Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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IL MAL DELLO SCOGLIO

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IL
MAL DELLO SCOGLIO

È difficile immaginare qualche cosa di più magnificamente tragico delle «vere» scogliere marine, di quelle che sono di tal natura da impedire ogni approdo e che nascondono dietro al panoramino (quale apparisce di lontano ai naviganti) scenarii prodigiosi di architetture bizzarre dovute al capriccio pazzesco degli elementi, scogliere da non confondersi con quelle piccole gettate di macigni così frequenti lungo la spiaggia Labronica o con quelle artificiali che graziosamente abbelliscono i golfi di Castiglioncello e di Quercianella.

Se ci si addentra nelle vere scogliere, in quelle per esempio, delle isole di Montecristo, del Giglio, di Giannutri, di Capri, si comprende subito come potè formarsi il mito delle Sirene o della maga Circe, tanto più che, probabilmente, di delle scogliere in parola si doverono alzare un giorno, folte e minacciose foreste, abitate da tribù selvagge e predaci le quali forse mandavano le loro donne a spiare tra i monoliti ciclopici le navi veleggianti al largo e ad adescare, con lunghe cantilene di invito, nella gloria azzurra del cielo, sulle vette dei faraglioni, i navigatori.

Io rispetto, e stimo fine alle lacrime, la letteratura di cui ho visto farsi, di recente, banditori e assertori taluni scrittori italiani, letteratura che consiste nell’esprimere con poche parole le più semplici, le più stupide, anzi, del linguaggio comune, quello che si vede o che si vuol dire, ma disgraziatamente dove uno di questi scrittori puri vedrebbe soltanto un sasso battuto dal sole con una vigna vicina, io ci vedo il gigante di granito lavorato dal mare e dai venti in una frenesia di spume e indovino dattorno la natura vergine delle età sepolte nel passato e gli abitanti selvaggi i quali si mutarono, traverso i racconti di quella povera gente che furono i poeti, in Deità, e apersero alla nostra irrequietezza spirituale le porte scintillanti del Mito.

Per conseguenza tutte le volte ch’io posso, mi diverto con una barca a costeggiare la strana galleria di statue bizzarre, di mostri colossali, di grotte fantastiche, che il mare continuamente lavora e cambia con pazienza di secoli, deriso dal vento, il quale, su in alto, lavora e cambia continuamente le nuvole con capricci di istanti.

Una mattina fui invitato, da alcuni pescatori, miei buoni amici, a recarmi a passare una giornata intera fra le scogliere. Si sarebbe fatto il bagno, avremmo pescato e avremmo, infine, consumato un pranzetto marinaresco, nascosti fra le gigantesche maestà del granito, o, come dicevano i buoni pescatori nel loro gergo, fra le còti.

L’entusiasmo col quale accolsi la proposta fu tale che qualcuno mi domandò se io ero mai stato sulle scogliere.

Dissi di sì, perchè, infatti, vi avevo trascorso qualche ora per diporto, passeggiando lungo i fianchi più dirupati dell’Isola del Giglio; ma in verità non mi era mai successo di passare fra gli scogli una dozzina d’ore; in ogni modo immaginai che la domanda fosse dettata da pura curiosità e i postulanti furono paghi della risposta.

L’alba mi trovò sulla spiaggia, colla pipa in bocca, pronto a partire, armato, bene inteso, della inseparabile cassetta da pittore.

Nel momento in cui mettevo piede in barca mi fu chiesto se avevo pensato a bere un bicchierino di cognac o d’elixir di china.

Mi misi a ridere.

– Non bevo mai liquori, e tanto meno a digiuno; quanto al mare non mi fa nulla eppoi si tratta di una giratina in barca di pochi chilometri.

I vogatori presero i remi e salpammo proprio mentre un limpidissimo sole sorgeva dietro i cobalti e i viola dell’Argentario; naturalmente, il viaggetto fu ottimo e, appena sbarcati e abbandonata la barca in una insenatura dove il risucchio non arrivava (ostacolato da alcuni sassi a fior d’acqua che avevamo sapientemente girati per giungervi) si fece un bagno delizioso, dopo il quale ci si divise in due gruppi, uno che doveva provvedere il desinare e uno che doveva cucinarlo.

In un momento l’odore del soffritto si levò nell’aria brillante di quella mattinata stupenda, mentre i pescatori, per far più presto ed essere sicuri del fatto proprio, buttavano sopra due branchi di «occhiate» placidamente natanti ad una relativa profondità, due cartucce di dinamite che ne fecero strage.

Poi, tanto per non parere (dato il caso, rarissimo, che il rombo dello scoppio avesse potuto richiamare qualche agente di finanza in perlustrazione) si misero a pescare con una piccola rete.

Io m’annoiavo, ma ricordandomi d’aver portata la cassetta, andai in cerca d’un soggetto, e cominciai ad inerpicarmi sui macigni dove il mare ha tracciato passaggi, gallerie, corridoi, grotte, saloni, abitazione di tutti i mostri favolosi della leggenda che vi si rifugiano urlando lamentevolmente e suonando le loro nicchie ritorte, quando i gabbiani si rimandano grida rauche di gioia inebriati dalla burrasca.

Trovai, finalmente, il luogo adatto, e mi posi a sedere all’ombra di un immenso monolite che sporgeva di sopra un cumulo di blocchi granitici, lungo come un enorme becco, mentre, di faccia a me, dall’ovale imperfetto aperto dal vento in una parete di granito levigata dagli assalti delle schiume, splendeva un lembo di mare di un turchino inverosimile e su tutto il sole diffondeva la sua musica d’oro.

Ma avevo appena incominciato a dipingere che provai uno strano malessere; mi colse come un senso di sonnolenza, di languore.....

Smisi di fumare, però la strana sensazione opprimente non accennava a cessare.

Posai la cassetta e ripresi a girellare fra le pareti oblique delle scogliere, ma l’afa che emanava dai graniti riverberanti da migliaia di scagliole multicolori i raggi ardenti del sole, era insopportabile.

Adagio, adagio, cominciai a provare l’illusione che le immense figurazioni di pietra si muovessero lentamente con un movimento impercettibile di coesione, per stritolarmi in una stretta di pietra e, con fatica, scalai una delle muraglie più basse e di blocco in blocco, sudato, fradicio, pervenni in cima, ristetti immobile, in pieno cielo, sopra una confusione bizzarra di massi infuocati simili ad una moltitudine di cranii di giganti affollati sotto di me.

Paesaggio implacabile, paesaggio desolato, paesaggio muto, paesaggio arroventato..... mi metteva paura e stanchezza.

Il mare era deserto, senza una vela, il cielo era bianco, come il ferro candente quando il calorico ha raggiunto il parossismo e di sotto ai piedi calzati di sparto il fuoco dei macigni mi saliva fino al cuore indebolendo tutte le mie energie.

Chiamato intorno al caldaro del cacciucco credei mangiandone abbondantemente, e mandandoci dietro alcuni bicchieri di vino aspro e gagliardo, di recuperar le forze, ma il sonno mi vinse.

Non percepivo più chi fossi, dove fossi, sentii, come in un sogno, una voce che mi consigliava di sdraiarmi all’ombra, andai in cerca dell’ombra, barcollando, cogli occhi pieni di scintille e la bocca amara di sale, mi adagiai, supino, e caddi in un sopore agitato che non era sonno.

Ero all’ombra, eppure un riflesso mi bucava le palpebre chiuse; mi provai ad aprirle e vidi sopra di me il cielo rovente fra due colossi di granito azzurro.

Un romore indistinto che aumentava di continuo m’avvertì come, forse, si fosse levato il vento, ma fino a me non ne giungeva refrigerio alcuno.

Ero ormai imprigionato fra le pietre, incapace di un solo movimento, fatto di pietra io stesso.

Il romore aumentava, il mare, col declinare del sole cominciava il suo assalto serotino alla barriera di scogli, s’insinuava nelle grotte a fior d’acqua, le consumava col suo bacio lento e crudele.

Vivevo, ma di una vita torbida ed oscura, in una sub-coscienza misteriosa dalla quale non emergeva gioia dolore, permeato completamente dalla materia inerte del sasso. Le molecole del mio corpo non avevano più movimento, mi irrigidivo in una insensibilità minerale.

Il mare russava, e il vento cantava, rammulinandosi voluttuosamente negli antri eolii, quasi a cullarlo nell’imminenza della sera.

Poi delle voci strane serpeggiarono fra i meandri del granito, furono raccolte dagli echi, risuonarono nella convessità delle pareti, come richiami fiochi di nicchie soffiate da bocche tritonie.

Allora credei veramente che il mio sonno durasse da secoli, perdei del tutto la nozione dell’ora e dell’ambiente, m’indurii in una staticità minerale e poichè ancora ardevo della gran fiamma del sole, scomparso, del riverbero del cielo divenuto d’oro ad un tratto, presi ad augurarmi che la burrasca, agitando i marosi, li sollevasse e li abbattesse sugli scogli e su me, placando l’arsura della pietra, e aspettai con ferma fiducia che qualche stillante Deità marina strisciasse sul mio corpo irrigidito per arrampicarsi fino alle cime aspre e gittare il suo richiamo alla notte.

Dallo strappo di cielo affacciato fra i due colossi di granito, ormai violetti, pareva piovesse sangue, mentre la canzone della risacca accelerava il suo ritmo.

Poi il sangue rosso cedette ad un verde smeraldo che incupì fino al cobalto intenso e nelle profondità di quel turchino battè le ciglia una stella.

Tutti li scogli urlavano ora, impotenti a sciogliersi dall’incantesimo della loro immobilità, flagellati dai flutti che si scagliavano all’assalto e si ritiravano con uno scroscio, frantumati dall’urto.

E anch’io gridai, selvaggiamente, perdutamente, prigioniero di me stesso, senza poter muovere un dito, e subito delle voci umane spezzarono l’illusione, fecero dileguare il sogno, delle mani robuste mi sollevarono, mi porsero da bere, mentre, intontito, fuori di me, domandavo che cosa fosse successo.

– Nulla! Nulla..... il male dello scoglio..... le è parso d’esser divenuto pesante, non è vero? d’essere impossibilitato a muoversi, ha sognato a occhi aperti? beva e venga via, s’è levato maestrale, la vela è piena di vento e fra un quarto d’ora saremo al porto.....

– Sì..... ma le naiadi..... i tritoni.....

– Cosa dice? su, su, si scuota, si svegli... mi dia la mano..... badi, c’è un bel salto da fare..... ecco la barca..... monti..... monti..... Giacomo, pigliate il timone..... Lionero, molla!

La vela schioccò, tendendosi, e la barca s’adagiò di fianco come un nuotatore che rompa la corrente di punta; con un balzo fu al largo, i flutti parevano baloccarsi a sospingerla, da poppa, così per giòco; le scogliere, divenute ormai oscure forme straordinarie protese sul bollore dell’acque, urlavano sempre, animate da una vita misteriosa, sotto il cielo cupo fremente di stelle.


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