Ferdinando Paolieri: Raccolta di opere
Ferdinando Paolieri
Uomini, bestie, paesi
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CACCIA ALLE BECCACCE

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CACCIA
ALLE
BECCACCE

Pirro Malpassi, gran cacciatore al cospetto di Dio, nonchè aiutante del Genio Civile di Grosseto, mi aveva detto la sera avanti: – Se domani è scirocco, si troveranno poche beccacce, ma si troveranno di certo e se non reggessero o noi si fosse in vena di «padelle» si potrà ritornare a cacciarle domani l’altro e quell’altro e per tutta la settimana perchè quando il tempo è cattivo non si rimetton sull’ali: ma se invece fosse tramontano secco non avremo che un giorno solo a disposizione perchè la notte stessa ripartiranno. In compenso ne vedremo un gran numero: a ventine, glielo garantisco, a ventine frulleranno!

– Ma, chiesi io, collo scirocco, saranno in un posto e col tramontano in un altro.....

Naturalmente! quand’è scirocco si buttano nel golfo del Campese, quand’è tramontano riparano dalla parte di dietro della Pagana, giù giù fino alle macchie basse del Capel Rosso. In ogni modo domani ci si diverte! –

Eran le ventidue e la mattina ci si sarebbe dovuti alzare prestissimo, perchè bisognava essere al Castello prima di giorno, in modo da calare sul posto ai primi bagliori antelucani e trovarci in caccia a levata di sole, e si pensò bene di andare a letto.

Il cane c’era, ma sarebbe stato meglio non ci fosse, da tanto scorreva, abboccava i polli, puntava i merli e ne faceva d’ogni erba un fascio. Però Dio liberi a toccarlo a Pirro! Avrebbe preferito che gli aveste detto male della moglie e della bambina.....

Esuberanza, soleva dire, è qualità e non difetto, negli uomini e nelle bestie e se Tago si placa diventa un cane che nemmeno il Re d’Inghilterra!

E tutti lo lasciavano dire, perchè sapevano bene che, una volta nel bosco, l’impareggiabile Tago si sarebbe buttato di sfascio e non si sarebbe rivisto che all’ora del desinare.

Perchè questa intelligenza l’aveva: di comparire, appena ci si fermava per mangiare, dalle plaghe più remote, quasi che avesse posseduto il famoso odore chilometrico delle farfalle, peggio di un fantasma, improvviso e silenzioso come la paura.

Uscendo dalla botteguccia dove si trascinavano le serate fra una briscola e una primiera, si dètte un’occhiata al mare che ribolliva nero sotto poche stelle lucentissime palpitanti in mezzo a lembi stracciati di nuvole color d’inchiostro.

Il padrone dell’osteria, mentre metteva le bande, presagì poco di buono per il giorno dipoi.

– Però, concluse, tempo da beccacce è. –

E noi, poichè non si voleva altro, s’andò a letto tutti felici.

Si partì alle cinque, vale a dire a buio pesto e quando si furon fatti i primi cinquecento metri di quella ripida sdrucciolevole che, a quei tempi, era l’unica strada che menasse al Castello, ci si accorse d’essere fradici intinti dal sudore, di dentro, e dalla guazza, di fuori.

Io mi fermai sbuffando, e azzardai a Pirro: – Ma..... o non era meglio, scusi, se s’era andati per mare? –

Ma Pirro mi spiegò come oltre al pericolo di non poter passare la punta del Fenaio perchè chissà che verso facevano i marosi dalla parte dei Faraglioni, ci fosse il caso che il tempo voltasse a tramontana a un tratto e allora saremmo stati obbligati a rimontare l’isola per ridiscendere poi sottovento, e, salire, per salire, era meglio arrampicarsi subito lassù dove l’alba avrebbe pensato ad orientarci.

Il mare mugghiava sinistramente nelle cale sottoposte, mentre noi si seguitava a inerpicarci, colando sudore ed umido da tutte le parti, e facendo un passo avanti e due indietro, sul granito fradicio, colle scarpe imbullettate che ci s’era messe per attaccare sul terreno molle e sulle foglie secche della macchia.

Lo sciacquìo del mare, benchè noi salendo ci si allontanasse maggiormente, pareva crescere nell’immensa ombra che ci fasciava tutti, e quel respiro inquieto e gigantesco ci faceva sentire di più il formidabile silenzio incombente sulla piramide di pietra isolata in mezzo al Tirreno.

Come Dio volle, nel buio si riuscì a distinguere un ammasso informe, anche più nero del buio stesso, e, a tentoni, inciampando negli scalini, si entrò sotto la volta bassa del Castello, camminando sopra uno strato alto di mota e di sudiciume. Così, sempre alla cieca, si sboccò su quel tratto delle mura, d’onde, dai merli e dalle bertesche, l’occhio si spazia sul mare fino alla Corsica, e in fondo all’abisso vede spuntare l’estremità rotonda della Torre del Campese.

Ma codesta mattina non distinsi nulla.

L’alba stava, certo, per sorgere, perchè il vento soffiava fortissimo ghiacciandomi addosso il sudore con un senso di molestia così insopportabile che mi sentii, ad un tratto, come languire lo stomaco, ma nessun chiarore s’affacciava sul mare; soltanto le tenebre diventavano più trasparenti, in modo che, adagio, adagio, cominciavo a percepire gli oggetti non come cose più buie del buio, ma come volumi densi in mezzo ad una oscurità trasparente.

Pirro, però, che non aveva melanconie per la testa e non perdeva il tempo a filosofare sulle sensazioni, mi scosse per un braccio e mi disse senza tanti preamboli:

Caro mio, siamo fregati! Non soltanto tira scirocco, ma cala un nebbione da fare spavento!

E inumiditosi di saliva il dito indice l’alzò per assicurarsi che non s’era sbagliato.

– E ora, dissi io, che cosa si fa?

– Bisogna affrettarsi alla marina, perchè l’isola è circondata di nebbia fino a un certo punto: dalla cintola in giù il nuvolone che la ravvolge si fa meno denso, dilegua e, forse, sul mare ci sarà il sole. Via! e di galoppo, dovendo pigliar la strada più lunga, traverso ai boschi, perchè se si passa dalla mulattiera ci si rompe una gamba, a dir poco, sui gradini scivolosi. Presto, andiamo!

– Ma, balbettai, mi s’è ghiacciato il sudore addosso e volevo riempir la fiasca del cognac quassù, visto che al porto non riuscii ieri a trovarne.....

Impossibile! dormono tutti, a quest’ora, e il tempo stringe, andiamo! E Pirro, attaccandosi al guinzale teso di quell’accidenti di Tago, s’avviò avanti, mentre io lo seguivo, col colletto della cacciatora alzato, il berretto sugli occhi e il fucile a bocche all’ingiù, reggendomi ai muri fradici per non cascare.

Appena fuori dalla porta le poche lastre di granito che distinguevo davanti ai miei passi erano già violette, segno che l’alba s’avvicinava, ma una volta usciti dalla cinta delle mura, la nebbia cominciò a entrarmi in bocca a folate dense, il vento a insinuarmisi di sotto le maniche e a ricercarmi la carne, mentre continuavo a sudare come se avessi avuto la febbre. Giù per la china del bosco era peggio che andar di notte, si sdrucciolava sulle foglie marcite, non ci si vedeva un passo più in del naso, e si inciampava ogni tanto nelle barbe e nei tronchi morti.

– Mi pare, dissi a Pirro, che qui non ci sia nemmeno un po’ di viottolo.

– No! ma, andando sempre diritto, non c’è da sbagliare!

Bel discorso! Il guaio si è che diritti non si può andare, perchè ogni tanto, o c’è un fosso, o c’è una ragnaia, o c’è una barriera di macigni.

In quel mentre cominciò a piovere.

Pioveva a dirotto e la nebbia, invece di diradare, aumentava.

Umido dentro, caldo e diaccio, acqua di fuori, nebbia d’un turchino languido che faceva girare il capo e tutto quel luccichìo di foglie gialle in terra, e le gocciole sugli occhi che colavano dalla visiera del berretto, era un insieme di cose tale da darmi la sensazione d’esser malato.

Suggestionato, cominciai a veder dei punti neri davanti alle pupille, mi fermai e chiesi a Pirro: – Ma dove siamo, ma dove si va?

Pirro, si fermò ad asciugarsi dalla fronte l’acqua e il sudore, e mi rispose dando un calcio a Tago, sempre a guinzaglio, che lo voleva tirar via: – Francamente, ora, non lo so più nemmen io!

– Ma lo sa, urlai riscaldandomi a buono, che non ho preso neppure un tozzo di pane in carniera? E se si sbaglia strada e si finisce nella macchia, cosa facciamo, dove si va a riposarci e a mangiare un boccone?

Pirro, umiliato, come se avesse confessata una colpa, mormorò:

– E allora sarà meglio tornare indietro...

Per quanto arrabbiato, non me lo feci dire due volte, e via su per quei boschi, cercando se, col riscaldarmi a salire, avessi potuto vincere il malessere che m’invadeva in mezzo a così squallido paesaggio.

Ma quando, con stenti inauditi, si fu, o si credette d’essere in cima, ci si trovò di faccia a un capanno da contadini in muratura, sotto al quale un erculeo colono gigliese si riparava dall’acqua, che, ora, pioveva giù grossa come le schegge.

– Ma, o dove siamo? – gli chiesi.

– A due miglia dal Castello, sotto il versante sinistro della Pagàna..... altri dieci minuti sempre a diritto e trovano il viottolo del Capel Rosso.

Non mi pareva possibile d’aver fatto tanto cammino! Il difficile consisteva nell’azzeccar la via più breve per andar via.

Beccacce, continuò il contadino prevenendo le nostre domande, non ce ne sono, qui al Campese, perchè ieri sera, fiutato il tempo, non si son mosse dalla costa; l’acqua e la nebbia seguiteranno tutto il giorno; se fossi lor signori, anderei giù fino a quei due macigni chiamati «la porta» e di , a diritto, cercherei di guadagnare il mare; ma per carità! Si tengano a sinistra perchè se sbagliano e vanno a scendere verso la «porta del piccione» o «cala del corvo» non so come potrebbero fare ad uscirne.

Ebbi un brivido mentre ripigliavo la strada dietro a Pirro (il quale, ora, cominciava a brontolare anche lui), pensando a quelle desolate lande dell’isola, che non sono altro che un ammasso di scheggioni e di lacche rotte rotolati durante qualche cataclisma spaventoso, e fra cui spuntano ciuffi avari di vegetazione che paiono chiazze di un capo tignoso e qualche pino dalle braccia disperate. Un paesaggio dantesco, senza sentieri, che strapiomba sul mare, da cui non esiste approdo possibile, perchè l’acque battono contro scogliere dirupate altissime, stridule di gabbianelli e di chiurli, o sciacquano dentro a caverne ciclopiche, come la profonda e tetra «Porta del Piccione» da cui, appunto, ogni tanto si scagliano dal buio verso la luce, strillando come dannati, frotte di colombi marini, dal volo fulmineo.

Costà, i graniti, bizzarramente scolpiti dal risucchio continuo, dai cavalloni enormi, diabolici scultori che lavorano il macigno danzando, fra gli urli della tempesta e del vento che invece di tornio mulina sul sasso in vorticosi giri concentrici l’aspra arena strappata dal lido, pigliano nomi da paesaggi di favola. Lo Specchio, lo Stivale, la Zampa del Gatto, la Donzella, corrispondono ad altrettante impronte statuarie elaborate dalla fantasia infernale delle tempeste, mentre i seni profondi e inaccessibili chiesero i nomi alla fantasia e alla leggenda: Cala dello Schiavo, Cala volo di notte, Cupa Calanca...

Su coteste desolate solitudini, dove la tenacia preistorica del pastore gigliese ha alzato un capanno che il mimetismo uguaglia ai sassi frantumati, soli elementi di quel paesaggio, o ha coltivato una striscia di vigna cui vigila, goffo fantasma, il classico spauracchio con giubba, cappello e pantaloni sbrendolati al vento, e dove talvolta bela, disperata di pascolo, una greggia sparuta, vola lento il gabbiano gittando il rauco suo grido verso il mare agitato o si libra l’immobile croce del falco: nei tempi remoti vi balzò affamata la capra selvaggia, o vi sbuffò il cignale sperduto.

Per conseguenza ci si tenne a sinistra, quanto si potè, perchè fra il nebbione che il vento ci rammontava in faccia e l’acqua obliqua che ci frustava il viso non ci riuscì di trovare il sentiero e bisognò avventurarsi a caso, cercando di mantenere la direzione.

Ogni tanto piramidi granitiche o fantastiche sovraposizioni di massi, dai quali scattava a volo, tuffandosi nella bruma come una freccia mancata, un falchetto rossastro, ci obbligavano a lunghe diversioni, finchè proprio a sinistra, il cammino ci fu sbarrato da un liscione di granito rosa lungo chi sa quanto, perchè il sipario della nebbia ci impediva ogni altra veduta.

Allora, quando vidi che Pirro si decideva a sacrificare il cane, sciogliendolo, e levava le cartucce dal fucile, ricominciai a sentirmi male; e il peggio fu allorchè il mio compagno si levò le scarpe, invitandomi a imitarlo se mi premeva la pelle! Era tutta la mattina che brontolavo, ma in quel momento non ebbi più ritegno e maledii l’isola, le beccacce, la caccia, con così comica disperazione che Pirro quasi ne rise. Mi scalzai, dunque, ed ognuno si può figurare la deliziosa impressione di posare i piedi accaldati sul granito fradicio, alle otto del mattino, di mezzo novembre. Ma almeno si camminava, e, quel che più monta, si camminava a sinistra. Però, arrivati sull’orlo del liscione concluso da una piccola macchia, proprio davanti a me, si levò la beccaccia!

E noi s’aveva i fucili scarichi, e da per tutto si eran prevedute le beccacce fuor che da quella parte, e cosa più straziante ancora, la beccaccia si buttò precisamente a destra.

Pirro si dava di gran pugni nel capo, fischiava il cane, giurava e spergiurava che sarebbe andato a ribatterla anche nella Cala del Corvo, e all’inferno, se fosse stato necessario.....

Io zitto zitto, mi ero rimesso le scarpe, e di dalla breve macchia a cui ho accennato più sopra, avendo intraveduto in mezzo alla nebbia una certa trasparenza azzurrognola, filavo in modo pochissimo dignitoso, con grande jattura del fondo dei miei pantaloni, sopra un altro liscione lunghissimo, come se fossi in islitta, verso il basso, e a sinistra.....

Feci appena a tempo a sdraiarmi di fianco, aggrappandomi coll’unghie al granito e a fermarmi, perchè il liscione finiva sopra un baratro.

Però, al di di quel baratro, tra lembi sfioccati di nebbia «conobbi il tremolar della marina»!

Attirato dalle mie grida di gioia che parevan quelle del Pio Buglione e dei suoi crociati quando videro apparire Gerusalemme, Pirro mi raggiunse subito collo stesso mezzo di locomozione e i pescatori del porto che andavano alla Messa, sotto un bel sole tiepido, ci domandarono, vedendoci passare unti come topi tettaioli che si affacciano dalla gronda dopo un acquazzone, quante beccacce s’era ammazzato e se al Castello ci faceva bel tempo!

Pirro era così inquieto per il suo cane da non sentir nemmeno le prese di giro che gli davano, ma quella bestia incomparabile, quando s’arrivò all’osteria, si era già seduta sull’anche e ci aspettava dimenando la coda, davanti alla tavola apparecchiata.


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