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Ricordo le vecchie vendemmie toscane e abbraccio l’erma del Dio Pan, che biancheggia tra il verde dei lauri d’una villa settecentesca in faccia all’anfiteatro violetto delle colline fiorite d’olivi, pregando che almeno la vendemmia sia rispettata nel rito. Già una parte, l’ultima, la chiusura, della vendemmia toscana è scomparsa; perciò la penso con nostalgia.
L’alba. Cielo grigio velato, con quei soffici strati color cenere che piacevano tanto al placido pittore Cannicci.
Il padrone con l’«òmo» si avvia all’uccellare situato in vetta a un’altura tra bussi di carpini, di corbezzoli, di cipresse basse e di mortelloni, e il capoccia impone, sull’aia, il giogo ai colossali manzi bianchi che fumano, immobili, dalle narici nere, l’occhio mansueto, rugumando tranquilli.
Capoccia e padrone si salutano, speculano il tempo, insieme.
Il contadino, tendendo un braccio color del bronzo, indica nel cielo un piccolo triangolo nero. Le oche di passo che vanno verso il tiepido clima del mare.
Il rosso Ottobre si affretta alla vendemmia perchè dietro l’anatre selvagge il freddo cavalca le nubi cineree spingendosi innanzi i branchi veloci.
Allora gli uomini sapevano andare a caccia e non avevano imparato a distruggere ciecamente la specie.
Passavano i branchi veloci, talvolta, per un attimo, oscurando il cielo; chè, ai valichi dell’alpe e dell’appennino non v’erano ad attenderli, come oggi, le reti voraci che dovrebbero esser vietate o quelle cinture di bocche di fuoco che disonorano il nostro paese.
Il capoccia diceva i nomi della specie via via che i branchi si susseguivano nel cielo bigio.
Filunguelli dal volo a scatti, tordi, più lenti, preceduti dallo zirlo molle, foriero di piovaschi, storni silenziosi, cornacchie astute, colombacci sordi, germani e oche dal remeggiare solenne.
Su, dal capanno, tutti i carpini, i corbezzoli, le cipresse nane e i mortelloni, spincionavano, zirlavano, trillavano.
Dalle zolle che la prima luce lambiva, giù in fondo ai campi, era un lieto rispondere d’allodole e mattoline.
Passeri a migliaia, come sbatacchiati dal vento, si abbattevano, a folate, cianciando lieti, dal tetto alla cipressaia e dalla cipressaia al pomario.
Allora non si sterminavano gli uccelli, balordamente come oggi, e le frutta non erano bacate.
Infine il sole rompeva da levante, pigro.
Apriva il suo occhio bianco, fra due cortine bigerognole di nuvole grevi, dalle cime dei monti azzurri e tutto il pianoro pareva svegliarsi, cantando.
Le allodole e le mattoline si slanciavano, a volo pazzo, per aria e di lassù godevano a librarsi sull’ali tremule sgranando perle e brillanti sonori contro il cristallo del cielo. Un falco, sull’ali distese, sceglieva coll’occhio telescopico la sua preda, croce immobile in mezzo a uno strappo delle nubi.
Anche oggi il capoccia impone il giogo ai manzi monumentali e il padrone si avvia al capannuccio di frasche.
Ma i riti si compiono in un silenzio di tomba.
Più triste è l’alba grigia di ottobre, salutata appena da qualche trillo lontano di mattolina, dallo zirlo acutissimo, impaurito, di un povero tordo scampato a prodigio, alle stragi. Ma io vivo di nostalgia e rivedo tutto come era allora.
Ecco, il sole ha incendiato il poggio dell’uccellare donde si susseguono, come spari di gioia, le fucilate del cacciatore.
I branchi delle cappellacce, delle panterane, incoscienti come tutti gli animali di passo, cantano sempre gioiosamente, invisibili fra le zolle, di cui posseggono la tinta, o nel cielo col quale si confondono nel brillìo della luce.
Il carro, dipinto di minio, sonante di bigonce vuote rovina sobbalzando, seguito da un branco di ragazzi e di donne armate di roncole e muniti di panieri e di corbelli, giù per l’erta scoscesa e sassosa. Da tutte le viottole l’opre, vere e improvvisate, scendono al campo.
La signorina e la pigionale, la contadina e la sodaiola, sono affratellate tutte nella gioia del mosto di cui s’indovina l’odore nell’aria umida della giornata.
Il capoccia ha fretta, perchè i nuvoli fanno il buzzo e la giornata è piuttosto sementina che da vendemmia.
Le zolle rosse colore del buon sangue umano, sembrano chiedere la violazione della vanga e la fecondazione del seme.
Ma i pioppi bassi attorno ai quali le viti gittano spasimando le braccia di lacca ornate da pampini color della ruggine, sono opimi troppo di grappoli e il capoccia esorta l’opra ad affrettarsi, chè lo zirlo dei tordi e le righe lunghe dell’anatre gli fanno temere il cambiamento del tempo.
Rapide, tagliando le ciocche violette ai filari, splendono le lame fra i pampini rossi; nel cielo, il sole appare e scompare, di mezzo alle scale delle nuvole, gittando sprazzi d’oro e ombre cilestrine sui capi affaccendati.
I bovi bianchi ruminano sempre, monumentali, colle narici nere chiuse nelle gabbie di giunco, scuotendo dalle cervici lanose i fiocchi rossi delle moscaiole.
Attorno al carro rossodipinto è un gran fervore d’ammostatoi, mentre nel mezzo tino legato alle due sponde basse del plaustro si rovesciano a prova le ciocche dell’uva appena colta dalle bigonce recate a spalla, con miracoli d’equilibrio, dagli uomini più giovani.
A un tratto, come il sole riesce a vincere la nuvolaglia e in cima ad ogni pallida foglia d’olivo si accende una fiamma, da un folto rugginoso di viti il primo stornello zampilla, e un altro risponde da una vetta già brulla di grappoli.
Il sole, filtrato fra l’ovatta delle nuvole pigre, cola lungo le prode a guisa di miele e l’aria intiepidisce, sì che dall’afrore dell’uve respirato dai vendemmiatori, questi sentono diffondersi in loro come una stanca voluttà di convalescenza.
All’ombra dei mori, sui margini cortesi d’erba del fosso (oggi, in nome della patria si tenta di europeizzarne la lingua e i margini naturalmente si chiamano «bordi!») una dietro l’altra, vanno a sedersi, tergendo il sudore, le «opre» alle quali le donne recano la colazione.
Scendono le donne coi tegami, coll’anfore, colle ruote di pane in bilico, sulla testa, le mani sui fianchi lunati, e paiono statue discese dal plinto e messe in movimento per virtù di miracolo.
La terra ribolle sotto il sole che ha vinto le nebbie e rifuma la guazza donde fu inzuppata la notte, e anche il tino sul carro ribolle, assediato da un nuvolo d’api, di tafani, d’estri e di vespe; ma i bianchi buoi indifferenti rugumano immobili scuotendo ogni tanto solamente un orecchio peloso.
Sembra che sappiano come da tutte le parti del grande anfiteatro di colline la loro macchia bianca si veda e tengano a conservare la loro impassibile indifferenza di monumenti.
Il sole avviandosi al tramonto suscita dai boschi e dai filari, nudi ormai di corimbi, bagliori d’oro vecchio e di porpora.
Il cielo è tutto un gran rogo; sotto gli orli infuocati delle nuvole si affacciano zone verdi, di quel verde lucente che soltanto l’Angelico seppe trovare per illuminare le tuniche di certi suoi Cherubini.
Il capoccia ha raccomandato ai ragazzi di raccattare i chicchi caduti.
– Un contadino – egli dice – ricavò più di «millanta» barili di vino dalle chicca, e dai raspi ricavò soltanto dell’acquerello acido.
E i ragazzi, per i filari, nella luce sanguigna del crepuscolo, empiono, a prova, i panieri dei lucidi chicchi caduti ai vendemmiatori.
Questi risalgono il monte a gruppi, i panieri vuoti infilati nel braccio, i corbelli vuoti sulla spalla, le roncole e le forbici pendenti, chiuse, dal fianco, e taluno reca il tralcio di lacca col penzolo d’oro, d’uva bianca moscata.
Li aspetta la cena; la classica cena della vendemmia toscana, che incominciata con la minestra in brodo e continuata col lesso, col pollo in umido, col pollo fritto, col conigliolo in fricassea, con una serie di carni in salsa una più succolenta dell’altra, finisce colle paste asciutte!
E dopo la cena, occhi lustri, nasi impeperoniti, gote che a sdrusciarvi uno zolfino piglierebbe fuoco, tirata via di mezzo la immensa tavola e allineate lungo le pareti le panche; il suono d’un organino inviterà al vecchio «bàrzere» e nelle pause si faranno i giochi di sala.
Il gioco del barbiere sceglie quello della brigata che notoriamente sia meno permaloso, perchè, invece che col sapone, gli fanno la barba con la filiggine del culo del paiolo, e quello del merciaio i più resistenti, dovendo uno figurar l’asino e farsi cavalcare dall’altro; ma il gioco principe, il gioco non morto bene neanche in questo secolo distruttore e rinnovatore, è quello della «berlina».
Lì i dami, i sensali, i capoccia rivali, le ragazze invidiose, i cacciatori sfortunati se ne dicono, sperando di non essere riconosciuti dalla perspicacia dell’imputato, di cotte e di crude, scuoprendosi a vicenda gli altarini e svergognandosi amabilmente finchè quello, o quella, che è in berlina, sentendosi punger sul vivo, scatta e addita il satireggiatore al quale tocca a pigliare il suo posto e a pagare un pegno.
I vecchi capoccia, di cui s’è perso anche lo stampo, erano capaci di dare per penitenza, agli uomini, di passare attraverso le gambe di una seggiola con un bicchiere colmo di vino sulla testa, senza versarlo, e alle ragazze di buttare un bacio al più brutto invitato della festa.
Donde uno schermirsi, un protestare, un sogghignare, uno scommettere, un urlìo da non si dire, ma sempre a lieto fine, in mezzo a risate e abbaiate e chioccate di palme e fischi.
Oggi il giuoco di sala è scomparso; il contadino va al cinematografo, i vecchi guardano, melanconici, dal canto del fuoco, i più giovani «inurbarsi».
E pensano: Restate fedeli alla terra, come noi siamo rimasti, concimatela con strame e concime vero (mosso da uman privati), non sperdete gli uccelli nelle radici delle razze, potate e sarchiate, propagginate le viti, sfilate le fosse, ripiantate, non vergognatevi, insomma, a fare il contadino, e la battaglia del grano e di tutti i cereali, sarà vinta.
Quando i vendemmiatori escono per fare ritorno alle case, pioviscola adagio. Un’acqua «consolata» che prepara il terreno alle sementi prossime e fa sbocciare i crisantemi per onorare le tombe dei nostri poveri morti.
Ed ecco, o Signore Iddio, che ci avevi creati per questa dolcezza e per questa bellezza, io mi inginocchio e ti prego:
Fa’ che dai campi, come il cavallo è sparito dalle vie e l’uccellino dalle selve, non scompaia, sostituito da brutte macchine rombanti e frementi, il candido bue di Virgilio.