Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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IL MONTONE

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IL
MONTONE

Era nella solitudine sterminata un re. Un re favoloso di trepidi vassalli, un sultano feroce, despota di mille capi docili e obbedienti.

Per tre volte gli si rigiravano, a folgore, le corna intorno al capo appuntito e il profilo del muso era arcuato imperiosamente e le pupille gialle e rosse trucemente intente a scrutare, in chiunque si avvicinasse, il nemico.

Dalle mascelle enormi pendeva la barba bruno giallastra, le narici eran rosee, ma chiazzate di nero e gocciolanti di moccio, il corpo enorme rivestito di lana rossa a macchie bruciate, la coda corta in forma di clava, le zampe asciutte e brevi coi piè fessi dall’unghie d’acciaio, il collo forte circondato da una striscia di cuoio da cui pendeva il campàno di bronzo schiacciato.

Quando il campàno squillava nella solitudine, i bufali color della pece i quali poltrivano immersi fino al collo nelle lagune morte della maremma colle corna a balestra fuori dell’acqua inutilmente vibrate contro nuvoli di mosche azzurre, di tafàni iridati e d’estri di smeraldo, esplodevano con strani scoppi dal fango degli acquastrini e giravano gli occhi di rubino verso il mare ondeggiante delle groppe lanute che avanzava sulla pianura.

L’armento era immenso.

Un favoloso sobbalzare di velli tramutava la landa in un fantastico pelago di lana arruffata da un capriccio invisibile, e la mandra incedeva distruggendo l’erbe secche sotto i suoi passi innumerevoli con un fragore sordo di pioggia lontana dentro una boscaglia di querci.

Il mare rispondeva, remoto, con un respiro d’angoscia.

Il primo dei corvi, posto a vedetta sopra una delle colline ondulate, vedendo avvicinarsi il grande esercito belante, dava l’avviso.

Gracchiando, con volo pesante, si portava vicino alla seconda vedetta, poi insieme svolazzavano presso alla terza e così via, finchè tutta la tribù che pasturava tra le stoppie all’ombra delle sughere, rare sulla brughiera come spettri contorti disperati e scapigliati dal libeccio, s’alzava in lenti giri concentrici, urlando.

La nuvola delle bestiacce nere trasportava lentamente la sua ombra mobile sul piano, sfiorando, con un molle tappeto ceruleo trascinato qua e , l’oro delle paglie arse e dell’erbe ripiegate dall’arsura e dai soffi salmastri, poi s’alzava a spirale nel cielo tremolante d’afa e gracchiava, tutta insieme, col suono di uno scroscio improvviso.

Allora il montone, che trotticchiava innanzi alla mandra, si fermava scontento, alzava il muso arcuato e cacciava un suo bèlo agro e lungo.

Mille belati sonori e lamentosi rispondevano nella calma del vespro, seguiti da quelli fievoli e incerti dei rèdi che traballavano dietro e dall’abbaiare dei cani.

Il vergaio, spronando, percorreva di galoppo la linea dell’armento come un generale che trascorra la fronte dell’esercito prima della parata, e col fischio e colla pertica, lo rimetteva in cammino.

Così preceduto dai corvi gracchianti, ognor più respinti lontani dalle pasture verso il soffio fresco del mare, il grosso armento andava incontro all’ombre della macchia.

Sultano, il colossale montone, amava questa sua forza tranquilla di incruento duce d’esercito che ricacciava le schiere negre dei corvi dagli splendori d’oro delle radure ai silenzi di smeraldo dei boschi.

I corvi gracchiavano sempre e le vedette roteavano sperando che qualche agnello sfinito o qualche pecora spedata restasse indietro, per richiamare il grosso delle tribù e pascersi di sangue e di carne calda, ma il vergaio vegliava coi suoi brescini e coi suoi bagaglioni in coda alla colonna e appena una bestia cadesse per la spossatezza, subito tre quattro uomini si gittavano su lei, l’accapprettavano, con le zampe anteriori e deretane legate insieme, e la gittavano in uno dei corbelli vuoti pendenti sui fianchi degli asini angolosi, dal pelo irsuto e dai grandi occhi placidi e sottomessi natanti in un languore tanto sereno di pazienza, anche sotto la grandine delle legnate e dei calci nelle pance, gonfie soltanto di paglia, che suonavano come tamburi.

Ma Sultano voleva scacciare i corvi d’innanzi a .

Pareva forse al fosco re delle solitudini un malo auspicio seccante quel corteo funebre di becchini necrofili che volteggiava intorno alla schiera, gracchiando per desiderio della morte d’uno dei capi, e colle corna a folgore ritorte tre volte alle tempie sotto la cervice lanuta si cacciava innanzi verso il folto della macchia, tra laschi di marruche e siepi di biancospino, traendosi dietro l’armento zampettante e belante e lasciando ad ogni spina fiocchi di lana che oscillavano capricciosamente ai soffi del vento.

Come fu sotto l’ombra delle querci l’armento stanco si fermò. Ogni pecora col muso accanto al muso dell’altra meriggiava tranquilla e il respiro delle mille bestie affaticate rispondeva a quello dell’onde invisibili che sciacquavano alterne di dalla mobile barriera di foglie.

Il vergaio e i pastori dormivano sotto un balzo coronato di vegetazione fitta, i cavalli e i ciuchi facevano «il nonno» attaccati con le briglie lunghe a qualche ramo spasimoso di rovere e i cani acciambellati aprivano ogni tanto un occhio di giada a seguire il volo fuggevole di una mosca equina.

Allora il grande montone, disdegnando per un giorno le sue femmine, s’avventurò, solo, verso i corvi i quali, gracchiando, si allontanavano lentamente davanti a lui.

Giunse così dove la macchia era tutto un intrico di barbe e di spine, di foglie e di frasche.

Si udiva, al di , il gracchiare insolente dei corvi e l’ansito insonne del mare, ma il romore del grande armento, rimasticante nell’ombra cogli occhi chiusi e le orecchie abbassate, non si sentiva più.

Ed ecco, Sultano volle alzarsi sulle zampe deretane per vedere i corvi cachinnanti dietro le macchie e non potè più riposare le zampe anteriori a terra, voltarsi muoversi.

Come un polipo, la macchia aveva steso le sue innumerevoli branchie spinose sopra di lui, gli s’era attaccata tenacemente al pelame ricciuto.

Tentò, tre, quattro volte, di sfondare l’intrico colla cervice armata delle corna a folgore ritorte attorno alle tempie dure e non potè più liberarsi.

Ad ogni sforzo si sentiva maggiormente allacciato da viluppi di pruni e da legami sinuosi che parevano tentacoli viventi.

Allora il superbo montone, disperato, belò.

Il terreno che egli fissava con occhi sbarrati diventava turchino perchè forse qualche grossa nuvola copriva il cielo, e il mare, certo, turgeva, poi che il sospiro sempre più rauco si mutava di minuto in minuto in ruggito, cuoprendo il bèlo agro e roco con cui Sultano dava l’appello.

Un corvo svolazzò sopra di lui, lo vide impigliato nella macchia, legato come un bove al «travaglio» per essere ferrato, e corse a dar la novella alla schiera.

In breve la nuvola gracchiante si librò, in voli concentrici, sopra il montone prigioniero.

Uno dei corvi più vecchi si calò, come una nera freccia cadente, e d’un colpo di becco vibrato a pugnale, cavò un occhio al montone.

Il belato di dolore fu coperto dal gracchiare funereo e il lugubre urlo dei corvi fu soffocato da quello del mare.

Il vergaio e i pastori dormivano sognando dei Reali di Francia, di Paris bellissimo e di Vienna dalle bianche braccia, i cavalli e i ciuchi zampavano e scodinzolavano assediati dai tafani color d’acciaio, i cani abbaiavano a pena, tra il sonno, e l’armento masticava cogli occhi chiusi e il muso roseo curvo ad aspirare la terra che esalava odor di funghi marciti e d’erbe fradice.

Dai due fori spaventevoli aperti al posto degli occhi, gocciava giù per le gote ignude, per il vello del muso, un sangue coagulato color della pece.

Uno a uno, dandosi il cambio, senza mai cessare il loro svolazzio rotatorio, i corvi vibrarono il pugnale del becco nella cervice del montone, gli apersero il cranio, dispersero sul terreno opaco brani di cervello palpitante, portarono, alti, nel cielo burrascoso, fiocchi di lana cruenta e la dispersero ai venti.

Quando il sole, rompendo a fatica uno strato ovattoso di nuvolaglie bige, calò nel mare bollente e schiumeggiante, lo scheletro del montone, colle enormi corna a folgore ritorte tre volte intorno al cranio appuntito, pendeva solo e nudo dalla macchia coperta di rossi grumi simili a bacche di pan da serpi mature.

E i corvi, gittando alla notte funebri grida di trionfo, svolazzavano pesanti tra le querci e le sughere, si accomodavano a dormire fra i rami fronzuti ripulendosi alla corteccia i becchi insanguinati, mentre l’armento, svegliatosi, belava a lungo nella solitudine enorme, chiamando invano il suo re.


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