Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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UN ATOMO D’INFINITO

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UN ATOMO
D’INFINITO

Ho provato l’ansia dell’infinito, o, per dir meglio, la provo sempre, quando ripenso ai momenti nei quali mi parve che il tempo si fosse arrestato e nei quali, perdendo la nozione dello spazio e del numero, non ricordai più nulla di tutto quel che mi lega, e ci lega, alla vita.

Momenti veramente, anzi attimi, perchè subito la realtà riprese il suo dominio, ma così straordinarii, che vorrei riuscire a darne un’idea approssimativa. Confesso però che dubito molto d’esserne capace; perchè, in fin dei conti, più o meno, si riesce sempre a descrivere quello che è, ma è ben difficile rendere, anche col sussidio delle più lambiccate parole, quel che non è.

Ed io in qualche rarissimo attimo della mia esistenza ho provato l’angoscia e la voluttà di non essere.

Angoscia e voluttà poichè, in quegli istanti, si ha insieme la sensazione che la vita ci abbandoni e quella d’esser trasportati in uno spazio senza limiti dove i tormenti del pensiero e del corpo non esistono più.

L’ultima volta in cui mi accadde questo fenomeno fu all’isola di Giannutri, scoglio solitario nell’arcipelago toscano, fra l’isola del Giglio e Porto Ercole.

Bisogna che i lettori sappiano esattamente che cosa c’è in codesto posto per farsi un concetto approssimativo del mio stato d’animo.

Giannutri non oltrepassa due miglia di lunghezza, ed è abitata soltanto da tre fanalisti e da due contadini i quali coltivano una grama vigna.

Vi erano, fino alla fine del 1922, pure due eremiti, un ex capitano garibaldino e una sua figlioccia, ma dopo la morte di lui anche i sotterranei della villa romana, di cui affiorano le rovine tra i radi lentischi, e che si crede abbia appartenuto ai Domizii Enobarbi, sono rimasti deserti.

È facile dunque immaginare come il principale signore dell’isola sia il silenzio.

E di silenzio mi abbeverai un giorno d’Agosto che trascorsi dipingendo e fantasticando sullo scoglio tirreno.

Avevo lasciata la tartàna, con cui ero approdato, nella Cala degli Spalmatoi, specie di baia semicircolare composta di rocce vulcaniche basse e color del ferro, sormontata da un poggio folto di corbezzoli e di sabine, dando appuntamento ai marinai e a mia moglie che si recavano a pescare, per il tramonto.

E al tramonto, dopo essere stato dalle undici alle diciannove completamente solo fra mezzo ai ruderi romani, ai mirti, ai ginepri, in faccia alla distesa sconfinata del mare placido, d’un azzurro abbagliante, scesi puntualmente alla Cala dove m’aspettava a bordo il caldàro di cacciucco fumante.

Fu proprio costì che ebbi l’impressione di cui non potrò scordarmi più mai.

I marinari mi avevano lasciata la lancia arenata alla spiaggia ond’io potessi raggiungere la barca, ancorata, immobile nella gran calma serale, al largo, in mezzo alla baia, perchè, dopo cena, dovendo dormire in attesa che s’alzasse il vento il quale doveva ricondurci all’isola del Giglio, da cui si era venuti, non ci molestassero le zanzare, numerosissime a terra.

Appena fui sceso dal poggio di lentischi e di mirti depositai in fondo alla lancia la cassetta da pittore e il panchetto, poi, scalzatomi, spinsi la barca nell’acqua, vi saltai dentro e presi i remi.

Ma i remi mi caddero di mano.....

E rimasi, attonito e smemorato, a guardare lo spettacolo che mi si spiegava d’intorno.

Il sole, tramontando, aveva lasciato il cielo del tòno preciso dell’oro vecchio, un po’ verde, e i due promontorii della baia, violetti per il gran contrasto dei colori circostanti, s’adagiavano immobili sulle acque ferme, assolutamente rosse, di un rosso trasparentissimo di lacca carminata chiara.

La tartàna un po’ di fianco, colla vela floscia, ma già alzata, pareva, tuffata in quel sangue brillante, un pesce favoloso con un’enorme pinna a fior d’acqua.

Non un uccello nel cielo, non una figura umana sulle scogliere, non un canto, un latrato di cani, non un lontano suono di campane; nulla.

L’isola con tutte le forme e tutti i colori fusi nel violetto cupo contro il fulgore incredibile dell’oro del cielo e della porpora dell’onde, aveva qualche cosa di soprannaturale.

Sotto di me l’acqua era di un verde smeraldo limpido come il cristallo.

Abbassando gli occhi vedevo infinite distese di praterie d’alghe immote punteggiate dalle chiazze lacca-bruna dei ricci e verde veronese degli spiazzi arenosi.

Dovunque spingessi lo sguardo il verde si univa alla porpora, la porpora all’oro, l’oro digradava di nuovo in verde, il verde sfumava nel turchino cupo e le coste erano d’un violaceo che incupiva rapidamente fino a parer nero.

Non osai più muovere un dito; i remi penzolavano nell’onde come le ali d’un alcione fulminato; trattenni il respiro, perdei assolutamente la nozione dell’essere, non ricordai chi ero, dov’ero, con chi ero.

Fu una frazione infinitesimale di secondo, e in quell’atomo d’infinito ebbi la certezza dell’eternità.

Non sentivo più me, non sentivo più il peso della carne, l’angoscia del pensiero, lo stimolo della fame, la noia della stanchezza; tutto quanto mi circondava era assurdo, irreale, inesistente... e pure sempre esistito..... da millenni.

Il colore..... il colore!

Il colore riuniva in l’oro dell’alba, il giallo del meriggio, il croco del tramonto, il verde del crepuscolo, l’azzurro della notte; l’ora non poteva precisarsi a cagione dell’assenza assoluta dell’ombre, non misurarsi lo spazio a causa dell’identità del cielo con le acque, non concepirsi la terra per il violetto cupo che la faceva eguale ad un’ala di nuvola, a un monolite nel deserto, a un frammento cosmico spento, precipite e immobile al tempo stesso negli abissi dell’eternità; il mare per la sua cristallina purezza non mandava odori, mancava il moto, mancava il suono, mancavano le percezioni dei sensi, mancava la vita.

Ora, in codesta atmosfera di sogno, mi parve, in quell’attimo, che il mio spirito si disfacesse in una gioia muta e profonda, partecipando ad un tempo dell’aria, dell’acqua, della terra, esistendo in una esistenza assoluta e non caduca perchè immateriale.

Ero morto, e nella morte percepivo la gioia smisurata di una vita senza fine perchè senza principio.

Ad un tratto una voce stentorea chiamò: – Ehi! la tartàna! A che ora partite? Gettiamo le reti verso la cala.....

– Fra mezzanotte e le due! – risposero i marinai.

Chiamateci, per lasciarvi il passo.

– Sta bene.

E scivolando sull’onde tranquille sotto la spinta di quattro remi, una barca da pesca girò la punta di destra della cala ed entrò nel golfo.

Allora vidi spuntare dalla terra i ciuffi verdi della bassa vegetazione maremmana, delinearsi le anfrattuosità delle scogliere vulcaniche, il cielo incupire, accendersi una stella, le alghe in fondo all’acque aprirsi al passaggio di una mandra pascolante e scodinzolante di «lecci», poi un cane, l’unico cane dell’isola, Tripoli, abbaiò alla paranza che si ormeggiava nel piccolo porto scavato a furia di subbia nel macigno calcareo dagli schiavi dei Domizii.

Ero vivo. Ripresi i remi, vogai adagio, vidi a bordo della tartàna splender la fiamma e intorno al fumo affaccendarsi mia moglie e i due marinai; sentii lo stimolo della fame, pensai che fra pochi giorni avrei dovuto tornare a Firenze, che a quell’ora sarei stato a mangiare fra quattro pareti, sotto la luce elettrica, guardando l’orologio per paura di far tardi al teatro.

– Sei tu? o cos’hai fatto fino ad ora solo per l’isola? cominciavo a stare in pensiero

Salga..... mi dia la mano..... il caldàro è pronto..... sentirà che roba! da leccarsi le dita...

Guarda! Annusa.....

Assaggi.....

Apersi il panchetto da pittore, mi misi comodamente colla schiena contro l’albero, mi tirai sulle ginocchia la scodella fumante e rimasi, assorto col cucchiaio a mezz’aria.

Poi dissi forte, ma parlando a me stesso:

– Come si sta bene da morti!

– Specialmente, risposero in coro mia moglie e i marinari attaccando la zuppa, quando siamo vivi!

E risero, di cuore, credendo che io avessi voluto dire una spiritosaggine.


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