ladro! – rispondeva lo scarabeo dalla sublime sua posizione.
– E che cosa sei, dunque`? Se non sei un ladro, vattene e lasciami la pallottola che mi sono guadagnata con tanta fatica.
– Io sono un uomo di buon gusto! Ora io ho visto che tu non hai garbo, nè grazia, e che sei fuori del retto cammino. Tu dovresti cibarti di fiori, e non perdere il tempo collo sterco.
– Bene! mi ciberò di fiori, ma intanto rendimi il mio sterco.
– Impossibile! di questo ne ho bisogno io, allo scopo di dimostrare quanto è errato il tuo metodo.....
– Scuse!
– Come, scuse? Se io non entro nel tuo posto e se non mangio la roba tua, come posso fare a insegnarti il buon modo?
Ma quello di sotto, dopo essere rimasto qualche momento sorpreso, puntò le zampe posteriori e fece rotolare la palla.
Ed ecco il trionfatore alla sua volta, supino nel polverone, col mappamondo sullo stomaco.
Cosa meravigliosa! Ora io vedevo veramente in quell’episodio microscopico l’intera vicenda della vita cotidiana.
Su quella sfera s’arrampicavano, per disputarsene il possesso, due animali della medesima razza i quali trovavano comodo e naturale pascersi del cibo già digerito da un animale di razza superiore!
Non altrimenti l’esercito dei critici s’arrampica sugli escrementi dei grandi uomini e poi ciascuno si fugge nel suo buco a digerirne lentamente un pezzetto e a restituirlo trasformato dall’analisi chimica.
Il rumore della lotta, per me indistinto, ma che gli esseri inferiori erano capaci di percepire, aveva richiamato un altro scarabeo, il quale si pose in agguato sotto un ciuffo d’erba, a piè della siepe.
Gravemente, l’animale meditava il momento d’intervenire.
Ed ecco che, abbandonata la pallottola bionda, i due insetti si sfidarono fra di loro ad una lotta feroce.
Li vidi gittarsi l’uno sull’altro colle mandibole avide, alzate, e rotolarsi oscenamente al suolo, dove in un istante divennero irriconoscibili.
La furia li accecava al punto da non farli accorti che la palla di sterco camminava sotto le spinte del terzo scarabeo, il quale, uscito dal suo nascondiglio verde, la cacciava davanti a sè, invece che all’erta alla china, guadagnando un tempo prezioso.
Per due volte i lottatori toccarono la terra colle spalle vicendevolmente, mai però così bene da non potersi rialzare.
La battaglia continuò, mentre la palla filava e le cicale, a un tratto, presero a cantare disperatamente come se gridassero al bosco le peripezie del conflitto che contemplavano di sugli alberi.
Quando nella strada polverosa non rimasero che i due animaletti ciascuno dei quali aveva perduto una zampa o un pezzetto di mandibola, il canto delle cicale si tacque come se esse lo avessero alzato per coprire la fuga del terzo, abbastanza fortunato per godere il frutto di quella battaglia.
Ma proprio in quel momento, avvenne la cosa terribile.
Un quarto scarabeo, una femmina, sbucata di non so dove, si avanzò frettolosamente verso i due combattenti.
Giunta al loro livello, aprì il corsaletto dai riflessi azzurro cupo bellissimi, e sbattè l’elitre di celluloide che lampeggiarono giocondamente nel sole.
I due campioni s’avvidero, senza dubbio, della nuova venuta, perchè immediatamente ripresero vigore.
Essi però non pensarono che il furbo rivale aveva involato la causa della tenzone e vollero seguitare a battersi per gli occhi prismatici d’Elena, anche se di Troia non rimanesse vestigio.
Lo scarabeo femmina attese sul margine del rigagnolo.
A un tratto echeggiò, lontana e beffarda, la cornetta di un’automobile e come se quel segnale fosse stato il classico squillo del torneo, i due antagonisti, ripreso lo slancio con il poco che loro avanzava di zampe e di fiato, si scagliarono l’un sull’altro con incredibile ferocia.
La scarabea si grattava con una zampa dentata l’estremità del corsaletto bruno, preparandosi a godere il feroce spettacolo.
Pur troppo un nuovo squillo rauco e strozzato annunciò che la vettura era prossima e quando questa apparve allo svolto della via, i due lottatori, già strettamente aggavignati tra loro, non sentivano e non vedevano più nulla.
E più nulla vide, quando, trascorsa l’automobile in un delirio di vento, di puzzo di benzina e di polvere, la elegante scarabea cercò i suoi baldi campioni dei quali una delle pesantissime gomme aveva perfino cancellata la traccia.
In quel mentre il terzo scarabeo, quello che aveva rubato e nascosto la fetente ma preziosa pallottola, si riaffacciò furbescamente lungo il fossetto di faccia, all’ombra della macchia polverosa.
La scarabea ebbe un attimo di esitazione.
Ma il profumo di fieno digerito che, nel lungo solco a saetta tracciato in mezzo al polverone, aveva lasciato la pallottola, era così eccitante!
Quel profumo di fieno, di salvestrella e di lupinella masticata, digerita e scodellata fresca in mezzo alla strada da una vacca ricca di latte, aveva qualche cosa di così narcotico che la dama in lutto vibrò le antenne dal piacere.
Poi, con passo languido, camminò verso il cicisbeo, il quale le arrancò incontro con visibile premura. E, come furono a portata d’antenna, si scambiarono le più affettuose cornate, alzandosi perfino, sulle zampette posteriori.
Compresi, poi, che si trattava di un cortese invito a colazione, invito che la dama accettò con entusiasmo.
I morti eran morti e morti bene. La dama in lutto dopo averne esaltato il valore andava a cena coll’imboscato.
Capii allora perchè i libri moderni sono tanto noiosi, capii perchè, essendo stato ormai detto tutto intorno a quanto non si fa che ripetere dalla creazione del mondo fino ad oggi, i nostri poveri autori non hanno più nulla da dire.
E per disavvelenarmi dell’improvviso pessimismo che cominciava a scorrere nelle mie vene turgide d’uomo sano e felice, andai sul mare dove flotte enormi di nuvole accorrevano da tutte le parti del cielo per preparare al sole la solita commedia del tramonto sanguinoso che si risolve in una notte di stelle e in un’aurora di perle.